Bimbi stranieri. E' un problema?

Un po' di verità sulla «scandalosa» scuola di Brescia con «troppi immigrati»

 

  di Giorgio Salvetti da il Manifesto del 15/9/2004

 

Esarebbe questa la scuola dello scandalo? Progetti consolidati, molte esperienze per l'integrazione degli alunni disabili (primo premio Strategie di integrazione assegnato dalla rivista del centro Erikson di Trento), 48% di alunni stranieri di 40 etnie diverse, programmi innovativi di insegnamento orizzontale basati sull'attività laboratoriale per l'apprendimento non solo verbale, uso di molti testi integrativi con una biblioteca di 12mila volumi, una lunga storia di collaborazioni con realtà e associazioni presenti sul territorio e non solo - dall'università ai padri saveriani - e un comitato dei genitori storicamente attivo e molto partecipe. Sono solo alcune caratteristiche che fanno del Secondo istituto comprensivo di Brescia una delle scuole più all'avanguardia in Italia sul fronte dell'interculturalità. Una scuola come questa dovrebbe conquistare gli onori delle prime pagine dei quotidiani per meriti acquisiti sul campo (il quartiere più abitato da stranieri nel centro storico) nonostante l'atavica situazione di difficoltà e di immobilismo della scuola italiana e nonostante i tagli e gli impicci imposti dalla riforma Moratti. Invece la scuola è stata vittima di una costruzione mediatica inaudita e per molti versi esemplare. Un lancio di agenzia, una dichiarazione improvvida del dirigente scolastico provinciale di Brescia che propone quote d'ingresso agli stranieri nelle classi e poi fa retromarcia, e la scuola è sbattuta in prima pagina sul Corriere della Sera: «I genitori degli allievi ritirano i loro figli perché ci sono troppi stranieri». Ecco servita, per le chiacchiere e i distinguo, una bella storia del nord becero e razzista che presto si traduce in un generale «comunque la presenza degli stranieri rivela un problema che va risolto».

 

Vanno via due su mille

Poco importa se solo i genitori di due bambini, su quasi mille, non hanno rinnovato l'iscrizione, se non c'è certezza che lo abbiano fatto per la presenza di immigrati e se nessuno in quella scuola si è mai sognato di lamentarsi per gli stranieri: l'istituto ormai è bollato, è un po' razzista, se non altro lo sono i genitori, ed è sicuramente infestato dagli immigrati. E paradossalmente proprio il «caso» della scuola di Brescia è diventato l'esempio emblematico per innescare un dibattito, per la serie «che farsene del pesante fardello degli stranieri nelle scuole d'Italia». Un cortocircuito di parole in libertà che non tengono minimamente conto di cosa succede concretamente nelle scuole, proprio a partire dal casus belli bresciano.

Insegnanti, genitori e bidelli, lo sbigottimento è generale. Angela Battaglia è la direttrice (sulla sua porta è scritto in italiano, arabo e cinese), è una donna entusiasta, una di quelle persone che riesce a portare avanti una miriade di progetti e poi non trova il tempo per archiviarli, corre per i corridoi in cerca di documenti, programmi, dati. Dirige due scuole elementari (Muzio Calini e Manzoni), una media, e anche la scuola dalle materne alle medie presso gli ospedali civici. Il suo istituto comprensivo è totalmente a tempo pieno - a Brescia ci sono solo altre due scuole a tempo pieno - è laureata in psicopedagogia e crede nelle attività di laboratorio «che sviluppano le varie forme di intelligenza».

Anche per questo nella sua scuola le classi si incontrano in gruppi eterogenei che lavorano su temi specifici abbinando educazione verticale e orizzontale in modo da poter sviluppare programmi mirati per ogni alunno. I bambini di ogni gruppo poi fanno delle vere e proprie assemblee in cui il ruolo degli insegnanti è solo quello di coordinatori.

«E' così che i bambini delle diverse etnie riconoscono le differenze e da soli trovano le strategie per superarle», spiega Lisetta Silena, un insegnante con esperienza nel campo dell'integrazione dei disabili. Silena ammette che i problemi ci sono: «Anche i bambini hanno i loro pregiudizi e sanno essere spietati: lo scorso carnevale una ragazzina del Ghana si è vestita di carta d'alluminio, chissà perché diceva che si era vestita da albanese... ma i bambini sono anche capaci di riconoscere le differenti capacità». Non è solo questione di lingue diverse, anche il 25% degli alunni che non sa parlare italiano riesce a comunicare, l'aspetto più difficile da governare sono i diversi stili di apprendimento. Qualche esempio? I bambini cinesi: non sanno l'italiano, è vero, ma in matematica vanno troppo veloci per tutti.

L'insegnante fa anche un'ipotesi per spiegare come mai proprio questa scuola è stata «usata» per creare il problema degli alunni stranieri: «Se si solleva il problema proprio in questa scuola è perché qui la cultura dell'accoglienza c'è davvero». E si vede che a qualcuno una scuola così dà fastidio. La direttrice fa un'altra riflessione: «Sembra che in questi giorni i giornalisti vogliano far di tutto per spingere sul tema dello scontro fra culture, mentre noi nel nostro piccolo facciamo di tutto perché si incontrino».

Si tratta di un lavoro molto impegnativo che deve fare i conti con il fatto che la scuola non è fuori dal mondo, specialmente questa, che ha come bacino di utenza il quartiere del Carmine, il centro povero di Brescia, da sempre punto di prima accoglienza per gli stranieri. Basta farsi un giro per le strade tra phone center, macellerie islamiche e rosticcerie turche, lavanderie piene di donne con veli di tutti i colori e barbuti sikh indiani e pakistani con il turbante.

 

Parco Ucraina

Il parco è stato ribattezzato Ucraina perché la mattina è il ritrovo delle badanti slave che vanno a fare la spesa, da lì si sentono i bambini che giocano nel giardino della Calini. La scuola fa molto per l'integrazione non solo dei bambini.

Spiega Enzo, un papà italiano che aspetta il figlio all'uscita: «Difficilmente ci si conosce tra famiglie italiane e immigrate, per via della lingua, ma il fatto che i miei figli sono compagni dei loro figli mi ha fatto incontrare i miei vicini di casa, che altrimenti avrei solo sfiorato». Enzo ammette di averci guadagnato: «Alla fine dell'anno organizziamo una cena, tutte le famiglie preparano piatti tipici, durante l'anno invece la scuola prepara ricette diverse per tutti i gusti». Luca, suo figlio, in quanto a scontro di civiltà ha già un'opinione: «Ditemi in quale religione non si mangia il minestrone e mi iscrivo».

La scuola però non può farsi carico di risolvere tutti i problemi. Spiega una mamma: «Questo quartiere è in mano a pochissimi proprietari che subaffittano agli stranieri che tra l'altro spesso si fermano solo per poco tempo per poi spostarsi in provincia a lavorare in fabbrica o nei campi. Da anni sta diventando un ghetto e la scuola deve far fronte a una situazione particolare che non dipende da lei». La vicedirettrice, Ebe Comini, è ancora più esplicita: «E' inutile parlare di quote o altri metodi per redistribuire gli alunni stranieri solo nell'ambito delle istituzioni scolastiche, si tratta di problemi sociali di cui la scuola è solo lo specchio».

Paradossalmente l'esperienza positiva della scuola Calini permette alle altre scuole di sgravarsi degli alunni stranieri con la scusa di dirottarli nella «struttura più esperta» e, come se non bastasse, i buoni scuola di Roberto Formigoni spingono gli italiani a mandare i figli alle scuole private cattoliche a tempo pieno del centro di Brescia, così la scuola del «ghetto» corre il rischio di diventare una «scuola-ghetto».

 

Una scelta cosciente

Eppure alla Calini nessuno vive gli alunni stranieri come un problema. Sono una ricchezza. «Chi manda i figli in questa scuola - spiega un altro papà - fa una scelta cosciente nell'interesse dei propri figli». I docenti pensano a lavorare, per loro l'organizzazione del lavoro è già integrazione. «Certo mancano sempre fondi - spiega la direttrice - ma ciò che più manca è una cultura diversa da parte dei vertici della scuola. Noi abbiamo solo due docenti distaccati che si occupano degli alunni stranieri e sono nell'organico di fatto, proprio quello che per la Moratti è a rischio di tagli. Se nominassimo il tutor, riducessimo l'orario o introducessimo le altre rigidità imposte dalla riforma, qui salterebbe tutto. Chi ha una storia come noi riesce a resistere e va avanti per la sua strada richiamandosi all'autonomia scolastica, ma la riforma impedisce ad altre scuole di crescere e tutto ricade sulle spalle di chi si è dotato di mezzi e metodi». E magari scopre il brivido di finire in prima pagina.