Gli esami di Stato

QUEI COMMISSARI DI MANICA LARGA.

 di Francesco Bonardelli, da La Gazzetta del Sud del domenica 28 agosto 2005

 

Passato l'effetto-novità della nuova formula, l'esame di Stato si riappropria della sua gaia fisionomia: per un'immagine del grado e del livello d'istruzione del Paese un tantino ottimistica, rispetto alla realtà.

Non ci sono ancora – nei dati conclusivi – gli eccessi assoluti dei tempi lunghi, lunghissimi dell'ultima sperimentazione: quando la votazione massima era divenuta pressoché un diritto, la bocciatura un non-senso, la generosità dei giudizi un'abitudine. Ma escluse le eccezioni sulle penalizzazioni conclusive – dovute anche, è bene ricordarlo, all'ammissione di diritto – la via intrapresa dalla nuovissima Maturità somiglia tanto, troppo a quella conclusa dalla vecchia o semi-nuova riforma dei primi anni Settanta. E i motivi, svariati, possono sintetizzarsi in tre ordini di esigenze, di cui comunque occorre prender atto, senza inutili moralismi o insulse riserve.

Anzitutto, la commissione giudicatrice formata esclusivamente da membri interni non può – e non deve – buttarsi la zappa sui piedi, legittimando livelli troppo bassi di preparazione collettiva. Sarebbe come ammettere un semi-fallimento professionale, di fronte peraltro a un'utenza di alunni e genitori poco disposta alla comprensione e molto propensa alla polemica. Dal momento che da sempre – e qui la Maturità non c'entra affatto – ignoranza e presunzione vanno di pari passo. E a braccetto.

Di seguito, c'è un'altra motivazione essenziale alla «sanatoria»: bocciare non serve più a niente, dal momento che la società stessa ha perso del tutto l'umiltà e la modestia del senso di «riparazione». Gli alunni ripetenti, puntualmente, tornano tra i banchi più asini di prima; la loro maggiore età aumenta i tipici eccessi adolescenziali d'arroganza e di sfida verso le istituzioni. E un anno di ritardo in quello che dovrebbe essere l'inserimento nel mondo del lavoro – e di fatto è l'inserimento nel mondo dei disoccupati – serve solo, come si diceva un tempo, a scaldare i banchi, o meglio le sedie dell'aula.

Ultimo, e ancora più comprensibile motivo di generosità, la necessità di premiare – talvolta oltre misura – chi ancora vive lo studio come un dovere, e non come un assoluto diritto alla certificazione del risultato. I cosiddetti «bravi ragazzi» – sempre più spesso, le cosiddette «brave ragazze» – tracciano loro malgrado un solco profondo con la stragrande maggioranza degli approfittatori da scopiazzature, degli strateghi da interrogazione finale, degli esperti in suntini, degli specialisti nell'«appena sufficiente».

Perché, dunque, non premiare i superstiti della serietà nella scuola? Magari con un cento che varrebbe ottanta-novanta; e che, unito ai cento che valgono davvero cento, disegna una nazione di diplomati su vasta scala e ai massimi gradini del sapere. Troppa grazia; come tale visibile, al primo riscontro successivo.