Verso una scuola senza docenti . . .

di Rosario Pesce da Territorio Scuola del 30/8/2005

 

La prestigiosa rivista economica Italia Oggi, in data 19 agosto 2005, pubblica un interessante articolo a firma di Alessandra Ricciardi, che riporta dati statistici, elaborati dal M.I.U.R., davvero preoccupanti.

Dal 1995 ad oggi i docenti di ruolo sarebbero (il condizionale e' dovuto all'evidente approssimazione per difetto) diminuiti del 2% a fronte di un raddoppiamento del numero dei professori impegnati con contratti a tempo determinato. Nel prossimo decennio e' previsto il pensionamento di circa 245 mila insegnanti: i posti di lavoro, lasciati vacanti da questi ultimi, verrebbero in parte soppressi – per effetto, soprattutto dell'infelice accorpamento, già in parte realizzato, delle classi e per la diminuzione del monte orario, indotto dall'applicazione della legge di riforma n. 53/2003, in particolar modo, nel settore dell'istruzione professionale e secondaria superiore – ed in parte verrebbero ricoperti con l'assunzione di colleghi, vincolati alla Pubblica Amministrazione da rapporti lavorativi sempre più precari, privi di essenziali certezze previdenziali e, conseguenzialmente, peggio retribuiti.

Le statistiche, pubblicate nell'articolo di cui sopra, sono preoccupanti per diversi motivi.

Innanzitutto, verrebbe confermato il trend estremamente negativo che spinge alla flessibilità e alla precarizzazione del rapporto lavorativo nella Pubblica Istruzione, ormai, da diversi anni.

Il potere contrattuale della nostra disgraziata e scarsamente sindacalizzata categoria verrebbe, quindi, ulteriormente limitato, per effetto della diminuzione del numero dei componenti della stessa.

Politicamente, perciò, peseremo ancor meno in quanto saremo, semplicemente, in numero sempre più esiguo.

Ma l'elemento statistico, che desta certamente le maggiori preoccupazioni, afferisce alla quantità di danaro investita nel settore dell'istruzione: negli ultimi dieci anni, lo Stato italiano ha ridotto dello 0,3% la quota di spesa destinata alla scuola pubblica, per cui oggi spende per il sostentamento e la formazione dei docenti il 3,9% del P.I.L. a fronte del 4,2% di un decennio fa.

Lo Stato, quindi, ritrae progressivamente la sua presenza dall'ambito dell'istruzione e soprattutto della formazione, ritenendolo forse un settore non più strategico: demanda, perciò, gli oneri finanziari e gestionali agli Enti Locali, per un verso, e ai privati, per l'altro.

La drammaticità di una simile scelta e' evidente.

L'istruzione e la divulgazione scientifica non sono prodotti di mercato simili agli altri, gestibili dal privato alla maniera di una filiera alimentare o di un qualsivoglia comparto della moderna industria capitalistica.

Lo Stato non può ritrarsi, assolutamente, dalla sua naturale mansione educativa: indicare gli orientamenti e tracciare le finalità culturali e' attività precipuamente statale, non trasferibile a chi – bontà sua – si muove nella logica del mero profitto, anteponendo i bisogni di cassa alle molteplici esigenze, derivanti dall'erogazione di un servizio di pubblica utilità.

Se il privato può legittimamente produrre panettoni o leccornie simili o può stampare giornali o può detenere la proprietà non monopolistica di importanti mezzi di comunicazione di massa, non può – a mio parere – con la medesima autorevolezza stabilire cosa un adolescente debba o meno leggere, quale credo religioso gli debba essere trasmesso o quale tipologia di docente debba avere a sua disposizione.

Ancora più deleteria per gli interessi collettivi sarebbe l'azione di uno Stato che, pur mantenendo le sue competenze nel settore dell'istruzione, iniziasse ad atteggiarsi alla maniera di un soggetto privato, riducendo e tagliando servizi perché – a suo dire – estremamente costosi, seppur utilissimi.

D'altronde, il datore di lavoro pubblico si e' avvalso finora dei cospicui vantaggi finanziari, derivanti dallo sfruttamento della copiosa manodopera intellettuale precaria, con la medesima spregiudicatezza con cui avrebbe agito un qualsiasi privato padroncino.

La scelta, infatti, dei Governi di centrodestra e di centrosinistra di non risolvere ab imis il problema del precariato, in particolare, nel comparto della pubblica istruzione e' il frutto di una distorta mentalità di tipo contabile.

Si percepisce l'effimero ed indubbio vantaggio finanziario, rappresentato dai minori costi per le casse statali, determinati dall'assunzione del personale docente con contratto a tempo determinato, anziché con ordinaria nomina in ruolo, e non si riesce a cogliere l'ingente danno culturale, valutabile in termini squisitamente educativi, che il lavoro precario comporta sia per il professore che per l'alunno, impossibilitati del tutto a costruire un duraturo, stabile e proficuo rapporto umano prima ancora che didattico.

Non si persegua, perciò, ad opera dei vertici politici, attuali e futuri, l'inquietante progetto teso alla creazione di una scuola priva, sempre più, di docenti.

La mortificazione continua ed immeritata di questa preziosa, anche se discussa, figura professionale determinerà danni consistenti per l'intera società italiana, a cui difettano invero autorevoli e carismatici punti di riferimento, che soltanto nella scuola pubblica invece possono, se non osteggiati, crescere e produrre i frutti migliori del loro complesso lavoro.