Un pamphlet su come fare scuola.

È necessario che tra alunni e insegnanti si crei una sorta di collusione

L'istruzione deve essere ludica È il parere di Pier Aldo Rovatti e Davide Zoletto

Non è una faccenda per soli bambini contrapposta alla serietà degli adulti

La competizione è del tutto normale se non produce effetti d'esclusione.

di Umberto Galimberti, da la Repubblica del 19/4/2004

 

Una delle ragioni per cui la scuola non funziona e i nostri ragazzi ci vanno malvolentieri è che a scuola non si gioca. Sono di questo parere Pier Aldo Rovatti e Davide Zoletto che hanno scritto per i Tascabili Bompiani (pagg. 104, euro 6,5) un piccolo libro, denso e istruttivo, che ha per titolo La scuola dei giochi. Non si tratta di una scuola per bambini, ma della «scuola» in generale, dalle elementari all’università, dove si dovrebbe imparare giocando, e dove il gioco non è una pausa, un intervallo, un momento di svago e di libertà, ma fa tutt’uno con l’apprendimento stesso.

Naturalmente per accedervi è necessario sapere che cos’è un gioco e fuoriuscire da quel luogo comune che ritiene il gioco una faccenda per bambini che si contrappone alla serietà della vita adulta. Questo pregiudizio si fonda su due fraintendimenti. Il primo assimila il gioco allo spazio della libertà, della creatività, dell’evasione dalla realtà, dell’assenza di regole, il secondo fa coincidere la serietà con l’aderenza alla realtà, l’assiduità, la buona volontà non esente da sacrificio, l’impegno, la costrizione. Tutte cose spiacevoli, da cui i ragazzi generalmente rifuggono. In realtà le cose non stanno così, perché il gioco prevede delle regole che, non osservate, mettono subito il giocatore «fuori gioco». Se così non si facesse, tutti gli altri giocatori non saprebbero più «a che gioco si gioca».

Senza regole, infatti, il gioco non si costituisce e nessuno si divertirebbe. Quindi il gioco ha una sua serietà e non è l’antecedente della serietà, non è un’attività tipica della fase infantile da cui ci si congeda quando si diventa adulti. Il problema semmai è un altro: «Non si può insegnare a giocare». Si possono insegnare le regole del gioco, queste regole possono essere apprese da tutti, ma poi non è detto che uno «si metta in gioco», che voglia mostrare agli altri le sue attitudini o le sue inettitudini, che voglia «giocarsi» la faccia, e allora si dispone ai bordi del campo a vedere gli altri che giocano. A questo punto è possibile chiedersi: quanti insegnanti si mettono in gioco e quanti studenti sono in gioco e non invece ai bordi del campo?

C’è una domanda che Bruce Chatwin si poneva ogni tanto nel suo ininterrotto peregrinare: «Che ci faccio io qui?». Anche se non se la pongono così esplicitamente, non faccio fatica a immaginare questa domanda come il retropensiero di molti insegnanti e di molti studenti quando ogni mattina entrano in classe. Sono tutti uno di fronte o di fianco all’altro, ma non «fanno classe» perché, per «fare classe», non basta il suono della campanella e neppure le programmazioni o i metodi didattici.

Per «fare classe», per arrivare a quella sintonia operativa che permette di rispondere a quella domanda: «Che ci faccio io qui?» è necessario che tra insegnanti e studenti si crei una sorta di «collusione». Il termine, dal latino «col-ludere», significa «giocare insieme». E siccome nessuno può colludere da solo, è necessario che tutti, insegnanti e studenti «stiano al gioco», un gioco che, come tutti i giochi, ha le sue regole, un suo ordine, ed entro il quale ciascuno assume, in modo meno passivo di quanto potremmo credere, i ruoli istituzionali di insegnanti e allievi.

Perché diciamo «in modo meno passivo»? Perché l’insegnante diventa davvero tale non quando ha ricevuto l’autenticazione del suo ruolo da un’istanza «fuori gioco», quale può essere un concorso o una sanatoria dopo anni di precariato, ma quando, dandosi da fare, riesce a ottenere la cooperazione degli allievi, che sono i soli che hanno il potere di rendere quel ruolo riconosciuto e riconoscibile.

Come ci insegna Foucault, infatti, il gioco non esclude i «giochi di potere», anzi è l’unica dimensione in grado di ospitarli. Con una differenza: che là dove non si gioca, il potere viene conferito dall’autorità, mentre nella scuola dei giochi, dove c’è collusione perché si gioca insieme, il potere e quindi il riconoscimento di ruolo dell’insegnante viene conferito da tutti coloro che «sono in gioco», quindi dagli studenti, dai colleghi, dai genitori. Nella scuola dei giochi non basta «entrare in ruolo» per avere un ruolo, questo ruolo, come in ogni gioco, lo si guadagna giocando. E se lo si perde, bisogna riguadagnarselo, per non essere messi «fuori gioco». Anche l’insegnante che non riesce a «tenere la classe» è in gioco, solo che quella classe, invece di una «classe» è una «fiera». E anche la «fiera» è frutto di una collusione tra insegnanti e allievi, anche se probabilmente non piace a nessuno dei due.

Qui è inutile cercare le cause fuori dal gioco (nel degrado del contesto sociale, nella famiglia di provenienza, nella pregressa impreparazione degli studenti, nell’eccessiva rigidità di altri colleghi, nell’ottusità dei dirigenti). La domanda da porsi è un’altra: che tipo di classe insegnanti e allievi stanno facendo, che tipo di gioco stanno giocando? Al gioco della «fiera» o al gioco della «scuola»? Dalla parte degli allievi a scuola ci sono sempre quelli che non resistono a dimostrare che sono i più bravi, anzi vengono a scuola sostanzialmente per questo. Non per giocare con gli altri, ma per primeggiare sugli altri. Niente di male, il gioco è anche questo e la competizione fa parte del gioco, ma nel gioco della scuola bisogna evitare che la competizione produca effetti di esclusione, perché, se lo fa, la scuola sta giocando un gioco che non è il suo, e quelli che si sentono «fuori gioco» non possono evitare di chiedersi: «Che ci facciamo qui?».

Quelli che a scuola faticano, che non riescono mai a portare a casa una sufficienza si sentono un po’ «handicappati», termine che ricorre di frequente nella scuola a prescindere dal riferimento specifico dei «portatori di handicap». La scuola dei giochi conosce l’handicap perché è un termine coniato nel lessico dei giochi, in riferimento al vantaggio che, per esempio, il corridore più forte concede al rivale più lento perché la gara non perda subito interesse. L’handicap è una regola del gioco, per cui chi è svantaggiato nella vita per condizioni sociali, familiari, culturali, viene avvantaggiato a scuola. In questo modo l’handicap cessa di essere uno stigma sub specie aeternitatis, ma è uno svantaggio che, opportunamente avvantaggiato ad esempio con l’assegnazione di un sostegno, si traduce in un vantaggio per tutti i giocatori che non perdono interesse al gioco.

Ma qual è il gioco che si gioca a scuola? Oltre ai «giochi di potere», che sono giochi collusivi in cui gli insegnanti cercano di determinare il gioco degli allievi, i quali rispondono o cercando di non lasciar determinare interamente la loro condotta dagli insegnanti o tentando addirittura di determinare a loro volta la condotta degli insegnanti, nella scuola si giocano anche «giochi di verità».

I due giochi non sono sconnessi, perché l’insegnante guadagna il suo «potere» mostrando di «sapere» qualcosa che gli allievi non sanno, perché è il sapere che conferisce all’insegnante un certo peso nella classe come gioco di potere. Che l’insegnante sappia più dell’allievo e quindi eserciti su di lui un certo potere è una «regola del gioco». Il problema sorge quando il sapere dell’insegnante si irrigidisce e si cristallizza in un dominio di verità in cui non c’è più possibilità di giocare.

Quando noi chiediamo a qualcuno qualcosa che non sappiamo, l’indicazione di una strada ad esempio, se anche l’interlocutore non è in grado di darci una risposta, lo ringraziamo comunque e siamo gentili con lui. Quando invece l’insegnante fa una domanda all’allievo (nel gioco si direbbe: «Fa la sua mossa») l’insegnante sa qual è la risposta, e, quando non arriva, di solito si altera.

Mettiamoci ora dalla parte dell’allievo e vediamo le sue possibili mosse: o dà la risposta giusta e allora tutto va bene perché si è soddisfatto il «gioco di verità», oppure la dà sbagliata o addirittura fa «scena muta». In questi due ultimi casi la mossa dello studente non dà all’insegnante un’informazione sulla materia, non soddisfa il «gioco di verità», ma dà un’informazione su di sé: sul tipo di giocatore, sul modo in cui gioca, sul fatto che è dentro o fuori dal gioco. A questo punto la sequenza si conclude con una contromossa dell’insegnante che commenterà la risposta dell’allievo in termini di verità («giusto», «sbagliato») o di potere («bravo» piuttosto che «ancora non ci siamo», «ci sei o ci fai?», come vedete sto usando espressioni molto delicate rispetto a quelle che abitualmente si usano a scuola). Qui il «gioco di potere» si salda col «gioco di verità» e diventa «gioco di dominio». Lo studente si blocca, si demotiva, e il gioco finisce. Finisce per tutti: insegnanti e allievi.

Eppure, nella scuola dei giochi, l’insegnante più disporre di un’altra mossa e modificare la regola che fa finire il gioco. Può farsi ricercatore più esperto fra altri ricercatori (gli allievi) e, senza perdere il suo ruolo nella classe nel «gioco di potere», può cambiarlo nel «gioco di verità» mutando il suo rapporto col sapere, dal momento che in una «ricerca» non si sa a priori come si concluderà il gioco, come finirà la partita. In questo modo si aprono i «giochi di libertà» dove insegnanti e allievi, non gli uni contro gli altri, ma tutti insieme, cambiano le «regole del gioco».

E’ possibile una «scuola dei giochi»? Rovatti e Zoletto, gli autori del libro, lo auspicano, ma ne dubitano. Eppure solo così la scuola può diventare «maestra di vita», non tanto per i contenuti che trasmette, ma perché tante volte la vita ci obbliga a cambiare le «regole del gioco». Chiediamoci allora perché questa capacità di cambiamento non la si può imparare proprio a scuola, se è vero quel che scrive Freud: «La scuola non deve mai dimenticare di avere a che fare con individui ancora immaturi, ai quali non è lecito negare il diritto di indugiare in determinate fasi, seppur sgradevoli, dello sviluppo. Essa non deve assumere la prerogativa di inesorabilità, propria della vita, non deve voler essere più che un gioco di vita».