[evidenziazioni della redazione].

Così la riforma della scuola

sta rischiando di finire in un POF.

Piano dì offerta formativa. Ovvero, le materie in pratica non esistono più e gli insegnanti devono ingegnarsi a trovare progetti che attirino i clienti-genitori. Ma i soldi non ci sono, le strutture neppure: la confusione, anche lessicale, regna totale. E lunedì è sciopero.

di Attilio Giordano da Il Venerdì di Repubblica del 12/11/2004

 

ROMA - Per mettere insieme il «portfolio» di vostro figlio, come vuole la Moratti, occorre che partecipino anche i genitori. In pratica? «Arriva a casa un questionario con una serie dì domande molto intime», racconta una coppia di genitori, «alle quali non sempre è facile rispondere». Per esempio? «Si chiede se il bambino collabora ai lavori domestici. E’ successo che la mamma ha scritto di no, non ha vo glia di fare un tubo. Il padre, che a casa non ci sta mai, ha risposto sì, come no, è un bambino servizievole». Fin qui niente di male, al massimo qualche risata tra gli insegnanti. Poi, però, vogliono sapere a che ora va a letto, che dieta segue, «tutte cose» dice la maestra napoletana Olga Mautone «che magari noi finiamo per sapere, ma gradualmente, attraverso una procedura informale, non con un interrogatorio burocratico». Con l’aggravante che si tratta di uno strumento di valutazione. «Il genitore si domanda; gioverà di più sostenere che mangia frutta e verdura o carne e mortadella?».

 

Non tutti gradiscono. Anche perché sono un po’ estenuati. Prima con la riforma Berlinguer, ora con il nuovo corso, la scuola italiana subisce scossoni continui. Aggredita, prima di tutto, da un mare di parole dietro le quali non ci sono né soldi per realizzare quasi nulla né, spesso, contenuti.

Prendiamo il Pof, piano di offerta formativa. «Una volta» ricorda Teresa Eleonori, 35 anni di insegnamento a Roma, «c’era la scuola pubblica, oggi ci sono le scuole, ognuna con la sua offerta formativa, in base a cui il genitore può scegliere. Il fatto è che questi Pof spesso si sgonfiano perché non ci sono né soldi nè risorse umane per realizzarli. E’ vero, abbiamo combattuto negli anni 70 una didattica troppo rigida e nozionista, Ma ora siamo all’estremo opposto; la confusione, chiamata autonomia, è totale e la nozione è un optional».

Che ci sia una certa distanza tra parole e fatti è facilmente testimoniabile. Per esempio all’inglese, una delle tre «I» di Berlusconi, alle medie dovrebbe aggiungersi una seconda lingua straniera. «Come si fa?» chiede Eleonori. «Secondo la riforma riducendo da tre a una e quaranta le ore di inglese e dedicando il resto all’altra lingua». Ora, a parte la difficoltà dei quaranta minuti, di fatto si riduce l’orario dell’inglese. Ma c’è di più; quasi mai si attua il secondo insegnamento, perché i professori capaci di realizzarlo non ci sono. Lo stesso per l’inglese alle elementari. La riforma vuole che si cominci subito. Giusto. «Sì, ma con quali insegnanti? Invece di aumentarli li hanno ridotti. E chi ha maestri con capacità di affrontare l’inglese non può sottrarli all’insegnamento ordinario», dice Olga Mautone. E l’altra «I», l’informatica? Quasi tutti, se la praticano, si limitano alla teoria. I computer non sempre ci sono e, se ci sono, spesso mancano i tecnici per farli funzionare. Come risponde la Riforma? Declama: le Tic (tecnologie della comunicazione e dell’informazione) sono nella sfera di interesse dell’istruzione «fin dalla scuola dell’infanzia».

Molte parole — spesso difficilmente comprensibili — e pochissimi contenuti. Su questo tema e sulla terza «I» (impresa) un’insegnante di italiano a Torino, Paola Mastrocola ha scritto un romanzo (La scuola raccontata al mio cane, Guanda, euro 12, pp. 192). «Noi non insegniamo più» riflette «piuttosto animiamo». Il racconto è quello di una società che si è arresa: i giovani non vanno contraddetti né annoiati, non sanno leggere un libro, prefigurano una società atona. E se sono intelligenti è peggio: imbarazzano.

Sembra francamente avvilita; «I genitori sono diventati utenti, noi al biennio scientifico dobbiamo realizzare saperi minimi . Il cuore dell’offerta formativa, il terribile Pof sono le attività extrascolastiche e non il livello dell’insegnamento. La scuola si qualifica per corsi di giardinaggio, di cucito, di equitazione. Tutte cose buone, ma l’italiano, la matematica, la storia? Chi ha più il tempo di studiare?». A nessuno, dice Mastrocola, «importa di sapere se un insegnante è bravo. Mi dovrei distinguere dall’offerta formativa di una concorrente. Come? Io insegno Dante, Leopardi, Manzoni. Loro?».

Basta guadare i testi «riformati» delle elementari, obbligati ad adeguarsi, per comprendere che il vecchio concetto di studio è assediato da mille nuove urgenze; una teoria informatica astrusa, la socializzazione che sembra uscita da un brutto Bignami. Come nel fantastico Le parole di una scuola che cresce, edito dallo stesso ministero. L’utente è accolto, la famiglia è privilegiata. lo scambio comunicativo è assicurato, i processi sono tutti consapevoli, il ragazzo è stimolato. Si, ma poi in classe che si fa?

 

Qualche esempio. La geografia italiana, adesso, si studierà solo alle elementari, indicazione definita «assurda» dagli esperti. Ma c’è di peggio; solo nelle due ultime classi elementari si studierà la storia classica, greci e romani. Come dire, il cuore della nostra tradizione che si esaurisce tra i nove e i dieci anni.

Dice Giorgio Reccis, amministratore delegato della antica (1904) casa editrice La scuola; «Abbiamo dovuto adeguare i testi 2004 alla riforma. Cerchiamo anche di dare contenuto alle nuove indicazioni. C’è anche chi mette solo un’etichetta e lascia i libri come erano». Per gli editori specializzati, tra l’altro, è un costo non indifferente: volumi che vanno al macero, nuovi studi per interpretare il Moratti-pensiero. Che non ha avuto sperimentazione e, dunque, è un oggetto assai misterioso.

L’autonomia è un’arma a doppio taglio. Può significare maggiore libertà, ma più spesso vuoi dire asservimento a luoghi comuni «attrattivi», esattamente come è accaduto all’Università con il profluvio di corsi balzani. Racconta Roberto Renzo, docente di latino e greco al classico Mamiani di Roma: «Prenda il sei rosso. Non si va più a settembre e, con le riforme, è stato introdotto questo sei rosso che sarebbe indicazione di un’insufficienza sommersa dello studente. Si esorcizza il 4, ma in pratica si rinuncia a valutare, È un debito formativo da recuperare, e con questo ci mettiamo a posto la coscienza. Il fatto è che l’autonomia, spesso, significa fuga da ogni controllo. Persino l’esame di maturità, ora esame di Stato, è diventato inutile. Prima, almeno, era un rito di passaggio, oggi è un fatto tutto interno che nemmeno impensierisce. Senza commissario esterno io faccio quello che voglio. Non ho mai parlato di Sofocle? E chi può contestarmelo?».

In realtà è il concetto stesso di programma a essere messo in discussione e sostituito dal «progetto». «Che non vuol dire molto e, soprattutto, dà luogo a idee in libertà», ammette Teresa Eleonori. Un esempio? «Facciamo un progetto sulla poesia: struttura, lettura di poesie, produzione degli studenti. Questo ci prende un mese o due delle ore di italiano. E chi recupera quello che non si è fatto? Un dato semplice viene ignorato: noi abbiamo un tempo che è quello che è, e non si possono sottrarre ore senza rinunciare a qualcosa». Il ministero come replica? Con la rimodulazione dei tempi. Che prevede percorsi differenziati.

La riforma Moratti è solo l’ultimo atto di un lungo processo. Alla scuola superiore, e spesso all’Università, arrivano già ragazzi che non sanno scrivere, ignorano accenti e punteggiatura, non costruiscono una frase sensata. «il vecchio tema non c’è più, lo sapete?», racconta Mastrocola. «Ora ci sono sintesi giornalistiche, quiz, riassunti. Ma il tema? Non è più obbligatorio. Serviva proprio a questo: imparare a scrivere». A ciò si aggiunge una «nuova tendenza». Sulla strada dell’impresa si incontrano nuovi ostacoli. Insegnanti crescentemente spaventati, temono l’intervento della legge con ricorsi selvaggi di chi è bocciato.

Opinioni in lIbertà? Purtroppo no. Un’indagine periodica dell’Ocse sul sistemi scolastici del Paesi più avanzati (Education at a Glance, settembre 2004) ci vede regolarmente nel gruppo di coda dei 27 Paesi, per lo più con Grecia, Portogallo, Ungheria, Polonia, Messico. Norberto Bottani, oggi responsabile dell’istruzione nel cantone di Ginevra, ha lavorato al progetto Ocse per anni. Commenta: «Francamente l’istruzione italiana è una catastrofe. Ha un alto numero di docenti, intorno al milione, ma disorientati e mal preparati; i risultati sono pessimi. È vero che la scuola elementare, invece, sta nella zona alta della classifica. Ma se si confrontano quei dati con quelli di chi inizia le superiori — come abbiamo fatto con il progetto Pisa, che valuta la preparazione dei quindicenni — non ci si spiega che cosa accada in quel buco nero che è la scuola media». Il discorso di Bottani prescinde dalla riforma. Ma la diagnosi è spietata: «incapacità politica, gestione confusa e non adeguata ad un Paese di questo livello. Confusione normativa e burocrazia cervellotica. Soprattutto: discrepanza tra teoria e pratica». Un funzionario del ministero dell’Istruzione aggiunge un brutto presentimento: «E’ vero, avevamo una buona elementare, con una tradizione e una sua forte struttura docente organizzata e aggiornata. Stanno smantellando anche quella».

«Noi resistiamo», dicono alla elementare di Bagnoli. Ma stanno già nel guado tra la scuola prima di Berlinguer, con i suoi limiti, e un verboso nulla.