Una Storia piccola piccola
da Fuoriregistro del 9/10/2004
Meno ore d'italiano, inglese ed educazione
tecnica. Nella cabala degli orari fai da te, nello scacchiere delle
discipline, nel balletto organizzativo, la scuola media affronta la
sua crisi d´identità. La secondaria di primo grado - così si chiama
ora - è scombussolata da tanti piccoli terremoti che per qualcuno
preludono alla scossa definitiva. Se la primaria è alle prese con il
tutor che la squassa dalle fondamenta snaturandola, le medie
affrontano il ridisegnamento degli orari, il cambiamento dei programmi
e delle discipline, l´avvento del bilinguismo, novità che lasciano gli
insegnanti confusi e incerti sul loro futuro.
Un futuro che sta facendo i conti anche con la rilettura del passato.
Sono le “Indicazioni” sulla storia, infatti, ad aver attirato, e non
da oggi, l’attenzione
degli studiosi.
E quella degli insegnanti?
«Ai tradizionali problemi dell´insegnamento della Storia - il
tempo, i contenuti, i ragazzi che non s´interessano - se ne sono ora
aggiunti altri: la riduzione delle ore, la scomparsa della storia
antica dalle medie e la questione del Novecento», spiega
Antonio Brusa,
docente di Storia. «Pochi calcoli: al momento un insegnante di III
media ha a disposizione 50 ore alle quali aggiunge 30 di educazione
civica, dovrebbero servire a spiegare bene il 1900, ora invece con la
riforma l´insegnante avrà meno di 50 ore annuali e non potrà disporre
delle riserve dell´Educazione civica, meno ore dunque e per giunta il
compito di trattare non uno ma ben due secoli in unico anno. In 15/25
ore si dovranno spiegare le due guerre mondiali, la società di massa,
il secondo dopoguerra... ».
Con buona pace di quell’attenzione al 900 che, con una apposita
direttiva, era stata sollecitata dall'ex ministro
Berlinguer nel
'96 sull'onda delle polemiche suscitate dalla dichiarazione di una
studentessa che, in un programma tv, confessò di non sapere chi fosse
Badoglio.
Accadeva solo qualche anno fa, ma ci sembra un’altra epoca. Come ad
una altra epoca sembrano appartenere tutte le
polemiche che
accompagnarono le proposte sui curricoli – ed in particolare su quelli
di Storia - che divisero gli studiosi, che intervennero sui contenuti,
sulle impostazioni, con un dibattito accesissimo che era frutto di
passione, di interesse, e, nonostante tutto, di condivisione di una
preoccupazione forte sul futuro della scuola. Dibattito consentito, e
va ribadito con forza, anche e soprattutto dalla pubblicità – ma,
forse, sarebbe meglio chiamarla
trasparenza -
che accompagnava, in quegli anni, ogni atto relativo alla riforma.
Pubblicità (e trasparenza) che oggi è negata … persino
nell’indicazione degli estensori dei documenti ministeriali, quasi che
chi si occupa di ridisegnare la scuola morattiana, in realtà se ne
vergogni.
Una procedura catacombale, come è stata felicemente definita
dal professor Ivo Mattozzi , Presidente dell’associazione
Clio 92
Dei contenuti delle Indicazioni si è discusso molto solo a proposito
della questione di Darwin.
Lo ha ricordato, nelle scorse settimane, un
articolo dal
quale estraiamo alcuni passaggi
“Il ministero aveva manifestato la
volontà di ripristinare un approccio “creazionista”, per sminuire
quella teoria dell’evoluzione che è ritenuta una delle conquiste della
scienza moderna. Poi erano arrivate le critiche, copiose e la Moratti
era tornata sui suoi passi. Ma è ancora intenzionata a fare
revisionismo. D’altronde la tendenza è questa: foibe,
criminalizzazione della Resistenza, defascistizzazione. L’opinione di
Adriano Prosperi
, docente di Storia Moderna all’Università di
Pisa, è severa: quella della Moratti «è una brutta storia, una
svirilizzata favola edificante cucita intorno all’Europa cristiana,
unita e solidale nella stessa identità, senza le Crociate, senza
l’Inquisizione, senza Lutero e le guerre di religione, senza la caccia
agli ebrei e alle streghe, senza la rivoluzione industriale, in una
parola senza conflitti né oppressioni, di razza, di classe, di genere»
Si teme quindi, in regime di riduzione degli organici, un calo
dell'offerta formativa.
Al di là dei contenuti, è la natura stessa delle Indicazioni che fa
discutere.
Emblematico, in questo senso, un
documento
redatto dagli studiosi del Dipartimento di Storia di Bologna, dopo una
conferenza con altri storici. Citiamo una parte del documento: «I
programmi del 1979
per la scuola media e quelli del 1985 per la
scuola elementare – e poi altri successivi, – non elencavano liste di
contenuti, non imponevano una selezione e una formulazione tematica
degli argomenti. Erano molto aperti e liberali. Di conseguenza il
plasmare il carattere della storia scolastica è dipeso dai produttori
dei libri, che hanno potuto liberamente accogliere nella manualistica
le conquiste della
storiografia esperta
.
Le Indicazioni attuali elencano invece un inventario completo di
contenuti e li formulano tematicamente e concettualmente. In tal modo
impongono ai
produttori di storia scolastica
– che devono confermarsi ad esse per stare nel
mercato – la selezione delle conoscenze e la loro tematizzazione. La
presenza dei manuali conformisti finirà per affermare una visione
della
storia unica ».
Una visione che gli storici di Bologna definiscono “una visione
ideologica di regime”.
Che non riguarda solo la storia, ma che nella riorganizzazione di
questa disciplina – e non può essere altrimenti – emerge con
chiarezza.
La riforma degli ordinamenti scolastici definita dal decreto
legislativo n. 59 del 19 febbraio 2004 – scrivono alcuni docenti della
Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze firmatari di
un
appello -
sollecita una serie di osservazioni e riflessioni.
La filosofia complessiva ispiratrice del decreto suggerisce un
profilo educativo
piuttosto che culturale, tutto centrato su dati
identitari, svalutativi delle conoscenze specifiche in quanto elementi
costituenti della formazione. Tale profilo mira «all'educazione
integrale della persona», insiste sulla preparazione alla «
convivenza civile» e sulla formazione di un modello «di identità
spirituale e materiale dell'Italia e dell'Europa», che colloca in
questo contesto «la riflessione sulla dimensione religiosa
dell'esperienza umana» (allegato D). Questa identità si fonda, oltre
che sulla dimensione religiosa cattolica, sulle radici nazionali,
regionali e comunali italiane. Appare del resto significativo che alla
formazione del progetto siano chiamati a concorrere con il ministero,
a ogni livello (anche nella determinazione dei programmi e degli orari
scolastici), le famiglie, gli enti territoriali e «l'insegnamento
della religione cattolica». Nella formazione e nella valutazione del
profilo complessivo dello studente è assegnato un ruolo centrale alla
figura di un coordinatore tutor scelto dalle istituzioni scolastiche,
che opera «in costante rapporto con le famiglie e con il territorio»
intervenendo nelle scelte curriculari a scapito dell'autonomia dei
docenti delle singole discipline. L'accesso al biennio della
scuola secondaria di primo grado è sottoposto a un controllo
preventivo da parte di
Servizio Nazionale di Valutazione
nominato dal Miur, che porta a una forte
centralizzazione la quale si traduce nella perdita di autonomia delle
istituzioni scolastiche.
A questa centralizzazione burocratica corrisponde invece un'offerta
formativa frammentata e discriminante, in quanto la classe ha una
parte dell'orario suddiviso in tre itinerari finalizzati al
«recupero», allo «sviluppo» e «all'eccellenza», con l'utilizzo anche,
per la scuola secondaria di primo grado, di «contratti di prestazione
d'opera con esperti in possesso di titoli definiti con decreto del
ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca di concerto
con il ministro della Funzione pubblica».
Un forte elemento unificante di tutto il processo formativo è fornito
«dall'insegnamento della religione cattolica» (allegato C), la cui
presenza disciplinare viene data per scontata come fosse obbligatoria
e la cui pervasività sul piano formativo è ribadita dalle intese fra
la Cei e il Miur relative alla scuola dell'infanzia e alla scuola
secondaria di primo grado del 23 ottobre 2003 e del 26 maggio 2004, le
quali fanno esplicito riferimento ai testi ministeriali della riforma
impiegandone lo stesso linguaggio.
Nel quadro così delineato si comprende
come l'insegnamento della storia sia assolutamente marginale e
predefinito. Non solo il suo orario risulta assai ridotto, ma anche
nell'indicazione dei suoi contenuti si perde la complessità del
processo storico. Viene limitato alla scuola primaria l'insegnamento
della storia antica, ridotta a una narrazione di
fiabe, miti e leggende
e privata dei suoi contenuti critici, mai più
recuperati nel prosieguo dell'iter scolastico.
Nella scuola secondaria di primo grado sono indicate unicamente
tematiche modulari che nascono da precise scelte interpretative (ad
esempio, la nascita della civiltà moderna collocata nel Medioevo, per
il `500 la connessione tra «la crisi dell'unità religiosa e la
destabilizzazione del rapporto sociale» e per l'epoca contemporanea la
forte insistenza sul carattere nazionale italiano). (…)”.
La denuncia dei limiti della riforma in corso da sola non è
sufficiente. E' più che mai necessario agire in sinergia con le forze
politiche e sociali. Evitare di star fermi ad aspettare Godot, e di
sfruttare tutti gli interstizi offerti dalla riforma: le Indicazioni
Nazionali - basta leggerle con attenzione - contengono molte
affermazioni anche contraddittorie tra loro; alcune di queste -
relative soprattutto a finalità e obiettivi - sono condivisibili e
forniscono spazi e pretesti per continuare a lavorare nel senso
dell'innovazione e dell'autonomia didattico - disciplinare.
Su "Strumenti Cres" n° 33 Elena Bertonelli, ispettrice Miur,
invita gli insegnanti e le scuole a valorizzare lo strumento -
costituzionale - dell'autonomia (non ancora abrogata dalla Moratti).
Opportunamente l'Autrice ci ricorda che l'autonomia permette alle
scuole di rivisitare i contenuti dell'insegnamento, di creare piani di
lavoro e percorsi didattici multi-interdisciplinari, di inserire
nell'offerta formativa, relativamente alla quota oraria prevista per
le singole scuole, insegnamenti, approfondimenti, studi.
Gli insegnanti più anziani - come noi - rammentano che non è la prima
volta che ci si trova a operare in un quadro di politica sociale e
scolastica avverso alle istanze innovative e riformatrici. Che i
programmi degli anni '50 e '60 "propedeutici" al '68 non hanno certo
impedito la diffusione dal basso delle innovazioni
didattico/pedagogiche e che - in ultima analisi - in classe, con i
suoi studenti, l'insegnante riesce sempre a proporre il suo progetto
didattico, ad onta dei Programmi nazionali, della minaccia di sanzioni
disciplinari e ... dei Garagnani di turno.
C'è qualcosa di inesplicabile che la attuale riforma mette in
discussione, che va oltre il singolo docente, le singole classi e le
singole scuole e che anzi ne comprende e ne condiziona il lavoro: è la
riscrittura in chiave liberista dell'asse culturale della scuola
statale (A cosa serve? Cosa deve insegnare? Per perseguire quale fine?
Per dare quale formazione alle giovani generazioni?). Questa
riscrittura è già, parzialmente, avvenuta, rivelandosi culturalmente
debole, inadeguata e anche non del tutto immune da elementi di più o
meno strisciante localismo e clericalismo. Essa non si è (ancora)
consolidata, non è (ancora) diventata - a dispetto degli spot e delle,
velate, minacce - senso comune della maggioranza degli insegnanti che
anzi la contestano sempre più apertamente.
Di qui la necessità che anche l'impegno nell'innovazione didattica si
trasformi quanto più possibile in
voce critica da
far entrare nello spazio del pubblico dibattito, in dissenso esplicito
contro questa riforma, in azione collettiva a favore di una scuola
capace di far incontrare le giovani generazioni con le questioni
cruciali del nostro tempo.
Ci riusciremo?