Diario di classe.

Sigle e confusione nel lessico dei prof.

da Il Corriere della Sera del 25/4/2005

 

Invalsi non è un passato remoto latino e nemmeno un termine usato da Dante Alighieri nella Divina Commedia. E Doa e Dop non sono errori: un lapsus, il primo termine, di uno studente che pensava ad un galleggiante o ad un terribile serpente ma che ha scritto doa anziché boa o che ha saltato, per distrazione, l'ultima vocale dell'avverbio «dopo». Sono sigle. La fretta, il vivere veloce si è trasmesso ovviamente anche al linguaggio: quanto tempo si impiega a pronunciare Istituto nazionale per la valutazione del sistema scolastico italiano? Invalsi è decisamente più rapido. Doa e Dop sono categorie di insegnanti, insiemi determinati non dalla materia insegnata, ma dal fatto che i suddetti insegnanti non abbiano una sede definitiva, le sigle significano infatti «docenti organico aggiuntivo», la prima, e «provinciale» la seconda. Un cenno a parte merita la sigla Pof: si tratta dell'acronimo delle parole «piano dell'offerta formativa», il documento con il quale si illustrano le attività didattiche ed educative e l'organizzazione delle stesse, proposte da ogni singola scuola. I guai arrivano quando si pensa che possa significare «premature ovarian failure» che, tradotto dall'inglese, significa menopausa precoce. Poiché la maggior parte degli insegnanti sono donne che comunque dovranno restare in classe almeno fino al compimento del sessantesimo anno d'età, qualcuno potrebbe pensare che un simile problema, precoce o meno che sia, possa avere una ricaduta sulla didattica e che dunque le scuole debbano presentare un documento che tratti l'argomento al fine di rassicurare l'utenza. Per ora, a scuola, le sigle si limitano all'ambito burocratico. Mi auguro di non dover mai dire ai miei allievi: «Ragazzi, domani portate la DC per iniziare lo studio dell'opera di Dante!».

 

* Insegnante scuola media di via Vivaio
 

 

 

 

 questo passo anche Gli esami non finiscono mai di De Filippo finirà per tradursi da proverbiale in barzelletta. Almeno riferendosi all'universo scolastico: il solo luogo in cui gli esami rischiano di scomparire in un mondo ove invece ad esame son sottoposte persino le intenzioni. Del resto, anche gli esami che sopravvivono sempre più paiono burlette burocratiche che però, anziché sollecitare a ritorni di serietà, istigano semmai alla loro abolizione, all'insegna del: «a cosa servono?». E sarebbe l'ultimo atto di killeraggio verso quelle prove (si legge in Tommaseo) atte a «osservare l'oggetto per conoscerne le qualità. E come qualità si può riguardare anco la sua quantità: ridurre, cioè, le qualità a gradi: e questa è l'idea dell'originario aureo latino Examen, da Exigo e questo da Ago».

Del resto: le interrogazioni sono ormai istituzionalmente programmate. La maturità in costante mutamento nella rincorsa alla modernizzazione in base a idee presuntamente chiare di chi le realizza (dall'ambiguità delle formule dello scritto alla televisionizzazione quizzarola dell'esame). Manca poi solo che siano gli studenti a predisporre le prove interne. Quanto poi a certe dichiarazioni invocanti la serietà delle prove nazionali al fine di «una comparazione rigorosa dei risultati», par quasi che a contare siano le statistiche, anziché le valutazioni ad personam sul vero grado di preparazione. La conclusione è l’«esame da scaricabarile» a ritroso tra docenti circa certe somarerie dei ragazzi: dell'università sulle superiori, di queste alle inferiori, e così via. Insomma: sembra quasi che quel termine, esame, acquisti maggior valenza di serietà se riferito alla patente. Con buona pace del suo significato etimologico di «Commisurare, e quindi raffrontare. Esaminare nel proprio pensiero. Ricercare seco stesso, e con altri, ragionando e disputando». Per poi, alfine, «ex-agere: spingere innanzi».