A proposito di quello che succede intorno alla scuola. E poi vi entra e la connota. di Andrea Bagni ("école", Firenze), dal dal CESP dell'1/4/2005
Forse non è male partire dalla consapevolezza che viviamo in tempi eccezionali. In una situazione d’emergenza non solo della scuola, ma di tutto il contesto che la circonda e con cui "respira" – o soffoca. I tempi eccezionali sono quelli di una possibile tragedia (politica, culturale, scolastica) ma forse anche di una possibile svolta: altrettanto politica culturale scolastica. Anche nel senso, per esempio, che non basterà tornare un giorno a prima del berlusconismo o della Moratti. Quel prima assomigliava già molto (troppo) al dopo. Forse lo ha, in qualche misura, prodotto. In questo senso è vero che non si può fare una riforma della scuola ogni cinque anni: voglio dire che è vero che non basterò cambiare qualcosa e aggiustare qualcos’altro del fare scuola e "fare riforma". Occorre proprio cambiare sguardo: modalità forme paradigmi con cui pensare la scuola. Con cui fare politica e fare società. Costruire rapporti. Forse può essere utile vedere in questi tempi terribili di guerra globale, nel dominio assoluto di ciò che è legge di mercato e amministrazione paramilitare della vita collettiva, anche una occasione (l’unica realistica forse) di costruzione politica di relazioni fra diversi/e, di spazi pubblici per il confronto e il discorso comune. Nella scuola, nella società aperta, nell’Europa in costruzione (possibile luogo nuovo di diritto post-stato nazionale) un’occasione per la pace – che non può essere nell’ingiustizia e nell’esclusione garantita dagli eserciti. Vorrei allora partire dalla mia esperienza, dai luoghi che ho attraversato e in cui sono stato in questi ultimi tempi, che non sono solo luoghi di scuola ovviamente. La riflessione che voglio fare arriva alla scuola, ma da un orizzonte più largo. Conta per me il lavoro nella rivista école, l’incontro ormai antico con l’autoriforma gentile, ma soprattutto il movimento che nel 2001 da Genova è cresciuto in tutta Italia e rappresenta un’esperienza politica straordinaria. Il nodo è: nella scuola e fuori che cosa vuol dire fare politica oggi, nella condizione attuale della scuola morattiana e della società berlusconiana, della sua (s)composizione e delle sue relazioni. Il nodo è anche il rapporto o non-rapporto tra sfera delle istituzioni, della rappresentanza, e sfera dei movimenti, delle esistenze politiche e delle insorgenze sociali, nella scuola e fuori. Nell’esperienza fiorentina del movimento, ma anche a livello generale mi sembra, vive un antico conflitto, e una possibilità. Conflitto tra la modalità politica vertenziale dell’avanguardia di lotta, della sigla sindacale spesso in competizione con altre, che ha il compito di sensibilizzare gli altri "che non si sono ancora accorti"; e l’atteggiamento invece "mediatico", cauto, che si fonda sull’idea che la politica si fa dal basso ma per acquisire i consensi e poi finalmente vincere le elezioni, farsi stato e governo e, una volta giunti ai vertici, cambiare la società dall’alto. Io penso che questi modelli in un certo senso classici della politica novecentesca non vadano più bene. E qui sta l’occasione. Non sono ripercorribili quelle strade che abbiamo conosciuto: né la strada di una sorta di autonomia del sociale, modello pedagogico dell’avanguardia di lotta che deve illuminare gli altri, smuoverli, aggregarli e poi condurli alla vittoria; né la vecchia nozione di autonomia del politico dove quello che conta è quello che avviene nella sfera del palazzo, un luogo di rappresentanza che è diventato di rappresentazione del potere, meccanismo autoreferenziale che ha perso qualunque rapporto con la dimensione esistenziale della politica. Non sono ripercorribili queste strade e non bisogna neanche averne nostalgia. C’è bisogno di una nuova nozione e pratica di politica. Per certi versi la destra è stata più consapevole e più rapidamente di questa trasformazione, perché la sua forza non sta solo nel possedere il monopolio degli strumenti di comunicazione di massa, ma nel fatto che la grammatica del suo messaggio assomiglia già strutturalmente alla forma destrutturata della società. Alla sua sintassi frammentata. La vita delle persone e le loro relazioni sociali sono già organizzate come in un palinsesto televisivo, e sono "solitudini globali" in competizione tra loro, tenute insieme dalla rete degli ipermercati e dell’essere telespettatori, l’unico vincolo sociale che si vorrebbe rimanesse. La forma del potere non è solo la repressione e il controllo delle insorgenze sociali, ma si esercita già nel produrre le soggettività in quella forma particolare e inerte, connotata da relazioni frantumate e frammentate. (Non a caso è abbastanza difficile definire Forza Italia un partito; sembra più una rete commerciale tipo franchising, un marchio con centri vendita dispersi sul territorio). Secondo me, nel disastro, la strada è ricostruire le pratiche di un altro tipo di società immediatamente politica, connotata nella sua grammatica profonda da relazioni né solo private né solo istituzionali, uno spazio pubblico (quello della repubblica) interfaccia tra domus e ecclesia, luogo comune che è territorio, piazza, scuola: agorà. (Si potrebbe ripensare anche all’importanza di un altro concetto antico come quello di "stato di diritto", che garantisca degli spazi agibili per un fare società che sia immediatamente fare politica). In questo senso anche il concetto di non violenza (di cui si è tanto discusso) e di Europa, può essere davvero prezioso, perché nel momento in cui la politica – quella degli stati e degli eserciti - produce l’incubo di una società di fondamentalismi gli uni contro gli altri armati, e di religioni le une contro le altre armate, lo spazio in cui agire diventa quello forte della sua "debolezza" di una non-potenza non-militare. Bisogna ripensare quella che una volta è stata definita possibilità di un’autoriforma della politica, l’apertura e il tessuto di uno spazio del discorso. A proposito di quello che succede dentro la scuola e entra nelle esistenze di chi la abita. Ma la scuola poi cosa c’entra in tutto questo? C’è un disastro molto simile a quello che investe la società, il disastro di una scuola destrutturata e insieme tecnicizzata, progettata sul lavoro postfordista come lavoro sempre più frammentato, precario, incerto, ricco di sapere magari, ma di sapere povero e solo strumentale; una scuola come educazione alla docilità della nuova forza lavoro, all’adattamento flessibile alle esigenze sacre del mercato del lavoro. Non all’autonomia. Una scuola che si fa simile al peggio del lavoro (anche in molta riflessione della sinistra), che per essere legata alla società si frammenta, si fa somma di segmenti, di conoscenze "usa e getta", di progetti e progettini dove il genitore–cliente sceglie gli elementi e la formazione è la composizione di questi segmenti di sapere che devono essere tali da ingranarsi gli uni con gli altri, sempre più tecnicizzati e omologabili. Dunque bisogna avere sempre più prove d’ingresso, "competenze" d’uscita, certificazioni che devono già definire una sorta di sapere astratto, riconoscibile dappertutto ed equiparabile. Insomma se le attività direttamene produttive si sono fatte sempre più flessibili segmentate precarie, allora la formazione dovrà essere simile: breve, modularizzata, componibile come una cucina ai desideri del cliente. Privatizzata nella sua "anima", anche se "pubblica" dovesse restare la ragione giuridica dell’ente gestore (e non resterà). Nella società del rischio e dell’insicurezza, il sapere diventa "capitale conoscitivo" da acquistare individualmente e da spendere sul mercato del lavoro come opportunità di affermazione personale: patrimonio delle "risorse umane" nella competizione sociale. Finisce che una costruzione di conoscenza che ha carattere qualitativo e relazionale dalla scuola materna fino all’università (legata a contesti significativi e a un senso condiviso) diventa un bene quantificabile, da tradurre in segmenti da certificare (perché già certificabili nella loro struttura) in un port-folio o libretto formativo che mette a valore tutta la propria vita (già quella dei bambini e delle bambine...), tradotta in crediti, ridotta ad una misura astratta e dunque economicamente riconoscibile. Allora ecco l’autonomia scolastica (che alcuni, molto ottimisticamente, considerano luogo privilegiato di una possibile opposizione alla Moratti) ridotta ad organizzazione verticale, aziendalistica e insieme neofeudale (fondata su vincoli di fedeltà personale al "signore" dirigente), come in un fast food del sapere o catena di montaggio (e smontaggio) delle biografie professionali. Accanto a questo, inoltre, è cresciuta qualche anno fa la proposta "speculare" di una scuola per così dire "assistenziale" (quella dei CIC) che pensava di curare il pomeriggio come una sorta di sportello d’ascolto (termine economico, come tanti altri oggi utilizzati dalla scuola: crediti, debiti da saldare, port-folio, libretto ecc.) il disagio che produce la sua dimensione buropedagogica, da megamacchina dei voti, del mattino: ancora al fondo ultracontenutistica, modello dare–avere delle conoscenze; ancora il classico versare "cultura" nelle teste ritenute vuote per poi misurare il restituito... (ma che poi, magari agli esami di stato, si accompagna quasi necessariamente all’accontentarsi dei docenti di un minimo assoluto, di una marmellata indistinta di contenuti...). Mi sembra che alla fine gli/le insegnanti tendano ad una depressione profonda, oppure inclinino a una pedagogia "nera" di micropoteri un po’ miserabili da gestire magari agli scrutini. Ritorna anche forte la tentazione del "disciplinarismo", l’autorità di un tempo oggi perduta, da ritrovare e far derivare dal carattere alto e altamente formalizzato del sapere da trasmettere: tutto giù compiuto, solido, consacrato dalla tradizione. Insomma, ancora da fuori della scuola e da sopra di noi. A proposito di quello che esiste nella scuola, resiste ed esce nel mondo che la circonda. Finisce che per trovare segni di vita nella scuola (in particolare nelle superiori) bisogna forse lasciarne perdere la dimensione istituzionale (riforma, organizzazione didattica, pof) e cercare in microspazi come quelli della classe – le relazioni con ragazze/i, il lavoro concreto su certi contenuti con certe pratiche – e nei piccoli gruppi di insegnanti affini; oppure in macrospazi, ad esempio quelli del movimento per la pace: le piazze di questi anni, Genova 2001, Firenze 2002, le bandiere alle finestre, le carovane, Roma 20 marzo... La ricerca in fondo di una dimensione esistenziale della politica. Qui mi pare sia il contatto con la scuola di tutti i giorni: nella soggettività e nelle passioni, nel coinvolgimento effettivo, nell’esserci delle esperienze. Qui le due dimensioni micro e macro s’incontrano forse, nel costruire senso a partire da sé e dal luogo dove si è. E quello che accade a scuola acquista un senso politico straordinario. È la scuola come luogo pubblico e "politica prima". Ed è qualcosa che ha a che vedere ovviamente col sapere. Non è altra cosa, in un certo senso, dal fare scuola. Per questo bambine e bambini hanno invaso le piazze: perché costruire conoscenza è stare in un certo mondo di relazioni. Il sapere ha senso nelle trasformazioni di oggi se è aperto, non separato ancora una volta dalle pratiche e dalle forme della sua costruzione. Un incontro fra generi e generazioni diverse, attraversato dai dubbi e dai desideri di ragazze e ragazzi, in grado di aprire le discipline alle domande "dall’interno" delle discipline stesse. Indisciplinate. È un sapere anche questo pubblico: né di famiglia, né di mercato, né di stato o ministero. Un sapere critico per un luogo che è di frontiera, cioè consapevole che si costruisce fra punti di vista diversi che cercano tuttavia un mondo comune. Altrimenti si finisce per ridursi ad essere una agenzia formativa fra le tante che preparano alla competitività individuale sul mercato del lavoro. Qui invece è possibile cogliere l’occasione – nella crisi postfordista del valore di scambio del sapere – per l’affermazione del suo valore d’uso. Formare alla società esplosa delle biografie aperte, non all’occupabilità o alla gestione oculata del proprio capitale conoscitivo, da parte di una nuova forza lavoro precarizzata, ma alla navigazione autonoma nel mare aperto della postmodernità. Perché se è vero che oggi il sapere è forza produttiva, che conoscenza linguaggio comunicazione sono messe al lavoro, quella che viene tradotta in lavoro è una conoscenza operativa minima e miserabile; che non si vuole affatto sia formata nelle scuole o nelle università (almeno non in quelle che abbiamo conosciuto fino adesso) e ha orrore di una dimensione personale e critica; neppure ha bisogno di tempi e spazi distesi, lenti, specifici. Si tratta di una alfabetizzazione estesa quanto piatta, priva di profondità; flessibile e polivalente quanto incapace di scavare e approfondire, diffusa per contatto e assimilazione sociale. Comporta l’accettazione del mondo, il vivere senza passato in un presente assoluto, in chiave di adattamento e adesione all’esistente. Alla scuola chiede davvero il capitale poco più che controllo e socializzazione. Una sorta di prima esperienza "formativa" di adattamento alla mega-macchina buropedagogica, distributrice di pagine e voti, debiti e crediti – come una fabbrica fordista del sapere di massa: luogo di moduli da assemblare, test da somministrare, certificati da certificare, rendimenti da misurare; tutto in termini rigorosamente quantitativi e prestazionali. Una via di mezzo fra fabbrica, caserma e "parco giochi" di formazione del consumatore: istruito ai libretti d’istruzione e alla ideologia della subordinazione. Bisognerebbe lavorare nella scuola per un altro sapere – aperto, informale, pubblico, capace di critica dell’esistente; bisognoso di tempi lenti e luoghi ravvicinati relazionali... Un sapere che costituisca sovversiva eccedenza culturale. Che operi traduzioni e sia capace di selezione fra la miriade di informazioni che ormai costituiscono rumore di fondo; una formazione di base e comune, disinteressata quanto interessante quando le conoscenze che sono impiegate nelle professioni invecchiano a ritmi che la scuola non può inseguire; una conoscenza che sia sistema operativo (linux meglio di windows) su cui poter far girare i nuovi programmi, piuttosto che professionalizzazione precoce che ha senso solo come rassegnazione e futura fedeltà all’azienda, nuova unica "famiglia" possibile. Allora la battaglia politica di questi mesi sul tempo pieno non è solo un conflitto sindacale-vertenziale, pure fondamentale. Le iniziative sono state le più varie, dalle occupazioni di scuole ai banchi nelle piazze e nei cortili di scuola, alle invasioni di giardini e paesaggi urbani, alle "merende informative". Sono apparse dai racconti disseminate, puntiformi e curiosamente domestiche; ispirate al portare alla luce quello che si fa fra le mura scolastiche: il dialogo, l’incontro, la costruzione di un discorso (e allora canzoni cartelloni manifesti...). Voglio dire che non ci sono state forse grandi organizzazioni dietro e il cuore di tutto è oltre le piattaforme. Sono i soggetti stessi che abitano ordinariamente le scuole, che difendono (e producono) il loro senso e i loro territori. È come se dalle scuole fosse venuto quasi l’esempio non solo di cos’è una scuola – dei suoi ritmi, delle sue relazioni di cura e attenzione, delle sue forme non ingegneristiche di costruzione del sapere, non puramente trasmissivo – ma un po’ l’esempio anche di un altro modo di fare politica, a partire dal fare polis. La scuola come la piazza, il "corso" del paese, la casa del popolo... Un luogo di relazioni che costruiscono una comunità (e non di sangue e suolo). Né solo merci, né solo telespettatori, né masse indistinte pronte ad essere arruolate in eserciti o aziende. Singolari esistenze politiche. Per questo capaci di resistenza. In fondo è del tutto naturale che le scuole - soprattutto quelle di base - siano luoghi pubblici di incontri che si sottraggono alle trasmissioni dall’alto, alla frammentazione gerarchica di insegnanti e insegnamenti, crediti e port-folio. O sono altro da questo, o non sono niente di decente. Ma non si tratta più solo di sommare le proteste e portarle a sintesi, quanto di riconoscere e partire nelle pratiche e nelle analisi da un percorso di esperienze e soggettività ricche e radicate sotto la visibilità delle manifestazioni - più forti mi sembra anche dei casini tradizionali delle leadership, di partito sindacato movimento. Qualcosa che ha a che vedere con la lunga durata dei processi, e con l’autonomia dei soggetti. Si tratta di costruire non solo barricate ma territori. Già dotati di senso e cioè radicalmente conflittuali, di questi tempi. In fondo è un’esperienza d’incontro generazionale, di sapere e di scuola. Elementare.
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