LA TESTIMONIANZA

Lo sfogo di un´insegnante: "Il risultato invece si vede fra generazioni".

"Il nostro lavoro è considerato merce

da mettere sul mercato".

"Sono di ruolo da 25 anni ma capisco lo stesso cosa significa essere precari"

l'aggiornamento Con i nostri stipendi i libri, il cinema, il teatro, la cultura

hanno un costo insostenibile

E poi hanno tagliato le ore, non possiamo insegnare con tempi distesi .

da la Repubblica del 26/2/2005

 

«IN una parola, direi: fare l´insegnante, oggi, vuol dire sperimentare una incredibile solitudine». Roberta Alessi ha 54 anni, è insegnante di lettere alla scuola media Carlo Del Prete di Lucca. E´ di ruolo da 25 anni, non è mai stata una precaria, ma, dice, «anch'io, e forse tutti gli insegnanti della scuola italiano, sappiamo lo stesso che cosa vuol dire sentirsi precari. Che è una condizione non soltanto giuridica, ma, prima ancora, esistenziale». Ovvero: «Riguarda il modo in cui si sta a scuola, il riconoscimento di valore del tuo lavoro. Che semplicemente non c´è». Non è una parola d´ordine del sindacato che ce l´ha con la Moratti: «Lo senti ogni giorno, che il tuo lavoro non è apprezzato per il suo valore aggiunto specifico, cioè come lavoro intellettuale. E che si vorrebbe considerarlo una merce, da mettere su un mercato. Mentre merce non è, e non potrà mai essere, perché il suo risultato si vede nell´arco di generazioni, nel tempo, non subito».

Dunque, le retribuzioni: mille e 400 euro a fine carriera. Come dire, fa notare la prof, «che puoi dimenticarti l'autoformazione, l'autoaggiornamento, fatti di libri, di cinema, di teatro, di occasioni culturali. Che hanno un costo. Insostenibile». Del resto, nessuno obbliga nessuno ad aggiornarsi. «Che tu faccia o no qualche corso, sono affari tuoi. Culturalmente non stimolati. Sì, potremmo definirci così» dice Alessi. Ovvio che si finisca per diventare dei routinier: «Adagiati sui ritmi quotidiani, sulle nostre belle ferie?». La famosa demotivazione. Capace di ridurre una categoria cruciale, proprio come categoria, per la diffusione sociale della conoscenza, in una massa di individui soli, preoccupati di sopravvivere.

Ma poi, e forse ancora di più, per chi, nonostante tutto, avrebbe comunque voglia di lavorare seriamente: «L´impossibilità di lavorare con tempi distesi. Sì, la riforma Moratti: il taglio ai tempi scuola, ai contenuti, la riduzione dell'orario, per cui io oggi invece di 11 ore ne ho 9. Per me, un'umiliazione, non so come altro definirla». Senza contare il taglio di materie come lingua, musica: «Un grande impoverimento di lavoro, di professionalità. Io vorrei tanto poter interagire con questi ambiti, così legati alla mia materia, dentro la scuola. Sarò costretta, invece, ad accettare che le famiglie si rivolgano fuori, ai privati».

Ma non è soltanto questione della riforma. «E un clima culturale, che volge al peggio» dice Alessi. Il rapporto con le famiglie, per esempio. La riforma prevede che con loro si discuta la famosa programmazione personalizzata del ragazzo, «figurarsi se a me non va di parlare con le famiglie, ma dico: non sui contenuti, o sui metodi, ovviamente, ma sui valori da trasmettere, sul nostro orizzonte educativo. E invece, ecco le famiglie che pretendono di mettere bocca su tutto, contestano, fondamentalmente non si fidano. Non collaborano, nemmeno negli organi collegiali. Per forza, dico io: con l´immagine che abbiamo. Se non ti prende sul serio il tuo datore di lavoro, lo Stato, perché devono farlo loro?».

E vogliamo parlare dei rapporti con i colleghi? «Se c´è qualcosa in cui nella scuola italiana si era riusciti a impostare un vero cambiamento culturale, era il lavoro collegiale, la collaborazione su un piano di parità ognuno con le sue competenze. Adesso, è arrivata la gerarchizzazione: il tutor, l´insegnante prevalente per le scuole medie, significano di fatto metterci gli uni contro gli altri». E a preparare il terreno, dice la prof, «sempre quel famoso senso si stanchezza, di abbandono a se stessi, di non motivazione: non essere socialmente riconosciuti, non avvertire un effetto di ritorno di quello che fai, ti impedisce di mettere a fuoco una tua identità, come singolo insegnante, e come categoria, una unità di intenti su iniziative forti. Non ci si crede più, tutto qui. E ho l´impressione che sia proprio questo, che si vuole?». Una volta, ricorda Alessi, quando lei ha cominciato a lavorare, si diceva che lo specchio della tenuta democratica di un paese fosse la sua capacità di valorizzare il lavoro non materiale: «Oggi, scalzati giorno per giorno nelle nostre certezze, perfino a noi capita di dubitare del valore di quel che facciamo. Posso dirlo? Si faccia qualcosa, prima che sia la democrazia, e non più solo gli insegnanti, a correre rischi?».