Al via la riforma dei Licei.

Filosofia per tutti e latino quanto non basta.

di Giuseppe Savagnone da Avvenire del 13 febbraio 2005

 

La riforma della scuola è giunta ad uno snodo particolarmente delicato del suo iter: la strutturazione del secondo ciclo. Nei giorni scorsi il ministro Moratti ha reso noto uno schema di decreto, ancora provvisorio, concernente la definizione delle norme generali e dei livelli essenziali di prestazione relativi sia al sistema di istruzione (licei) che a quello di istruzione e formazione professionale. Senza alcuna pretesa di esaurire qui discorso, proviamo a fare alcune riflessioni.

La prima, generale, riguarda l’impianto complessivo, basato sulla netta distinzione - pur all’interno di un unico sistema che vorrebbe essere unitario - tra i licei da una parte, l’istruzione e formazione professionale dall’altra. Una distinzione che già risale alla legge 53/2003 e che, contrariamente a quanto potrebbero far credere le tante polemiche di cui è stata fatta oggetto, esisteva già da prima, di fatto, nell’articolazione rigidamente gerarchica che suddivideva il nostro sistema educativo in scuole di serie A (licei), di serie B (istituti tecnici), di serie C (istituti statali professionali) e di serie D (corsi regionali professionali).

Resta però il fatto che - dopo la riforma del titolo V della Costituzione, che assegna alle Regioni la competenza esclusiva sull’istruzione e formazione professionale - la semplificazione del sistema, riportato a due soli rami (sia pure, sulla carta, di pari dignità culturale e interconnessi), ha come primo effetto concreto quello di far passare alle Regioni (e quindi alla serie D) anche una parte delle scuole che prima erano di serie B e C. Ora, questo non è grave là dove le amministrazioni regionali funzionano, ma è catastrofico per le Regioni, soprattutto del sud, dove questo non avviene. Né ci si può consolare indicando, come si fa nello schema di decreto, i livelli essenziali di prestazione a cui le Regioni dovrebbero attenersi, perché quelle a cui ci riferiamo sono abituate a non rispettare neppure vincoli assai più cogenti e nulla las cia prevedere che rispetteranno questi.

Per quanto riguarda i licei, che invece rientrano ancora nella competenza ministeriale, si può subito osservare con soddisfazione che una delle maggiori novità è l’estensione dello studio della filosofia, nel triennio, a tutti gli ordini di scuole. È una innovazione che può contribuire, se verrà ben gestita, a superare il gap che fino ad oggi ha diviso i ragazzi che escono dal liceo classico e scientifico da quelli che provengono dagli istituti tecnici. Molti, in compenso, sono preoccupati per il diminuito peso delle discipline specifiche dei singoli ordini di scuole. È un pericolo reale, da verificare caso per caso, cercando gli opportuni equilibri.

Ancora una rapida notazione a proposito dell’abolizione del latino all’ultimo anno del liceo scientifico: a questo punto non sarebbe preferibile sostituirlo, già negli anni precedenti, con un più agile studio di "Civiltà classica"? Un’ultima osservazione, di ordine generale. Nessuna riforma potrà funzionare se non si riesce a trovare un rimedio alla crisi di identità dei docenti e alla incapacità della scuola attuale di offrire un orizzonte condiviso di valori. I due problemi sono connessi. Solo un corpo insegnante che recuperi le ragioni profonde dell’educare sarà in grado di riscoprire quella prospettiva valoriale che ogni educazione suppone. Credere che tutto si risolva con l’inserimento delle "Educazioni" significherebbe illudersi. Basta ricordare la fine che ha fatto, in passato, l’Educazione civica. La soluzione del problema passa attraverso la formazione degli insegnanti. Una formazione che non può essere solamente di ordine tecnico, per implicare invece un approfondimento anche delle motivazioni. È qui che si gioca il senso della riforma. Sarebbe importante averne una chiara coscienza, in questo delicato momento.