DIECI DOMANDE

SULLA SCUOLA SECONDARIA SUPERIORE E LA LEGGE 53.

 

 di Pino Patroncini da Retescuole del 14/11/2004

 

Uscirà il decreto attuativo della legge per la scuola secondaria?

Le scommesse sono aperte. Il termine della delega scade l’11 aprile e per farcela dovrebbe uscire almeno entro Natale. E’ il pezzo strutturalmente più complicato: materie, indirizzi, insegnanti diversi tra loro. Ed è anche il pezzo più impegnativo visto che si vuole dividere in due il sistema: i licei, la serie A, allo Stato (devolution permettendo), i professionali, la serie B, alle regioni.

E se la riforma della superiore, che ha avuto finora solo riforme parziali, non va in porto il fatto che il Ministero abbia puntato subito sull’elementare, riformata globalmente nell’85, si rivela come il tentativo di affondare il bisturi non dove c’era più bisogno ma dove l’operazione sembrava strutturalmente più facile da praticare e soprattutto da usare in termini di propaganda. Se non fosse che la reazione di insegnanti e famiglie ha mandato all’aria anche questo piano.

 

Cosa dirà questo decreto?

Dovrà chiarire molte cose, anche se la legge dice già che il percorso successivo alla media sarà diviso in due sistemi: quello dei licei e quello dell’istruzione e della formazione professionale. Per quello che si sapeva finora da cose che Bertagna e altri avevano detto ai giornali si parla di 8 licei (classico, scientifico, artistico, musicale, linguistico, scienze umane, tecnologico e economici) e di 10 aree nei professionali (agro-ambientale, tessile-moda, meccanica, chimico-biologica, grafico-multimediale, elettrico-elettronico-informatica, edile-del territorio, turistico-alberghiera, aziendale-amministrativa, socio-sanitaria). Vediamo già da queste denominazioni che più che del professionale si tratta di tutto il settore tecnico-professionale.

Sappiamo infatti che i licei avranno un profilo squisitamente teorico ( pre-bocconiano per gli economici, pre-politecnico per i tecnologici che non saranno perciò né i nuovi Itc né i nuovi Itis con un altro nome) e che quindi il sistema professionale potrebbe coprire non solo lo spazio oggi coperto dall’istruzione professionale ma anche da quella tecnica .

Sappiamo inoltre che per un’interpretazione estremistica del titolo V della Costituzione tutto il potere sul sistema professionale o, meglio, tecnico-professionale (titolarità, programmi, contenuti, organizzazione , amministrazione) andrà alle regioni. Vanno fatte salve le ulteriori novità contenute nel terribile testo di riforma costituzionale in corso di approvazione: dal punto di vista del rapporto di lavoro livellerebbe al ribasso mettendo tutti quanti alle dipendenze delle regioni, ma manterrebbe comunque una differenziazione forte tra i due sistemi, i licei, la scuola vera, e la formazione professionale.

 

Ma su questo punto non c’è stato un dissenso anche di Confindustria?

Su questo punto equivoci e contraddizioni si sono sviluppate nella maggioranza e tra la maggioranza e persino Confindustria che, timorosa di vedere gli Itis schiacciati sulla formazione professionale propone solo di cambiargli il nome in licei tecnologici e di lasciarli allo Stato. La proposta aggrava il problema dei professionali sempre più soli e marginalizzati, ma è una bomba sul modello liceale astratto che la Moratti e Bertagna vorrebbero.

Sappiamo inoltre che al Ministero le lobby interne, di materie di indirizzo, si stanno dando da fare per non finire in serie B.

Con tutte queste contraddizioni anche tra loro il decreto definirà di che morte bisogna morire. Dove passerà la linea divisoria tra i vari pezzi. Chi andrà di qua e di là.

Dovrà definire anche come si procede col personale che fra riduzioni di orario, annualità soppresse e passaggi di competenza alle regioni verrà tolto dai ranghi dello stato. La cosa si scaricherà sicuramente sui precari. Ma solo su loro? Troverà applicazione il decreto 212/2002 sulla messa a disposizione dei soprannumerari e sui licenziamenti?

 

Perché si scaricherà soprattutto sui precari?

Innanzitutto la perdita di posti assoluta dovuta alle riduzioni di annualità e di orari impedirà di rinominare tutti quei precari che sono stati nominati in questi anni, mentre i docenti di ruolo vanno in soprannumero ma non perdono lo stipendio, anche se su di loro incombe quel decreto 212 che dice: riconversione o messa a disposizione poi licenziamento.

A ciò occorre aggiungere i passaggi di amministrazione ( dei docenti del professionale secondo la “vecchia” costituzione, di tutti secondo la “nuova”). Non si sa ancora come si procederà col personale di ruolo, se ci saranno meccanismi di opzione o altro. Ma se per esempio ci fosse il mantenimento in carico ad una amministrazione fino ad esaurimento dei docenti per andata in pensione questa si eserciterebbe solo sul personale di ruolo, non su quello precario. I precari si troverebbero a dover affrontare subito un numero minore di opportunità secondo le vecchie norme, graduatorie, punteggi ecc. e dovrebbero misurarsi con nuovi meccanismi e regole regionali. Il sindacato potrebbe rivendicare, come ha già promesso, alcune garanzie ( validità delle “vecchie” graduatorie, reclutamento con regole nazionali ecc.) ma allo stato attuale nulla è garantito.

 

Quali modificazioni all’organico della secondaria superiore comporterà la riforma?

Molto dipenderà da dove passerà la linea divisoria di cui si parlava prima ecco un motivo per cui le lobby interne al Ministero premono per questa o per quella soluzione.

Nella scuola secondaria superiore ci sono all’incirca 2.500.000 studenti e ad essi corrispondono all’incirca 250.000 insegnanti. Avremo tre fattori che modificheranno l’organico statale ( sempre che la devolution non sparigli tutto) : la riduzione degli anni di studio nel professionale, la riduzione degli orari, il passaggio dell’istruzione tecnico- professionale al sistema della formazione professioanale.

La riduzione di anni di studio riguarda l’istruzione professionale. Un anno in meno in questo settore sono circa 10.000 insegnanti i meno, ma se sotto questa dizione finisse anche l’istruzione tecnica saliremmo a 30.000

La riforma prevede orari oscillanti tra le 25 e le 28 ore contro gli attuali orari di 30 ore nei licei, 35 nei tecnici e 40 nei professionali. Calcolando perciò ottimisticamente una base di 28 ore e moltiplicando le differenze per le classi dei vari settori e dividendo queste ore per 18 abbiamo nei licei 5.000 posti in meno, nei tecnici 17.500 posti in meno, nei professionali 11.700 posti in meno, negli artistici 3.300 posti in meno. Il totale fa 37.500 posti in meno, che sommati alla perdita precedente fa da 47.500 a 67.500 posti in meno.

I passaggi alla formazione professionale variano anch’essi a seconda delle diverse possibilità: allo stato attuale se passa la sola istruzione professionale tutti i 70.000 docenti vanno alla formazione professionale con una perdita complessiva per la scuola di 95.800 posti; se passa anche l’istruzione tecnica passerebbero 160.000 posti con una perdita di 169.300 posti; se passano anche gli istituti d’arte passerebbero 165.000 posti con una perdita complessiva di 171.650 posti.

Sono cifre bibliche, ma non sono irreali se si pensa che il ministero equivoca spesso tra opzionalità e facoltatività e che le materie opzionali , che sarebbero la via per coniugare orari meno gravosi per gli studenti con la molteplicità delle competenze richieste, sono comunque giocate al ribasso all’interno delle 25-28 ore, in chiave di insegnamento del dialetto piuttosto che in chiave dell’orientamento professionale.

La perdita di posti riguarderà anche il personale Ata. Grosso modo salterà (o passerà alla formazione professionale) un Ata ogni tre docenti.

 

Ma da un po’ di anni l’utenza si sposta verso i licei: ciò potrebbe compensare queste perdite?

Fin qui tutto a bocce ferme. Ma arriverà un fenomeno imponderabile a modificare tutto ciò: lo spostamento dell’utenza. Infatti la creazione di un sistema binario e separato riposiziona tutta la domanda.. Oggi noi abbiamo circa il 60% degli alunni nell’istruzione tecnica e professionale e il 40% nei licei. Se la cosa si riproducesse così avremmo nella scuola la perdita massima indicata prima: 171.650 posti.

Ma se l’utenza si sposta avremo grosso modo le seguenti possibilità:

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50% e 50% resteranno allo stato circa 100.000 insegnanti

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40% e 60% resteranno circa 120.000 insegnanti

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30% e 70% resteranno circa 140.000 insegnanti

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20% e 80% resteranno circa 160.000 insegnanti

E’ illusorio pensare che si accalcherà nel sistema dell’istruzione e della formazione professionale la percentuale tra il 60 e il 70% che oggi si accalca nei settori tecnico e professionale. Non siamo più negli anni 50, l’industrialismo non paga più, le famiglie scelgono per i figli le scuole migliori, il settore professionale ha caratteristiche di scuola di seconda scelta, i ragazzi hanno tempi di vita diversi e c’è uno spostamento verso studi generalisti, soprattutto nella fase tra i 14 ei 16 anni. I paesi europei che hanno l’alternativa tra studi generalisti e studi specialisti in questa fascia di età (Francia, Germania) vedono uno svuotamento dei secondi a favore dei primi e i paesi che hanno l’alternativa secca tra licei e formazione professionale mancano di personale tecnicamente preparato (Spagna). In Trentino dove non c’è l’istruzione professionale di stato ma solo la formazione professionale regionale, per quanto essa sia buona, raccoglie solo il 14% dei ragazzi contro il 23% dell’istruzione professionale statale a livello nazionale nazionale.

Il fenomeno dell’aumento delle iscrizioni ai licei è evidente da anni, con le notizie sulla riforma si è accentuato. Quest’anno quasi metà delle alunne delle prime risultano iscritte a un liceo. Tutto ciò ci dimostra che oggi non si può pensare alla formazione professionale neppure come alla scuola della classe operaia, cosa che poteva essere negli anni cinquanta, ma come alla scuola per la parte più debole dei figli della classe operaia. Un’ingiustizia più grossa che nel passato. Una marginalità più evidente.

 

Allora lo spostamento dell’utenza salverà le cattedre?

Se ciò è vero, ci sarà una correzione alla perdita di organici nella scuola. Ma ci sono categorie di docenti che non ne beneficeranno affatto. Sono i docenti delle materie tecniche, non solo pratiche ma anche teoriche. Essi sono la metà dell’intera categoria e saranno destinati alla formazione professionale dove il rischio è che non ci siano alunni, mentre il grosso degli alunni sarà nei licei dove non ci sono le discipline che essi insegnano. Tenendo conto che metà dei docenti tagliati per riduzione di orario e di annualità sono già insegnanti di tecnica, se ipotizzassimo anche solo una ripartizione dell’utenza del 50% nei due settori, possiamo presumere, non solo che dei 120.000 insegnanti di tecnica la stragrande maggioranza dovranno migrare nella formazione professionale, ma anche che circa 50.000 insegnanti di tecnica, teorici e pratici, non troverebbero più il posto, né di qui né di là.

 

In conclusione?

In conclusione si può dire che il decreto, come la legge d’altronde, mira a prendere non due ma tre piccioni con una fava. In altre parole c’è una coincidenza di obiettivi economici, ideologici e sociali.

Economici: la riforma dimezza il personale della scuola secondaria, del tutto o passandolo ad altre amministrazioni. Sommata alle altre riduzioni nella media e nell’elementare a lungo andare porta l’organico docente in carico allo stato (sempre devolution permettendo) dagli attuali 800.000 a circa 500.000 addetti e gli Ata da 250.000 a circa 150.000.

Ideologici: si comincia alle elementari dicendo che il maestro che insegna italiano e matematica è quello che mette i voti e parla con i genitori mentre quello della plastilina no, si passa alla media ed educazione tecnica, se c’è, è quasi tutta nelle ore facoltative, si finisce alle superiori con una scuola teorica di serie A e una tecnica di serie B, Che idea si farà un ragazzo del lavoro manuale? Del saper fare? Altro che scuola che unisce sapere e saper fare! Li separa!!!!

Sociali: segrega gli studenti secondo le capacità e inevitabilmente secondo il censo. Nell’obbligo in diverse attività facoltative, alle superiori in due sistemi diversi.

 

Ma la Moratti non diceva di voler unire scuola e lavoro?

Sebbene il decreto più importante ancora non ci sia sono stati emanati due decreti che riguardano direttamente la scuola superiore: quello sul diritto-dovere e quello sull’alternanza scuola-lavoro. Ma i decreti in realtà sono tre: Il terzo decreto non è un decreto applicativo della legge 53, è un decreto applicativo della legge 30 sul mercato del lavoro: il decreto 276/2003 che riguarda l’apprendistato.

Il decreto sul diritto-dovere abolisce l’obbligo scolastico stemperandolo in garanzie vaghe, consolida l’arretramento scolastico a 14 anni, promette che il diritto dovere si eserciterà fino a 16 anni, ma non solo nella scuola: nella formazione professionale e nell’apprendistato. Ecco dove entra in scena il decreto 276: questo decreto prevede che in apprendistato, cioè in azienda, si possano anche prendere qualifiche e diplomi, validi anche per andare all’università,. senza neppure un’ora di formazione ( le poche ore di formazione, 120 o 240, che c’erano nella legge precedente non ci sono più). In questo modo le aziende non solo sfrutteranno gli apprendisti con contratti di favore ma si prenderanno anche i finanziamenti europei per la formazione.

Di fronte a ciò il decreto sull’alternanza scuola-lavoro che viene tanto propagandato dal ministro crea equivoci e svia l’attenzione. Esso lascia sì alle scuole la titolarità, ma si tratta di stages e di aziende che entrano a scuola a spiegare, non di vera alternanza.

Noi dividiamo in tre (formazione professionale, alternanza e apprendistato) quello che nei paesi dove queste cose si fanno sul serio è una cosa sola. In Germania, Austria, Belgio, Olanda, Svizzera e Danimarca, dove la formula è diffusa non c’è differenza fra queste tre cose: si fa metà lavoro e metà scuola ( 600-700 ore di scuola vera, educazione fisica compresa) e a 16 anni compiuti.

Da noi non esiste questa cultura della formazione professionale: la nostra borghesia ha utilizzato l’apprendistato solo per sfruttare meglio la forza lavoro giovane. Secondo l’Isfol nel 2002 su più di 400.000 apprendisti solo 31.000 hanno frequentato corsi di formazione e non era neppure scuola vera e propria!

 

Vengono dunque fuori handicap ereditari storici della nostra formazione?

La mancanza della cultura della formazione professionale nelle classi dominanti italiane non è l’unico handicap storico. La nostra arretratezza economica fino agli anni sessanta e una classe dirigente che fino ad allora si preoccupava solo di riprodurre sé stessa ha dato alle classi medie di allora un ginnasio dimezzato: la vecchia scuola media. E noi oggi abbiamo, insieme all’obbligo scolastico più corto d’Europa, la scuola media più corta d’Europa: tre anni laddove altrove è di quattro o di cinque. Questo ha più influenza di quanto non sembri perché altrove la scuola media arriva a ridosso della fine dell’obbligo (16 anni quasi ovunque) e all’inizio dell’età minima da lavoro. Tra i 14 e i 16 anni, la centralità della scuola non è in discussione. Non ci sono equivoci: quando si parla di formazione professionale, apprendistato, alternanza se ne parla a 16 anni. Persino in quei paesi che malauguratamente hanno tre o quattro scuole medie di indirizzo, questo scelta pur precoce si pratica nella scuola, non è una scelta tra la scuola e qualcos’altro. Solo noi mandiamo i quattordicenni in formazione professionale o nei corsi tappabuco, che il Ministero ha spacciato per integrati e sperimentali, e i quindicenni in un apprendistato che è solo lavoro. Solo noi descolarizziamo a 14 anni.

Questo non vuol dire necessariamente volere anche da noi la scuola media lunga, ma vuol dire tenerne conto per i primi anni della superiore.

Certo anche in Europa, come da noi, ci sono forze politiche o governi che vorrebbero anticipare le scelte e magari anticipare anche l’apprendistato. Ma da noi si sta veramente sfruttando la nostra arretratezza per essere davanti a tutti nella ritirata della scuola.

Da noi non manca solo la cultura della formazione professionale manca anche quella della formazione civile!

 

Roma, 7 novembre 2004