Mobbing

Il mobbing un fenomeno vecchio e nuovo.

di Rino Biganzoli, da Orizzonte scuola del 18 febbraio 2005

(originale da nuovovivereoggi.it)

 

Il mobbing è stato segnalato per la prima volta nel campo psicologico dal tedesco Heinz Leymann nel 1986. Con il termine mobbing l'autore voleva comprendere tutte quelle attività di "terrorismo" psicologico attuate sul luogo di lavoro.

Il fenomeno del mobbing è uno delle maggiori manifestazioni di maltrattamenti e vessazioni psicologiche presenti nel nostro tempo. Ad esso si accompagna una sindrome psicologica ben precisa che si manifesta nelle persone che lo subiscono. Per parlare di mobbing occorre che le pressione continuative siano presenti da almeno 6 mesi.
Secondo una stima dell'Unione Europea del 1977, oltre 12 milioni di lavoratori in Europa ne sarebbero stati vittime.

Essendo un fenomeno di nuova acquisizione sia giuridica che sanitaria, il mobbing è stato sinora molto poco considerata dai servizi per la salute e dai tribunali.

In Italia, in un confronto con il resto d'Europa abbiamo uno dei minori numeri di procedimenti in questo ambito. In Svezia il fenomeno è considerato reato da alcuni anni.

Nel nostro paese si parla di 750.000-1.500.000 di casi di mobbing segnalate (4,2 - 8,4% dei dipendenti) a secondo delle stime effettuate (Ispesl, Istituto per le prevenzione e la sicurezza sul lavoro). Nella maggior parte dei casi viene attuato dai datori di lavoro e superiori (57%) e nel 30% dei casi da colleghi.

Chi subisce il mobbing?

Secondo una indagine italiana in genere la persona che mediamente subisce maggiormente il mobbing è un maschio di 50 anni, alto dirigente, lauto stipendio. Il mobbizzato spesso deve arrivare a cambiare lavoro e a svolgere mansioni inferiori alle sue qualifiche e capacità.

Effetti sulla salute

Gli effetti sulla salute del mobbing possono essere molto gravi. La persona maltrattata psicologicamente per periodi anche lunghi , può manifestare una forma depressiva anche grave e disturbi fisici.

Il mobbing colpisce trasversalmente i cittadini dei diversi livello sociali e può portare ad una tale caduta dell'auto stima da portare a volte anche al suicidio.

Sono colpiti dipendenti di enti pubblici e privati, le grandi città e i piccoli centri, le fabbriche delle multinazionali e le aziende a conduzione familiare.

Una nuova legge in Italia

In questi giorni è stata presentata in Senato una nuova legge contro il mobbing che raccoglie i diversi testi depositati negli ultimi tempi.

Questo disegno di legge prevede la costituzione del reato di mobbing e propone l'inversione dell'onere della prova. Il disegno legge è stato presentato dal senatore Luciano Magnalbò, avvocato vicepresidente della Commissione Affari Costituzionali.

In questo testo il mobbing viene considerato come reato e prevede pene fino a 4 anni di carcere.

Vengono previsti alcuni strumenti per la tutela delle vittime. Tra queste l'inversione dell'onere probatorio (nella tutela civilistica solamente), ovvero l'autore del mobbing sarà tenuto a dimostrare di non avere voluto compiere pressioni sul dipendente.

La tutela garantisce se viene riconosciuto il mobbing l'annullamento di ogni atto compiuto durante la situazione vessatorio.

Secondo Luciano Tamburro, giuslavorista (1) "il quadro normativo attuale è insufficiente. Serviva una legge specifica perché siamo di fronte ad un fenomeno dilagante. Le grandi aziende ricorrono a questo sistema per sfoltire il personale, specie dopo le fusioni societarie. Anziché licenziarli li convincono ad andarsene."

Magistratura italiana e mobbing (2)

Presentiamo in seguito una breve storia dell'introduzione del mobbing in Italia nei confronti con la magistratura tratta dal sito www.mobbing.comunitaeuropea.com

"Il “mobbing” approda nelle aule giudiziarie, ad opera di quei pochi lavoratori e lavoratrici che - superando le “sacche di omertà” dei colleghi aziendali e quindi le difficoltà probatorie - hanno avuto il coraggio di iniziare azioni di risarcimento di danni da dequalificazione e da pregiudizio subito nello stato di salute psico/fisica, in conseguenza delle vessazioni, delle angherie, dell’emarginazione, della sotto utilizzazione o inedia lavorativa, dei controlli ossessivi, della disinformazione scientifica e delle persecuzioni disciplinari di cui sono stati fatti oggetto dai propri superiori (c.d. “mobbing verticale”) e dai loro colleghi, tradizionalmente con l’avallo ed il sostegno, anche in forma di colpevole indifferenza, dei superiori (c.d. “mobbing orizzontale”).

Prima in data 16 novembre 1999 (in causa Erriquez c. Ergom Materie Plastiche SpA (6) e poi in data 30 dicembre 1999 (in causa Stomeo c. Ziliani SpA, il Tribunale di Torino (in veste di giudice unico del lavoro di 1° grado) ha emesso due decisioni dirette a sanzionare – invero con una somma secondo noi inadeguata ma simbolicamente deterrente, liquidata a titolo di risarcimento di danno a favore delle ricorrenti - le prevaricazioni, le denigrazioni, le offese alla dignità, la dequalificazione professionale ed il danno biologico subito da due lavoratrici, entrambe risoltesi a rassegnare le dimissioni dalle rispettive aziende.

La prima lavoratrice era stata confinata a lavorare ad una stampatrice in un locale angusto, inibente il contatto con i colleghi, e costretta a subire le bestemmie e le ingiurie indirizzatele dal caporeparto nei momenti in cui questi veniva richiesto di interventi per “guasto macchina”, con la conseguenza di cadere in “sindrome depressiva di tipo reattivo con agorafobia” occasionante una assenza prolungata dal lavoro per diversi mesi; la seconda lavoratrice, a seguito di sollecitazione alle dimissioni effettuata in un colloquio pressante direttamente dal titolare dell’azienda dopo aver questi appreso che il di lei convivente si era impiegato in un’azienda concorrente, era rimasta così turbata da cadere in uno stato di crisi psicologica (con ricorso all’opera del neurologo durante la conseguente caduta in malattia prolungata per sindrome “depressiva di tipo reattivo”), era stata nel corso della malattia sostituita nel lavoro (di impiegata all’ufficio estero, con compiti di interprete e di traduzioni tecniche in lingua straniera) da una neo assunta dall’esterno, infine destinata (al rientro dalla malattia) a compiti dequalificanti di magazzino, rivelatisi talmente insopportabili da indurla alle dimissioni.

Nelle due similari decisioni, il giudice del lavoro del Tribunale di Torino ha stabilito: “Il “mobbing” (dal verbo inglese “to mob”, attaccare, assalire), designante in etologia il comportamento di alcune specie di animali, solite circondare minacciosamente un membro del gruppo per allontanarlo, è riscontrabile anche nelle aziende quando si versa in presenza di ripetuti soprusi da parte dei superiori ed, in particolare, di pratiche dirette ad isolare il dipendente dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è quello di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio.

Il datore di lavoro – tenuto ex art. 2087 c.c. a garantire l’integrità fisio/psichica dei propri dipendenti e, quindi, ad impedire e scoraggiare con efficacia contegni aggressivi e vessatori da parte di preposti e responsabili, nei confronti dei rispettivi sottoposti – è chiamato a rispondere del risarcimento del danno sofferto (sia biologico sia da dequalificazione professionale) da liquidarsi in via equitativa, più interessi legali e trasmissione degli atti di causa alla Procura della Repubblica per le valutazioni e le eventuali iniziative del caso in relazione a quanto accertato in corso di giudizio”.

Come ha riconosciuto Cass. 20 aprile 1998, n. 4012 (7) in una fattispecie di lavoratore bancario colpito da grave malattia nervosa in seguito a tre rapine nella Filiale ove operava – favorite dal mancato approntamento aziendale delle misure di sicurezza tecnologicamente più avanzate e quindi da violazione dell’art. 2087 c.c. – nel caso in cui ad un inadempimento datoriale si accompagnino per il lavoratore pregiudizi alla salute (depressione, infarti, ecc.), il lavoratore può agire congiuntamente per il risarcimento del “danno biologico” (lesione dell’integrità psico-fisica) e per il risarcimento del “danno morale” – che l’art. 2059 c.c. ricollega alla ricorrenza di un reato – perché la violazione datoriale delle norme a tutela della salute (art. 2087 c.c.) come della professionalità (art. 2103 c.c.), quando determini casualmente danni all’integrità psico-fisica, attualizza il reato di “lesioni personali colpose” ex art. 590 c.p. “atteso che le lesioni colpose costituiscono proprio quella fattispecie criminosa tipica, procedibile d’ufficio (art. 590 c.p.), che giustifica il risarcimento dei danni morali (art. 2059 c.c. e 185 c.p.)”(così Cass. n. 4012/1998, cit.).

Resta pacificamente autonoma e praticabile disgiuntamente l’azione penale (diversa da quella risarcitoria in sede civile per i danni morali) nei confronti dei responsabili aziendali (superiori) e/o dei colleghi “mobber” (responsabili di aver posto in essere pratiche vessatorie ed emarginanti, determinative di dequalificazione e forzata inattività, fonte di pregiudizi alla salute), ai fini dell’irrogazione delle pene restrittive della libertà personale ex art. 590 c.p.

Naturalmente il lavoratore o la lavoratrice si debbono ben guardare da intraprendere iniziative giudiziarie, sia in sede civile che penale, caratterizzate dall’addebito di “mobbismo” (o di molestie sessuali) se non hanno la ragionevole certezza di poter provare (anche per testi) gli addebiti, perché – come ha avuto modo di sancire la Cassazione nella recente decisione dell’ 8 gennaio 2000, n. 143 (in causa Filonardi c. Henkel SpA (8) – l’impossibilità di provare gli addebiti, pur in presenza di un inequivoco clima di omertà aziendale (giudizialmente riconosciuto), legittima il datore di lavoro anche al licenziamento per “vulnerazione del requisito fiduciario” insito nel rapporto di lavoro, a seguito di un addebito risoltosi in diffamazione o denigrazione di un responsabile aziendale, anche in considerazione del fatto che la patologia indotta (nella fattispecie, ed in via di normalità) dal mobbing “aveva prodotto - ad avviso della Cassazione (n.d.r.) - uno stato di alterazione emotiva ma non una malattia limitante la capacità di intendere e di volere” della dipendente accusatrice.

Le attuali decisioni del Tribunale di Torino (rese in sede civile) erano state precedute da un analogo interessamento della magistratura penale rivolto nei confronti dei c.d. “confinati all’inattività” nella palazzina Laf dell’Ilva di Taranto, ove da sede dell’ex laminatoio a freddo - divenuta poi spettrale ricordo di un’era finita - aveva ricominciato a ripopolarsi dal maggio 1997 (raggiungendo il numero di oltre 70 presenze all’inizio del 1998), tramite l’invio ad opera della Direzione aziendale di “impiegati” che non avevano accettato la richiesta di “novazione” del rapporto di lavoro impiegatizio in quello di “operaio”, a parità di stipendio. Quel gruppo di ex impiegati era finito per diventare una folla di nulla facenti, vagolanti nei lunghi corridoi o stanziale con gli occhi fissi sui muri degli uffici spogli, ridefiniti “reparto confino” (di infausta memoria ante Statuto dei lavoratori) o “palazzina lager” o “ufficio spauracchio”, in considerazione dell’attesa finalità aziendale di piegare per tal via i riottosi alla soluzione dequalificante della “reformatio in peius” del loro rapporto di lavoro, con trasformazione da impiegati in operai. Fino a che, nel novembre 1998, il locale procuratore della Repubblica Francesco Sebastio è arrivato con i carabinieri, ha fatto uscire i 79 lavoratori presenti e ha messo i sigilli sulla palazzina sequestrardola come possibile corpo di reato. Come asserisce l’estensore dell’articolo “Professione nullafacente: pagati per non lavorare”, pubblicato su “Correre Lavoro” (supplemento del Corriere della sera) del 21 gennaio 2000, p. 3 – “era quello il primo passo che ha portato il 15 dicembre 1999 all’apertura di un processo contro Emilio Riva, suo figlio Claudio ed altri 10 dirigenti Ilva, con le imputazioni di tentata violenza privata e di frode processuale. Un procedimento che per ora si è fermato alle premesse e che verrà ripreso il 28 marzo 2000, ma che sicuramente rappresenta il primo processo per “mobbing”, mai intentato contro un imprenditore”. Naturalmente l’azienda nega il “mobbing” collettivo e sostiene trattarsi di un “reparto di attesa per dipendenti oramai privi di un posto di lavoro in Ilva, l’unico modo per evitarne il licenziamento”.

 

(1) Luciano Tamburro, al convegno "Mobbing oggi, dalla riflessione alla legge" tenutosi a Roma in Senato. Citato da Margherita De Bac, Corriere della sera dell'11 febbraio 2005.

(2) da www.mobbing.comunitaeuropea.com