La Moratti e la lingua di Einstein. da l'Unità del 20/2/2005
Un grande vecchio tira fuori la lingua nei
poster del ’68: è il profeta che ha cambiato l’alfabeto dell’universo.
Adesso i poster sono finiti, ma i nuovi ragazzi sanno chi è? Il
centenario della scoperta della relatività, annus mirabilis 1905,
poteva essere l’occasione per rianimare la memoria di Albert Einstein
oltre il perimetro degli addetti ai lavori: non solo docenti,
ricercatori, studenti, ma anche i ragazzi lontani dalle cattedre della
scienza. L’Europa fa coincidere la celebrazione con i dodici mesi che
l’Unesco dedica alla fisica: Spagna, Inghilterra, Zurigo e Bruxelles,
e poi Giappone e Stati Uniti, insomma, tutti, organizzano seminari
sollecitati dai ministeri dei loro Paesi. Ed è un silenzio strano perché l’Italia è stato il primo rifugio della famiglia Einstein in difficoltà. Nel 1894 il ragazzo Einstein deve interrompere il ginnasio: il padre è rimasto al verde. Lasciano Monaco di Baviera per trasferirsi a Milano, ma i traslochi continuano. Cambiano casa a Pavia, vanno abitare a Venezia, prendono dimora a Genova. Alla fine riattraversano le Alpi per acquietarsi in Svizzera dove Albert Einstein si laurea in matematica e fisica al politecnico di Zurigo. La vera storia italiana è però una storia della maturità: il soggiorno a Bologna nel 1921. L’ha raccontato una signora alla vigilia del novantesimo anniversario dell’anno mirabile. Anche la signora stava per compiere novant’anni nella sua bella casa di Torino. Adriana Enriques sposata De Benedetti, mi accoglie sfogliando un libro rilegato di cuoio marrone comprato a Firenze quand'era ragazza, una volta che aveva fatto visita al nonno Cohen. Il libro raccoglie lettere e fotografie, piccole storie di una grande famiglia ebraica. Giorni felici e giorni di tristezza. Non è proprio un volume, ma il carnet che le ragazze di buona famiglia tempo fa offrivano agli amici dei padri e agli amici del cuore, per fissare in poche righe il ricordo della loro presenza. La felicità che Adriana Enriques non intendeva dimenticare riguarda un incontro avvenuto un mattino dell’ottobre 1921 alla stazione di Bologna quando aveva 19 anni. E di quell’ottobre ‘21 è anche la dedica che apre il carnet. «Lo studio, e in generale la ricerca della Verità e della Bellezza, sono un capo in cui è permesso restare bambini per tutta la vita. Ad Adriana Enriques, con la memoria della nostra conoscenza». Firma di Einstein. Da pochi mesi gli era stato assegnato il Nobel per la spiegazione dell’effetto fotoelettrico mentre la sua teoria della relatività seminava entusiasmo e sgomento fra gli scienziati d’Europa. La piccola di famiglia deve andargli incontro alla stazione: il padre Federigo Enriques, storico e filosofo delle scienze, ispiratore della scuola italiana di geometria algebrica, aveva invitato Einstein all'università di Bologna dove teneva cattedra. Gli era rimasto un piccolo gruzzolo dopo aver pagato le spese di un convegno di filosofia. Lo aveva disciplinatamente depositato in banca nel 1911 sul conto dell’università. Poi la guerra, poi l' Italia agitata, ma fatte e rifatte le somme dietro la porta fatale dello studio davanti al quale i figli dovevano passare in punta di piedi per non disturbare (lo racconta il figlio Giovanni che ha diretto la Olivetti e riportato la Zanichelli allo splendore perduto), un giorno del 1921 decide assieme Tullio Levi Civita, le cui teorie vengono indicate alla base dell’intuizione di Einstein; decide, di invitare il premio Nobel a tenere tre lezioni nell’ateneo di Bologna. «I soldi ci sono e li spendiamo...». Lo annuncia durante il pranzo. «Contento come un ragazzo». Nell’Italietta di allora i ricercatori si affacciavano in Europa con i soldi che risparmiavano sulla loro pelle. Bisogna dire che nel millennio elettronico, un secolo dopo, la situazione è rimasta più o meno la stessa. «Come faccio a conoscerlo?», chiede Adriana. Deve andare in stazione ad accoglierlo. Gli mostrano la foto, piccola e senza occhiali apparsa su un giornale. Con due amici si apposta lungo il treno che arriva da Milano. Uno davanti al vagone di prima classe, Adriana sotto i predellini della seconda; Einstein smonta dalla terza classe assieme a un ragazzo di quindici anni, figlio del primo matrimonio. Il padre gli ha regalato il primo viaggio in Italia. Durante il pranzo Einstein, il professor Federigo e Levi Civita continuano a parlare nel silenzio dei ragazzi e delle mogli. Ogni tanto l’ospite allunga gli occhi verso la signora Levi Civita, allieva «giovane ed avvenente di nome Illibera della quale il professore si era innamorato. Poi mio padre, Levi Civita ed Einstein escono per una passeggiata...». Non riescono a mettersi d'accordo. Discutono, si animano. Il professor Federigo segna la polvere col bastone per rappresentare le sue teorie. «Einstein risponde scrivendo sulla stessa polvere le formule che gli danno ragione». ll premio Nobel ed Enriques si scrivono lettere e lettere mentre l’Europa cambia e i brividi del razzismo impauriscono la Germania. Enriques gli offre rifugio in Italia, insegnamento a contratto all'università di Roma. «Nella nostra casa di via Sardegna siamo contenti quando arriva la sua lettera da Berlino. La aspettiamo...». È il 1923. Nella stessa casa, a pianterreno, abitano anche i Levi Civita. «Caro professor Einstein, lei starà bene assieme a noi...». Invece il postino porta la risposta inattesa: «La sua lettera mi ha profondamente commosso e sinceramente le confesso che preferirei lei e la società Levi Civita ai colleghi di qui. Nonostante vi sia molto antisemitismo per il momento non ne soffro. Al contrario: l’antisemitismo costringe alla prudenza e fa si che certe persone mi importunino meno di quanto farebbero in condizioni normali. Alla mia età non è semplice cambiare ambiente. Manca l'elasticità per amalgamarsi nel nuovo. Per questi motivi, nonostante i sentimenti di riconoscenza, e simpatia che nutro nei confronti Suoi e del Suo paese, sempre amato in modo particolare, non è possibile accettare l'affettuosa proposta. Ma se in futuro l'inasprimento della situazione mi costringesse a dover abbandonare il mio nido, mi rivolgerò a lei con gioia e piena fiducia. Suo Albert Einstein». Il momento arriva dieci anni dopo. «A Berlino dilaga l’antisemitismo, Hitler è in marcia verso il potere e Einstein scrive chiedendo di venire in Italia», è il racconto di Adriana Enriques. «Papà chiede aiuto a mio zio, Isaia Levi, molto vicino a Mussolini: ha inventato la penna Aurora, icona che segna il costume degli anni quaranta. Mussolini riceve mio padre: “No, professore”, risponde. “Non sono antisemita, ma perché importare uno scienziato di fuori quando abbiamo tanti scienziati da appoggiare in Italia?”. Ipocrisia per ricattare sentimentalmente la nostra famiglia. Perché mio fratello Giovanni era iscritto a ingegneria, e i suoi amici Emilio Segre ed Ettore Majorana passano a fisica e portano in casa i ragazzi di via Panisperna: Fermi, Amaldi». Mussolini lo sa e mette il professore con le spalle al muro per non dispiacere al signore che marcia a Berlino alla testa delle camice brune. La risposta del professor Enriques ad Einstein non nasconde l'amarezza della sconfitta: «Se fosse venuto prima, chissà...». Sono passati settant’anni; anche i ministri della repubblica mantengono le distanze. La scoperta di Einstein va ricordata, ma senza esagerare. Ognuno si arrangi come può. |