La scuola: un percorso di "sformazione"? L'articolo di Maria Luisa è fortemente critico nei confronti di una scuola che non "mette più alla prova". La rinuncia a imporre dei passaggi stretti è utile a far crescere persone adulte?
di Marialuisa Ferrario, Tratto da “SERVIRE” rivista scout per educatori n. 3/200 pubblicato dall’ANIAT, 13/9/2004
«...e allora inizia il mio primo
giorno di liceo. Che è una di quelle cose che poi ti dovresti
ricordare tutta la vita. Io invece è meglio che me lo dimentichi
(...). Anche perché m'ero messo in mente tutta un'altra cosa, e cioè
che il primo giorno di liceo si fanno già cose toste. E questo perché
me lo aveva detto mio padre: vedrai che fin dal primo giorno tè ne
accorai come e dura.
Chi lo dice? Gaspare, il protagonista del recente romanzo "Una barca nel bosco" di Paola Mastrocola, insegnante di lettere in un liceo di Torino.Raccolgo alcune delle provocazioni, che questa insegnante-scrittrice ci lancia tramite la storia di un talento sprecato (fortunatamente non del tutto!) approdato da una piccola isola del Sud Italia ad un buon liceo del Nord perché vuoi diventare latinista, per svolgere alcune considerazioni sul tema oggetto di questo quaderno di Servire. Sono riflessioni parziali e volutamente spostate sul versante della denuncia di derive che, in base alla mia esperienza, vedo diffuse nella scuola. Le sottopongo alla riflessione dei Capi-educatori perché anche loro spingano gli scout, nonostante tutto, a contrastarle, a mettersi in gioco più profondamente in una scuola che deve tornare ad essere più esigente, per essere educativa. Educativa, non con l'ottica del piccolo cabotaggio, ma del profilo alto. E questo il punto centrale. Occorre riconoscere, ripensare continuamente, vagliare e attuare nella pratica questa funzione che la scuola italiana si è data esplicitamente da un po' di anni a questa parte per tutti i cicli, accanto a quella più convenzionale di trasmettitrice di conoscenze, e che anche la riforma attuale indica come primaria: "Principale obiettivo del sistema educativo nazionale è la crescita e la valorizzazione della persona". Soltanto alla luce dell'approfondimento di questa funzione ha senso e si realizza la tesi, di cui siamo profondamente convinti e che sentiamo di dover riaffermare con urgenza oggi come educatori, che un adolescente non cresce, che non riceve le spinte decisive a diventare giovane-adulto in pienezza, se nel suo percorso non si imbatte anche in strettoie, in passaggi obbligati, in prove, in ostacoli, in sbarramenti: ...tali da indurlo a misurarsi, a mettersi in discussione, e a scegliere con maggiore consapevolezza come procedere nel cammino. Ma la riflessione sulla qualità e sulle modalità del compito educativo della scuola. all'interno e all'esterno dell'istituzione, è per lo più scarsa, parziale e vaga, soprattutto se rapportata all'ampiezza della crisi di cui soffre in generale il tema dell'educazione dei minori nelle odierne società complesse.
Eliminare le sconfitte? «Gli insegnanti ci spiegano che i primi giorni non si fa scuola, è vietato; si fa l'accoglienza. Ci porteranno in giro a conoscere la scuola, tipo le scale, la palestra, i bagni. Cioè non ci insegneranno niente i primi giorni. E questo cinque ore al giorno per una settimana, che infatti si chiama. "la settimana dell'accoglienza". Dicono che cos ci passa la paura perché vediamo che andare al liceo è come bere un bicchiere d'acqua».
La strada imboccata dalla scuola che ha dilatato - giustamente - la sua utenza (la legge di riforma prevede adesso il diritto-dovere all'istruzione e alla formazione per almeno dodici anni) sembra che debba assumere, necessariamente, la forma di una passeggiata la più comoda e riposante per tutti. E per invogliare anche i più renitenti a percorrere questa autostrada, la scuola ha perseguito con troppa enfasi per i suoi indolenti viandanti l'obiettivo del benessere psichico.Nella logica della società consumistica secondo la quale tutti i beni sono lì a portata di mano e ogni bisogno va subito soddisfatto, nella logica economicistica dell'ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo, la scuola è troppo preoccupata oggi di costruire nidi ovattati, in cui gli allievi siano esposti il meno possibile alle frustrazioni. Ma dalle gratificazioni sproporzionate e dalle attenuanti individuate oltre ogni ragionevole limite il passaggio agli ammiccamenti e alle indulgenze complici, se non addirittura al non intervento davanti alle negligenze e alle trasgressioni più pesanti, è breve. Ci si chiede se il non mettere in conto nel processo di crescita di ogni individuo, anche se ancora in giovane età, smacchi e sconfitte non abbia ancora valore educativo e se è così sicuro che il non prefiggersi mete impegnative - siano esse cognitive o comportamentali o relazionali - da conquistare con la fatica e il sacrificio personale non significhi barattare con un momentaneo senso di appagamento la profondità della gioia. Una novità della nuova riforma è l'istituzionalizzazione della figura dell'insegnante-tutor. E auspicabile che nella sua opera di orientamento sappia puntare alto nell'indicare mete e ardito nel lanciare stimoli, e che nella funzione di coordinamento non si attesti sull’armonizzare al ribasso le richieste dei colleghi agli studenti.
Rinunciare alle verifiche? «Ci danno i test d'ingresso. Ci dicono che serve per capire il nostro livello, e io non lo capisco quale è il mio livello cioè quale dovrebbe essere, perché ci danno l'esercizio: "Distingui l'articolo determinativo dall'indeterminativo", ad esempio: "il" cammello determinativo, "un" passero indeterminativo. Cose che io personalmente ho fatto alle elementari, gli altri non so. Gli altri forse hanno fatto altro, tipo astronomia o statistica, non grammatica; oppure agli altri piace tornare indietro e rifare le stesse cose, non so. Comunque non protestano per niente, anzi, mi sembrano contenti, e allora anch'io non dico niente, cosa vuoi che dica?»
Nel recente passato sono stati aboliti gli esami di riparazione alle superiori e l'esame di maturità si è andato sempre più svuotando. Nella riforma alle porte il primo esame di Stato sarà soltanto al termine del primo ciclo di istruzione (otto anni di scolarità): c'è il ragionevole rischio che la scuola si configuri sempre di più come un "continuum" indistinto. Non si vuole con questo rivalutare semplicisticamente gli esami come gli strumenti più idonei a spronare allo studio e ad accertare l'avvenuta acquisizione dei saperi, però una eccessiva indeterminatezza nello stabilire "che cosa" apprendere, entro quali ,tempi", e all'interno di quali segmenti dell'iter scolastico, non giovi ad una prospettiva di progressione degli studenti segnata da un ritmo più sostenuto. Sembra quasi di assistere ad un malinteso senso di educazione permanente, secondo il quale c'è tempo all'infinito per ricominciare, per rimediare al non fatto, per recuperare le opportunità e i giorni sprecati, per spostare le verifiche sempre più in là. Quando arriva il momento di mettersi alla prova?
Una maggiore creatività nel reinventare
gli snodi obbligati e i meccanismi di passaggio, cui devono
corrispondere precise trasformazioni di contenuti e di metodo, e una
maggiore incisività per limitarne la fluttuazione e valorizzarli come
compimento di una tappa, contribuirebbero non
Gruppo o individuo? "Poi ci hanno fatto brainstorming. Io non sapevo cos'era, ma per fortuna ce l'hanno spiegato: si lancia un tema e tutti dicono quel che vogliono, perché brain vuoi dire cervello e storming tempesta, quindi significa che si scatena una gran tempesta di idee, o qualcosa del cenere. Il tema era: Cosa vi aspettate da questo primo anno di liceo. E tutti hanno detto quel che gli passava per il cervello. E stata una grani tempesta. Quella di italiano scriveva alla lavagna tutto quello che veniva fuori e alla fine è risultato che la cosa che volevamo di più era diventare amici".
L'aggregazione sociale, se è molto positiva soprattutto nell'infanzia e nella preadolescenza, può diventare negativa in età adolescenziale quando assume le forme di quasi esclusiva socializzazione tra coetanei. Reclusi infatti all'interno del gruppo dei pari, gli adolescenti non esprimono in generale spontaneamente alcun preciso desiderio di diventare grandi. Lo stare insieme del gruppo-classe risponde alla stessa logica. Se abbandonato a se stesso fa quadrato di norma intorno alla copertura delle manchevolezze del singolo e stringe alleanze difensive per contrastare le pretese degli insegnanti. Anche il ricorso "democratico" al parere degli studenti per uscire da situazioni di stallo -vuoi a livello di profitto, vuoi a livello di comportamento - raramente porta ad individuare (e soprattutto a volere!) strategie di miglioramento durevoli. Occorre, al contrario, che l'adulto produca brecce nel gruppo e spinga in continuazione nella linea di rompere la corazza di disimpegno dei più, faccia emergere e sostenga le individualità più positive, induca ad esporsi, a fare scelte faticose nella direzione del bene e della retta solidarietà non disdegnando neppure di ripristinare un sano spirito di emulazione. Contrariamente all’atteggiamento pedagogico molto diffuso di preservare i giovani quanto più a lungo possibile da esperienze di solitudini e di sofferenza, che l’andare contro corrente inevitabilmente reca con sé, non è mai troppo presto per stimolare i singoli a definirsi, a non lasciarsi intrappolare dalle spinte regressive del gruppo, ad effettuare salutari rotture con atteggiamenti consolidati di acquiescenza, ad imparare a compiere gesti di autentica libertà.
Servono i saperi? «E sapete cosa vi dico? Che cercheremo di fare un latino agile, flessibile. Un latino moderno divertente, capito? Basta con queste grammatiche decrepite stantie, la scuola sta cambiando, il cambiamento è alle porte ed è giusto fare cose utili. ... Utili alla vostra vita, utili per il mondo del lavoro, utili per la flessibilità che oggi la società...»
Ma quella del rendere le materie leggere e piacevolmente intrattenenti è la strategia giusta per contrastare la diffusa disaffezione degli studenti alla scuola, e più precisamente allo studio? Il grande problema, forse di sempre, ma senz'altro molto acuto oggi, è quello di suscitare interesse nel senso etimologico del termine, per cui ci si coinvolge in qualcosa di cui si percepisce l'importanza, a ciò che si impara a scuola. Infatti nella stragrande maggioranza gli adolescenti non vedono proprio che cosa c'entri quello che è chiesto loro di studiare con la loro vita presente e singolare, come anche con la vita comune cosi come la vedono rappresentata intorno a sé. Eppure questo è un nodo centrale da sciogliere, perché la scuola educa insegnando e all'adolescente è chiesto in prima istanza di maturare Ulteriormente attraverso lo studio. Occorrerebbe ormai prendere le distanze da formule di scuola cosiddette democratiche secondo cui "lo studente costruisce il suo sapere" o, più riduttivamente, "si serve dei saperi per acquisire semplicemente delle competenze" e - in generale - da una concezione dell'educazione troppo spostata sul far emergere ciò che è già in luce tutto positivo all'interno dell'individuo, nel timore di condizionare la libera espressione e il libero sviluppo della sua personalità. Per realizzare effettivamente un profilo educativo alto non sarebbe ancora sufficiente però rivalutare la trasmissione e l'apprendimento dei saperi più significativi alla base della nostra tradizione culturale. Occorre proporre con forza alla scuola di occuparsi del significato dei saperi, di conferire alle scienze quel senso che per natura è loro estraneo, in sintesi di proporre una "sapienza", cioè un sapere a proposito delle verità della vita. Far emergere negli adolescenti le grandi domande, eternamente uguali per tutti e in tutte le epoche (che cos'è l'amicizia, il dolore, la morte....) come essi già le sperimentano, sia pure confusamente, importanti per la loro vita, e saldare questa cultura che il mondo adulto considera clandestina e cancella dalla comunicazione pubblica pur annettendo importanza decisiva nella sfera privata, ai saperi alti approfonditi nella scuola, è la strada da percorrere. Da qui ha buone possibilità di scaturire quella motivazione profonda ad accedere alla cultura alta, l'unica che possa dar ragione delle fatiche e degli sforzi richiesti per penetrarla e farsela propria. E i "classici", così bistrattati in tanti programmi se non cancellati, potrebbero rappresentare ancora un buon modello di riferimento per le giovani generazioni: non sono stati gli estensori dei trattati "più secchi e regolari delle cognizioni esatte"- così Leopardi in un passo dello "Zibaldone" -, ma "i geni più sublimi, liberi e irregolari". Tradotto in parole più legate al tenia delle nostre riflessioni, quelli che hanno saputo affrontare con più efficacia la situazione critica, il momento di mutamento. Che è la finalità educativa ultima della cultura-educazione: i saperi di cui impossessarsi non sono prioritariamente quelli che fanno adeguare alla normalità, ma quelli che rendono capaci di apprendere l'eccezione, l'esperimento, la novità...., di affrontare la situazione critica, la rottura, il momento dell'emergenza, quello in cui il singolo de ve personalmente e liberamente decidere che cosa fare, come relazionarsi di fronte all'inedito, come reagire alla rapidità del cambiamento. Per una cultura che si appiattisse sempre di più sull'informazione e sull'utilizzo pragmatico delle conoscenze la scuola rischierebbe di diventare superflua: non potrebbe mai competere con l'ampiezza e la rapidità con cui l'odierna civiltà mediatica trasmette notizie, informazioni e servizi.
Quale ruolo degli adulti? "Gli insegnanti arrivano sempre quei cinque dieci minuti dopo la campana e a me da un po' fastidio... Così, mentre aspetto che arrivi quella di mate, mi faccio una specie di schema con tutti i calcoli, insegnante per insegnante, dei minuti che ci hanno mangiato finora. Un capolavoro". "Qui adesso la nostra prof di francese usa sempre le audiocassette: ogni volta che entra in classe, piazza sulla cattedra un registratore fatto a uovo, infila la sua brava cassetta, si siede accavallando le sue smilze lunghe gambe con la gonna corta e ci lascia lì così per un'ora ad ascoltare. Lei a volte sfoglia qualche rivista, noi per un'ora ascoltiamo..."
Dalla Preside: "Quando entro non mi guarda neanche. Io mi siedo davanti a lei e lei continua a firmare un centinaio di fogli accatastati davanti al suo naso. "Qualcosa non va?" mi chiede senza alzare gli occhi. "Si" (....) "Gli inscenanti"... " "Dimmi bene" .. ..arrivano in ritardo". (,,,,) "Ma non pensi che se i tuoi insegnanti arrivano in ritardo in classe è perché devono svolgere dei loro lavori fuori dalla classe? Non so, fotocopie, test, riunioni....Non pensi che stiano comunque lavorando per tè? Non pensi che dobbiamo avere rispetto per il lavoro degli altri? "Mi sento tutto un sudore giù per la schiena" "Sì. .."le rispondo. "Ah ecco. Lo sapevo che sei un ragazzo responsabile. Bravo".
Per il nostro Gaspare gli insegnanti stanno decisamente sullo sfondo: sono ridotti a macchiette, vengono colti nelle manchevolezze più esteriori, di interlocutori minimamente affidabili non c'è neppure l'ombra. Deve cadere su tutta la categoria un giudizio così pesante? Certamente no. Ma, sempre nell'ottica della denuncia, è vero che il loro profilo complessivo dovrebbe essere ben più incisivo di quello medio attuale. E’ ormai assodato che la famiglia, se ancora si prende cura educativamente dell'infanzia (pur con grande consulto di esperti...), nei confronti degli adolescenti si sente impreparata e delega a altri questa funzione, mantenendo per sé soltanto quella affettiva. Allora ecco che oltre a trasmettere con passione la propria materia, in cui si è dentro davvero se - a mo' di esempio - la si approfondisce continuamente, se si selezionano i contenuti da trasmettere in base alla loro significatività per quei determinati studenti e non soltanto perché presenti nel manuale..., gli insegnanti dovrebbero tornare ad essere – come tutti gli educatori - dei maestri, padri e madri maestri di vita. Il rispetto sacrosanto della coscienza dell'altro, se si configura addirittura come divieto di interferenza per non prevaricare sulla libertà insindacabile dell'alunno, diventa un alibi per nascondere come adulti un difetto di sapienza e di capacità di dire le ragioni del proprio esistere, del proprio agire, del proprio giudicare... Eppure è di figure adulte convinte interpreti di un'autorità intellettuale e morale, e quindi non disgiunta dalla categoria della verità, con cui l'adolescente ha bisogno di confrontarsi per uscire dalla sua autoreferenzialità e per intraprendere con risolutezza il suo percorso di crescita umana. Informatori, come già dicevamo, ce ne sono di migliori al di fuori della scuola. Occorrono invece con urgenza dei comunicatori. L'informazione è il linguaggio dello strumento, la comunicazione è il linguaggio dell'uomo. Vi è sottesa la necessità di un rapporto dialogico, anche letteralmente personale: non è la cifra dei nostri tempi il riconoscimento della centralità dei soggetti? E la riforma alle porte non introduce l'idea di un'organizzazione flessibile del tempo-scuola e piani di studio personalizzati per corrispondere alle storie e alle esigenze diverse dei singoli? Nel dialogo è anche sotteso il pericolo di equivocare e di fraintendersi; c'è quindi implicita la necessità di chiarirsi, di interrogarsi, di continuare a confrontarsi con lealtà, fiducia reciproca e pazienza. E soltanto su questo sfondo di una relazione sì asimmetrica ma autentica e profonda, che è possibile aiutare il singolo studente a perseguire le proposte impegnative individuate proprio per lui. E il portfolio delle competenze registrerà i suoi successi?
Marialuisa Ferrario Tratto da “SERVIRE” rivista scout per educatori n. 3/200 |