Com'è difficile diventare grandi. (di Francesco Billari) Un commento all'articolo. di Gianpiero Dalla Zuanna, da La Voce del 6/6/2005
Con riferimento agli articoli apparsi su lavoce.info che pongono l’accento sulla permanenza dei figli in famiglia, dove l’Italia continua a mantenere un primato europeo e – probabilmente – mondiale (Billari e Saraceno). Gran parte delle cose dette sono pienamente condivisibili. Tuttavia, due aspetti sono – a mio avviso – fuorvianti. In primo luogo, la lunga permanenza dei giovani italiani in famiglia è presentata come il segnale di qualcosa che non funziona come dovrebbe, cui bisognerebbe porre rimedio anche con adeguati interventi pubblici. In secondo luogo, viene data per acquisita la relazione fra lunga permanenza in famiglia e bassa fecondità. I giovani italiani (e spagnoli) da secoli escono di casa più tardi dei loro coetanei del nord e centro Europa. In età moderna, in Italia e Spagna era quasi sconosciuta la pratica della "circolazione dei servi", ossia la dislocazione dei ragazzi adolescenti presso fattorie o piccole fabbriche di conoscenti, diffusissima invece in paesi come la Danimarca e l’Inghilterra. Inoltre, in molte zone dell’Italia, gran parte dei giovani maschi dalla famiglia non uscivano proprio, perché portavano la sposa nella famiglia dei genitori. La favola dei tre porcellini non sarebbe mai potuta nascere in Italia. Nel corso del Novecento e fino agli anni Settanta, l’età all’uscita di casa è diminuita perché in Italia – come in tutto l’Occidente – è diminuita l’età media al primo matrimonio, giunta a 23 anni per le donne nate attorno al 1955. Ma in Italia e Spagna – a differenza dell’Europa del Centro Nord, per non parlare degli Stati Uniti e dell’Australia – quando ci si sposa si va ad abitare (se possibile) nei pressi di una delle due famiglie di origine: il 90% dei matrimoni celebrati in Italia negli anni Novanta del Novecento ha visto i due coniugi andare ad abitare a meno di un chilometro dalla casa dei genitori di almeno uno dei due coniugi. Dati questi precedenti storici, quando il matrimonio precoce (in Italia come altrove) passa di moda, è ovvio che i giovani preferiscano restare a casa. Ho usato il verbo "preferiscano" perché – nella quasi totalità dei casi – anche chi potrebbe metter su casa per conto proprio resta con genitori fino al momento del matrimonio (o della prima convivenza, che anche in Italia sta diventando una pratica generalizzata, specialmente nel Centro e nel Nord). Ciò permette loro di avere una miglior qualità della vita, ma anche di accumulare maggiore capitale umano e sociale. Analisi empiriche hanno mostrato che i giovani che stanno a casa più a lungo non sono più egoisti e scioperati dei coetanei che vivono per conto loro (ad esempio, ceteris paribus, fanno attività di volontariato e attività politica come quelli che vanno a stare per conto proprio) (1). Quindi, considerare la lunga permanenza dei giovani a casa come un ennesimo segnale di "ritardo" culturale dell’Italia rispetto ai più civili paesi settentrionali, mi sembra fuori luogo. Piuttosto, siamo di fronte alla "via italiana" (e spagnola) alla modernizzazione dell’ingresso nell’età adulta, rinnovando legami fra padri e figli che già nei secoli passati erano più stretti che altrove. Gli articoli citati suggeriscono anche l’esistenza di un legame organico fra allungamento della permanenza in famiglia e bassa fecondità. In realtà, questa associazione non sussiste. In Francia e in Olanda l’età media al primo figlio è più o meno la stessa che in Italia, ma in Francia nel 2000 sono nati 1.89 figli per donna, in Olanda 1.72 (contro 1.24 dell’Italia). Inoltre, in Italia negli anni Ottanta e Novanta non è diminuita la propensione delle coppie ad avere il primo o il secondo figlio, ma sono quasi sparite le famiglie con tre o più figli. Quindi – tagliando con l’accetta questioni assai complesse – esistono in Europa paesi dove un’elevata età alla prima maternità convive tranquillamente con una fecondità moderatamente elevata, e la bassa fecondità italiana deriva – fondamentalmente – dalla quasi sparizione delle coppie con più di due figli. Da questa lettura della realtà derivano "ricette" politiche un po’ diverse da quelle proposte o fatte intravedere dai due autori citati. Non credo ci sia spazio per politiche volte a incentivare l’uscita dei figli da casa: perché mai lo stato dovrebbe modificare una situazione che gli stessi interessati (genitori e figli) solo raramente giudicano un problema? Non rischieremmo di agire in nome di un modello di famiglia decisamente minoritario nel nostro paese, dimenticando che lo stato dovrebbe evitare di indicare ai suoi cittadini quale sia il modo "migliore" di organizzare la propria vita familiare? Piuttosto, a mio parere, sono pienamente giustificabili politiche di pari opportunità, perché i giovani che non hanno una famiglia alle spalle non si trovino ad essere svantaggiati nella "corsa al banchetto della vita" (mi sia consentita questa citazione di Malthus). Quindi, vanno bene gli affitti agevolati per i giovani, vanno bene le borse di studio, ma va privilegiato chi di queste cose ha veramente bisogno, ossia chi non può godere di una famiglia ricca e forte (ad esempio gli immigrati, gli orfani, i figli di madri sole). Condivido invece la proposta di Billari di "rilassare" le sequenze fra gli eventi di ingresso nella vita adulta, in particolare eliminando tutte le discriminazioni verso le famiglie di fatto, che si avviano rapidamente a diventare – anche in Italia – un passaggio normale della vita di coppia, indipendentemente dall’orientamento sessuale. Trent’anni dopo l’innovativo diritto di famiglia del 1975, è certamente opportuno che la legge recepisca i cambiamenti culturali avvenuti nella formazione delle unioni. Infine, molto brevemente, per quanto riguarda la fecondità, piuttosto che tentare di convincere le coppie ad anticipare la maternità, è opportuno destinare nuove risorse alla tutela delle famiglie con più figli. I dati mostrano chiaramente che i figli unici sono dei privilegiati: ceteris paribus studiano di più e sono più ricchi rispetto ai coetanei con uno o più fratelli. Anche in questo caso, quindi, la giustificazione più solida per un intervento dello stato è garantire pari opportunità ai bambini e ai giovani, a prescindere dal numero di fratelli.
(1) M. Barbagli, M. Castiglioni e G. Dalla Zuanna (2004) Fare famiglia in Italia. Un secolo di cambiamenti, il Mulino, Bologna. |