Un'azienda chiamata scuola.

di Grazia Perrone,  da Fuoriregistro del 9/4/2005

 

La data di nascita dell’autonomia scolastica decorre dal 1° settembre 2000. In realtà, molte cose sono già cambiate a seguito della sperimentazione avvenuta in molte scuole nel biennio precedente: il fatto nuovo – e giuridicamente rilevante - è che si passa da una situazione “transitoria” ad una di pienezza giuridica, che rappresenta un “punto di non ritorno”.

A rendere irreversibile tale processo ci ha pensato il ministro De Mauro – appena subentrato a Berlinguer “sfiduciato” dallo sciopero del 17 febbraio 2000 - con due “circolari balneari” (una costante del dicastero guidato da Berlinguer/De Mauro) emanate, ambedue, il 3 agosto. Di queste, la prima (n. 193) detta le regole per attestare formalmente il possesso dell’autonomia pur in assenza del provvedi-mento normativo di riforma degli organi collegiali (che, a tutt’oggi, manca ingenerando numerosi equivoci e “pasticci” interpretativi).

La seconda, n. 194, annuncia un taglio netto (pari al 70%) ai finanziamenti per le scuole autonome (ebbene sì la Moratti non è la sola né la prima a “tagliare” i fondi per la scuola statale). A partire dal 1°settembre i finanziamenti per ampliare e diversificare il piano formativo saranno erogati sulla base del numero degli studenti e degli insegnanti di ciascuna scuola: mediamente ogni scuola autonoma riceverà 6 milioni (di vecchie lire) annui contro i 18 erogati l’anno precedente ad istituti analogamente dimensionati che hanno agito in regime di sperimentazione. A questa cifra, in base alla legge n. 440/97, va aggiunto uno specifico capitolo di finanziamenti da destinare alla formazione “di tutto il personale scolastico” (ATA compresi). Si tratta di una quota uguale per tutti gli istituti pari a 750mila lire cui si aggiunge 12mila lire lorde per ogni unità di personale.

Il personale docente e ATA, dunque, per quanto concerne la formazione sono la stessa cosa! Perlomeno stando alla quota finanziaria annua lorda assegnata a ciascun ‘operatore’ ( da notare il lessico ministeriale di “sinistra” … sic!).

In virtù di quanto detto finora mi sembra opportuno ripassare alcuni concetti – lessicali e giuridici – che caratterizzano l’avvio dell’autonomia e che hanno costituito, per molti di noi, il banco di prova per verificare in che modo sono stati interpretati (dai dirigenti-datori di lavoro) i nuovi compiti operativi loro assegnati. E in qual misura i sindacati tradizionali (confederali e snals) sono corresponsabili della progressiva aziendalizzazione della scuola che ha comportato, conseguentemente, ad un’accelerazione del processo impiegatizio della professione docente.

 

Dirigenza [1]

La norma prevede che, le condizioni per l’attribuzione della qualifica sono due: il completamento dei programmati corsi di formazione e la “preposizione” ad un’istituzione scolastica autonoma. Il riconoscimento formale dell’autonomia alla sede scolastica è quindi premessa indispensabile per il conferimento della dirigenza. Questi passaggi saranno "perfezionati" con l’emanazione del regolamento di organizzazione del Ministero della Pubblica Istruzione ai sensi del D.lgs. n. 300/99.

Una curiosità riguarda i presidi-manager rimandati…ad agosto. Da questo “obbligo formativo” (quello del recupero estivo) sono stati dispensati, per legge, gli studenti. Per i dirigenti che hanno cumulato assenze “particolarmente elevate”, invece, tale obbligo permane. Ne riferisce il Sole 24 Ore scuola del 4-17agosto 2000.

 

• Nomina collaboratori [2]

E’ una questione controversa in assenza di una riforma normativa degli organi collegiali e risolta in extremis (a parer mio con una forzatura giuridica) dalla già citata CM n. 193 del 3 agosto 2000. L’idea (formulata dall’ANP e avallata dalla CGIL scuola) è questa: va rispettata la legge che per ultima detta norma in materia. E la norma “ultima” (punto 5 dell’articolo 1 del decreto legislativo n. 59 del 6 marzo 1998) afferma che il capo di istituto “nello svolgimento delle proprie funzioni organizzative, può avvalersi di docenti da lui individuati, ai quali possono essere delegati compiti specifici”. Il Consiglio di Stato – al quale il ministro De Mauro, in data 21 luglio, ha formulato richiesta di parere urgente – ha ritenuto immediatamente applicabile non solo l’ultima norma in materia ma, anche, la disposizione (comma 5,art. 25bis, D.lgs 29/93) che prevede, per il dirigente, la facoltà già esplicitata in precedenza. E’ così superata, nonostante la mancata approvazione del provvedimento legislativo di riforma degli organi collegiali, la disposizione contenuta nell’art. 7 comma 2 lett. h) del D.lgs n. 297/94 (che discende direttamente dalla "stagione" dei decreti delegati del '74), secondo la quale il collegio dei docenti eleggeva i collaboratori del capo d’istituto.

Scontata la soddisfazione dell’ANP e del suo leader Giorgio Rembado (un pò meno quella delle altre OOSS che pur si sono registrate) che vede, in questo modo, riconosciuto il potere gestionale dei dirigenti-datori di lavoro. Che questo poi avvenga a spese del Collegio Docenti e, più in generale, a spese della già virtuale  democrazia interna agli istituti è “dettaglio” che interessa poco o nulla. Ma tant’è ... è il "nuovo" che avanza!

 

Collaboratore vicario [3]

Discorso analogo a quello dei collaboratori vale per il vicario. Non è ipotizzabile in un’ottica aziendale l’individuazione condizionata (dal parere del collegio) del collaboratore vicario. Specie se si considera il rapporto fiduciario che deve intercorrere tra dirigente e colui (o colei) che, in caso di assenza o impedimento, è chiamato a sostituirlo. La circolare n. 193/2000 già citata fa riserva di formulare, in proposito, “specifiche e successive comunicazioni” (ma De mauro non lo farà mai). A questa ambiguità ministeriale si sommano, specularmene in quella caldissima estate italiana, i “boatos” di “fonti sindacali” non chiaramente esplicitate (citate dal Sole 24 Ore Scuola in una nota dal titolo eloquente “Cercasi vice comandante”) che chiariscono “[…] se il vicario del capo di istituto figura anche nella norma del contratto collettivo laddove parla delle figure di funzione-obiettivo (elettive), ciò è solo a fini puramente economici.

Senza perifrasi, invece, l’opinione di Giorgio Rembado – presidente ANP – secondo il quale : “[…] Ammesso che egli (il preside) sia in totale sintonia con il proprio corpo docente nessuno gli vieta di farsi eleggere il vicario dal collegio dei docenti […].

La quadratura del cerchio è completata!

 

POF (obbligatorio) [4]

Dal primo settembre 2000 l’adozione del Piano dell’Offerta Formativa costituisce un obbligo connesso all’autonomia. Esso rappresenta lo strumento contrattuale che, sostituendo i programmi ministeriali, comunica le attività e “i servizi” che la scuola è tenuta ad erogare durante l’anno. Alcuni passaggi sono:

a) definizione degli indirizzi e delle scelte generali di gestione e di amministrazione, che è compito del consiglio di istituto. E’ qui che vanno individuate le risorse disponibili e che vanno fatte scelte di priorità economica. L’elaborazione del Piano è compito del collegio docenti. Al consiglio di istituto spetta, a conclusione dell’iter, adottarlo: questo significa che il consiglio di istituto può respingerlo ma non modificarlo. Tale prerogativa, che deve essere motivata, può essere esercitata solo se il Piano redatto dal collegio docenti non osservi gli indirizzi di carattere generali formulati dal consiglio di istituto. In mancanza di circolari esplicative tale dovrebbe essere la corretta interpretazione della norma.

b) elaborazione del piano, che spetta al collegio docenti. Attenzione a non caricare troppo il piano di oneri aggiuntivi che potrebbero avere una ricaduta negativa in termini di aumento di orario di servizio che, una volta approvato dal consiglio di istituto, diventerebbe operativo, non remunerato (se non esplicitamente previsto) e, soprattutto, irrevocabile. Poiché il piano è, generalmente, formulato da un gruppo ristretto di persone è bene prestare la massima attenzione prima di dare parere positivo: buona consuetudine sarebbe di chiedere visione preventiva dell’elaborato al fine di non essere del tutto impreparati all’atto della determinazione.

c) contrattazione sindacale circa le modalità di utilizzazione del personale in rapporto al piano. Tale contrattazione è da svolgere inizialmente con i rappresentanti sindacali di istituto (se vi sono) e poi, una volta elette con le RSU

 

Atti definitivi [5]

“I provvedimenti adottati dalle istituzioni scolastiche […] divengono definitivi il quindicesimo giorno dalla loro pubblicazione nell’albo della scuola. Entro tale termine chiunque abbia interesse può proporre reclamo all’organo che ha adottato l’atto, che deve pronunciarsi sul reclamo stesso nel termine di trenta giorni, decorso il quale l’atto diviene definitivo. Gli atti divengono altresì definitivi a seguito della decisione sul reclamo”.

Per atti definitivi la giurisprudenza corrente intende quelli rispetto ai quali non è più ammesso ricorso gerarchico cioè ad un livello più alto della stessa amministrazione. A questa regola fanno eccezione, nella scuola, i provvedimenti in materia di personale e di disciplina degli alunni. In questo contesto, dunque, la forma degli atti diventa elemento essenziale che ne caratterizza la validità. La carenza dei requisiti formali, come, appunto l’affissione per quindici giorni all’albo, è motivo sufficiente per chiedere (e ottenere) la nullità del provvedimento. Tutti gli atti soggetti a pubblicazione, inoltre, dovranno essere accompagnati dalla menzione che è ammesso ricorso avverso entro quindici giorni indirizzato al dirigente. Tutte le decisioni sui ricorsi devono, a loro volta essere pubblicate, con la dicitura che si tratta di atti amministrativi definitivi e che la sede competente per ulteriori ricorsi è quella giudiziaria. Indicando, in questo caso, il termine utile per la presentazione dei ricorsi (sessanta giorni per il TAR, da sei mesi ad un anno, generalmente, per il tribunale civile).

E’ previsto, anche in assenza di ricorso di terzi, l’esercizio del potere di autotutela esercitato dal dirigente o dal collegio deliberante. E’ bene sottolineare che tale facoltà significa tutela dell’amministrazione non del singolo: ne consegue che va esercitato in casi eccezionali alla presenza di evidenti errori materiali. Deve dunque essere un provvedimento tempestivo. Qualora ci fossero dubbi o spiegazioni incomplete o reticenti la miglior autotutela consiste nell’astenersi o nel votare contro motivando tale determinazione con la scarsa conoscenza del problema. Assicurarsi che l’astensione o il voto contrario sia riportato a verbale insieme al nome (o nomi) dei dissenzienti. E’ l’unico modo per evitare spiacevoli ‘inconvenienti’ futuri.

In questo contesto normativo l'impugnazione al TAR - operata da un gruppo di genitori di Francavilla Fontana - avverso una delibera collegiale ritenuta illegittima è da considerarsi - a parer mio - corretta.

Perché - lungi dal limitare l'autonomia come ritiene Pasquale D'Avolio - è l'unico modo per impugnare un atto amministrativo definitivo.

E - stante l'attuale normativa - tali sono le delibere collegiali.

 

NOTE:

[1] L. 15.3.1997 n.59; art.21 comma 16 - D.lgs n.29/93; art.25/ter comma 1 D.lgs n. 300 del 30.7.1999;

[2] D.lgs 297/94; art. 7 comma 2 lett.h); art. 396 - Dlgs 29/93 art. 25bis comma 5 D.lgs.n 59 del 6.3.1998; art.1 comma 5 L. n. 59 del 15.3.1997 art. 21

[3] D.lgs. del 16.4.1994 n.297, art. 7 comma 2 lett. h); art. 396; art. 459 CCNL delle aree della dirigenza pubblica

[4] DPR 8.3.’99 n. 275 art. 3; CCNL 26.5.1999; art. 6 comma 3 lett. B); art. 19 comma 5

[5] DPR 8 marzo 1999 n. 275, art. 14 comma 7