Burnout, psicopatie e antidoti L’adolescenza di Dio. di Vittorio Lodolo D'Oria, da Proteo Fare Sapere del 24/1/2005
La ripresa dell’anno è sempre difficile. Questa lo è particolarmente dopo che lo tsunami ci ha dimostrato la fragilità dell’uomo. Abbiamo però assistito al primo evento di solidarietà globale perché tutti i paesi sono stati toccati da vicino col loro popolo di vacanzieri alla ricerca di sole e mare. Di fronte al dolore si tace e si collabora dimenticando difetti e disuguaglianze, pagliuzze e travi nei nostri e negli altrui occhi. Dopo tanto chiasso è arrivata un’onda che ha ristabilito il silenzio, resettato le nostre menti, vanificato i nostri ragionamenti. Non sappiamo cosa dire, non possiamo accusare direttamente Bin Laden o i terroristi di Beslan e neppure le solite tre “B” (Bush, Blair e Berlusconi). Non ci resta che imprecare contro il cielo, bestemmiare o … pregare. Quando una cosa è troppo più grossa di noi, conviene ricordarci che siamo poca cosa e chinare il capo, accettare i nostri limiti e condividere la nostra fragilità: tutto il resto è inutile. E come se non bastasse, l’Europa unita ci viene a raccontare che nel vecchio continente ci sono più suicidi che morti sulle strade. Certo, noi italiani ci possiamo consolare perché nei paesi mediterranei coloro che si tolgono la vita sono meno che negli altri paesi. Tuttavia la cosa che più mi ha sorpreso è un’altra. Non è stata studiata la professione svolta da questo popolo di infelici. Dal 1998, quando mi proposi di studiare l’incidenza delle patologie psichiatriche negli insegnanti, arrivai a prefigurarmi – scusatemi la franchezza - anche un più alto numero di suicidi tra gli stessi docenti. La cosa mi sembrava del tutto normale (si fa per dire) a fronte dei risultati dei miei studi (71% di patologie ansioso depressive e 29% di psicosi e schizofrenie). Così provai a chiedere all’Istituto Superiore di Sanità di verificare il mio sospetto. “Impossibile”, fu la risposta. Non esistono dati e statistiche sulla professione svolta dal suicida. Ecco infatti che questo numeroso popolo di “lemming” – anche stavolta - non è stato classificato in base alla professione svolta. La mia curiosità rimane così insoddisfatta e come sempre ce la caveremo con qualche scongiuro e gesto scaramantico. Eppure sono convinto che il dato potrebbe farci tirare un sospiro di sollievo oppure correre ai giusti ripari. Invece ci troveremo sbrigativamente ad erigere un monumento al “suicida ignoto” accanto a quello del milite. Un esimio collega, medico del lavoro, liquidò i miei studi sugli insegnanti dicendo: “Non scherziamo, il lavoro non fa ammalare la mente, piuttosto è l’assenza del lavoro che causa disagio psichico”. Non opposi resistenza di fronte a cotanto senno, ma rimasi convinto che aveva torto almeno per una buona metà del ragionamento. Il troppo (e male) causa lo stesso morbo che deriva dal nulla. Mi spiego con un’analogia: se non assumessi cibo morirei di stenti, ma se continuassi a strafogarmi di manicaretti farei la stessa fine, seppure con tempi diversi. Occorre, come in tutto, un equilibrio. Vediamo un altro paradosso simile. Le relazioni umane sono alla base del nostro vivere sociale ed indispensabili per una buona integrazione nella comunità. Tuttavia se eccediamo nel “darci” agli altri, rischiamo di usurarci. E’ ciò che avviene anche sul lavoro, al punto che riconosciamo delle professioni più a rischio di altre: le cosiddette “helping professions” (medici, insegnanti, preti, assistenti sociali, psicologi). Insomma si deve trovare un equilibrio. Equilibrio da raggiungere anche in famiglia, se non vogliamo far saltare i precari equilibri di coppia. Ecco perché, una volta all’anno, Santa Romana Chiesa celebra la festa della famiglia (oggi che scrivo nella fattispecie). San Paolo ammonisce: “Mogli, siate sottomessi ai vostri mariti. Voi mariti non esasperate le vostre mogli. Voi figli ubbidite ai vostri genitori. Voi genitori non esasperate i vostri figli perché non si scoraggino”. Ce n’è per tutti. Ma nel Vangelo la musica cambia anche per Dio. C’è di mezzo l’adolescenza. Maria e Giuseppe disperati hanno smarrito il figlio (di Dio, tra l’altro) da tre giorni e non possono rivolgersi a “Chi l’ha visto?”. Quando lo ritrovano nessun abbraccio straziante da parte del loro dodicenne ma un insolente rimbrotto: “Come, non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. I Vangeli non ci dicono come reagì Giuseppe, ma so benissimo come si sarebbe comportato mio padre (quello vero, non il putativo). Nemmeno il chirurgo plastico di Berlusconi avrebbe potuto restituirmi i connotati originali. Se però leggiamo fra le righe mi sembra di intravedere un insegnamento utile al mio essere padre. Gesù dodicenne (il Dio adolescente) era nel tempio (la scuola di allora) e non stava cercando di allagare l’edificio, ma conversava con i rabbini. Non stava facendo nulla di male, anzi. Quando i genitori lo trovarono, controllarono la loro legittima ansia e di fronte alla sua reazione non reagirono con sberloni pur “non comprendendo le sue parole”. E qui sta il segreto: se ami e sei ricambiato, puoi permetterti il lusso di non comprendere e di rimanere parimenti sereno. A volte l’amare incondizionatamente sembra essere l’unica via per affrontare l’adolescenza dei nostri figli.
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