Scheda 1 • I nuovi schiavi del terzo
millennio. Traffico, commercio e tratta di bambini e adolescenti
Scheda 2 • Bambini “guerrieri”, vergogna e
crimine di “adulti”
Scheda 3 • Altrove e in nessun luogo
inseguendo la vita: bambini scomparsi e adolescenti “in fuga”
Scheda 4 • Il coinvolgimento dei
minori nelle sette
Scheda 5 • La lotta alla povertà; una
sfida ancora aperta
Scheda 6 • Il Codice di
Autoregolamentazione Internet e Minori: nuove garanzie per i giovani navigatori
Scheda 7 • Internet, pedopornografia e percezione dei rischi
Scheda 8 • I bambini e la pubblicità
Capitolo 2: Il disagio, la devianza e la giustizia minorile
Scheda 9 • Il servizio emergenza infanzia 114: un modello di
presa in carico dell’emergenza
Scheda10 • La progettazione e l’applicazione di standard di
qualità nelle helpline telefoniche per l’infanzia
l’adolescenza
Scheda 11 • Quale riforma per la giustizia minorile?
Scheda 12 • Devianza minorile e comportamenti violenti: percorsi
di riflessione e di intervento
Scheda 13 • La violenza giovanile urbana: il caso Napoli e le
principali esperienze europee
Scheda 14 • L’integrazione scolastica dei minori stranieri
Scheda 15 • Le relazioni pericolose: il consumo di sostanze
stupefacenti e il doping in adolescenza
Scheda 16 • Comportamenti suicidari nei minori italiani
Capitolo 3:
Socialità, cultura e nuovi media
Scheda 17 • Il ruolo della scuola nella
percezione degli studenti
Scheda 18 • Il sistema delle certezze e dei
valori degli adolescenti italiani
Scheda 19 • La consulenza on line per
l’infanzia e l’adolescenza: aspetti problematici e opportunità
per lo sviluppo di nuovi canali di ascolto
Scheda 20 • Bambini e adolescenti: i nuovi
percorsi del tempo libero
Scheda 21 • Il calcio italiano e i giovani:
la fabbrica della speranza
Scheda 22 • I fumetti
Scheda 23 • “Giovani marmotte” i boy scout
in Italia
Scheda 24 • La città a misura di bambino
Capitolo 4:
La salute
Scheda 25 • Il problema del “dolore” nel
neonato e nel bambino
Scheda 26 • La salute del bambino
immigrato: realtà e problemi
Scheda 27 • Dalle depressioni “generali” ai
disturbi depressivi nell’infanzia: quale realtà clinica?
Scheda 28 • La malattia celiaca
Scheda 29 • L’ipertattività nei bambini
Scheda 30 • Le patologie indotte dai nuovi
media
Scheda 31 • Aids e minori
Scheda 32 • Strade a rischio: il pericolo è
dietro l’angolo
Capitolo 5: La famiglia
Scheda 33 • Costo dei figli: l’opportunità
della conciliazione
Scheda 34 • I micronidi aziendali
Scheda 35 • Padri separati:
conflitti, delitti, voglia di riscatto e di affidamento
condiviso
Scheda 36 • Il ruolo dei nonni nella
famiglia allargata
Scheda 37 • Genitorialità e carcere: madri, padri, minori,
dentro e oltre le sbarre
Scheda 38 • Gli affidamenti familiari e il processo di deistituzionalizzazione degli istituti per minori
Scheda 39 • Luci ed ombre della nuova legge n.40/2004 sulla
procreazione assistita
Scheda 40 • I bambini prodigio
Note
Scheda 41 •
Note
Scheda 42 •
Identikit del bambino
Scheda 43 •
Identikit dell’adolescente
I nuovi schiavi del terzo millennio.
Traffico, commercio e tratta di bambini
e adolescenti
Schiavitù globalizzata. Sebbene
resti tuttora un concetto e una realtà che si tende ad associare
al passato, la piaga della schiavitù, con tutti gli orrori, le
angherie e le umiliazioni che essa comporta, non è scomparsa: ha
semplicemente assunto nuove forme e inquietanti sembianze. La
“moderna schiavitù” si è globalizzata, coinvolge e riguarda
sempre più bambini e adolescenti. Anche se individuata,
descritta e analizzata con parole diverse, a ben guardare tutte
le parole rimandano ad un unico fenomeno impregnato da una
pluraliità di elementi: violenza, imposizione, dominio,
sfruttamento; senza più limiti temporali e spaziali (dal Sud al
Nord del mondo, da Est ad Ovest) e che rimandano inesorabilmente
alla persona umana ridotta a “cosa”, a “prodotto”, a “consumo”.
Quando si dice “tratta”…Si stima che il solo giro
d’affari della prostituzione infantile internazionale supera i 5
miliardi di dollari l’anno e più di 4 milioni di persone sono
vittime della tratta. In particolare, la classifica dei paesi
dove lo sfruttamento minorile a scopo sessuale è maggiormente
diffuso vede al primo posto Cina, India, Brasile e Thailandia.
Inoltre, da 15 anni a questa parte, il numero delle vittime è in
costante e progressivo aumento: i flussi provenienti dai Paesi
dell’Europa centro-orientale registrano ingenti spostamenti che
vanno ad aggiungersi a quelli già esistenti, dall’Africa,
dall’Asia, dall’America latina e dai Caraibi.
Macro-tipologie del traffico di esseri umani. Esiste un
traffico mondiale di esseri umani marcato da direttrici ben
definite. È possibile, infatti, individuare delle
“macro-tipologie”, anche se non completamente esaustive, di
questa inedita schiavitù in riferimento a quelle che possono
essere definite le principali “finalità perseguite”.
A scopo di sfruttamento sessuale —
Tipologia che annovera in sé elementi e aspetti contigui e
intersecanti: dallo sfruttamento che si consuma sui marciapiedi
a quello esercitato al chiuso di insospettabili appartamenti o
di locali notturni. Dal cosiddetto “turismo sessuale” alla
pedo-pornografia via Internet o pubblicitaria, questo tipo di
sfruttamento è diventato in pochi anni uno dei commerci più
promettenti e lucrativi, destinato a soppiantare anche quello
della droga
Si stima che, solo nel 2003, il mercato del sesso abbia
coinvolto dai 2 ai 3 milioni di bambini o adolescenti in
Thailandia, dai 40.000 ai 200.000 nelle Filippine, dai 70.000 ai
100.000 in Giappone, circa 2 milioni in Brasile, 25.000 nella
Repubblica Dominicana, 60.000 in Russia. Ma sono molti di più se
si considerano gli altri Paesi dell’ex blocco sovietico
(Bulgaria, Romania, Ucraina) e i territori della penisola
balcanica (Kosovo, Albania, Serbia e Montenegro).
In Italia, il 35% delle 50.000 donne straniere coinvolte nel
mercato della prostituzione ha un’età compresa tra i 14 e i 18
anni. Nel 2003 tra 18mila e 25mila, in gran parte minorenni,
provenienti soprattutto da Africa e Balcani, sono passate l’anno
scorso dall’Italia per finire sui marciapiedi di mezz’Europa per
prostituirsi. In prima fila, nel triste primato dei paesi
esportatori di minorenni destinate alla prostituzione c’è la
Nigeria, seguono i Paesi dell’Est Europa e Balcani.
In aggiunta, i produttori di pedo-pornografia diffondono e
difendono un giro d’affari di migliaia di miliardi: il prezzo
delle fotografie in rete varia dai 30 ai 130 euro; i cd con i
“cataloghi” sono offerti a 78-104 euro l’uno; i filmati valgono
260 euro, o molto di più, se in essi compaiono scene sado-maso o
di violenza sessuale estrema.
Il mercato della chicken porn (pornografia minorile)
conta, ogni anno, circa 250 milioni di copie di video vendute in
tutto il mondo. Per non parlare dell’editoria hard che
vanta 260 differenti tipi di riviste mensili.
A scopo di matrimonio “precoce” o forzato —
Si tratta di matrimonio “combinato” spesso contratto attraverso
una vera e propria “vendita”, imposto a minori, soprattutto
bambine, sotto i 18 anni. Questa pratica è largamente diffusa
nei paesi sub-shariani e nell’Asia del Sud, ma anche in alcune
parti dell’Europa e dell’America Latina. Alcune adolescenti sono
costrette con la forza, altre sono semplicemente troppo giovani
per prendere una decisione cosciente.
A scopo di sfruttamento lavorativo — Da quello
domestico a quello in fabbrica, da quello metropolitano e
turistico-alberghiero a quello rurale, da quello per
“accattonaggio” forzato (ai semafori, davanti a supermercati,
chiese ed ospedali) a quello per “microcriminalità” (furti,
rapine, spostamenti di droga o refurtiva, esposizione e vendita
al dettaglio nei mercatini rionali).
Allo sfruttamento lavorativo spesso si associa quello di
servitù per debito, diffuso soprattutto in Pakistan e
India, Bangladesh e Nepal, noto come “bonded labor”
(lavoro vincolato). Si tratta di un vincolo che assume le forme
di una “consegna forzata” di una bambina o di un bambino ad un
“padrone”, a garanzia di un prestito ricevuto o per estinguere
un debito contratto da un familiare.
Nel mondo sono circa 245,5 milioni i baby lavoratori e fra essi
circa 170,5 milioni sono impiegati in attività pericolose. E
ogni anno, 22.000 di loro restano coinvolti in incidenti sul
lavoro.
A scopo di adozioni irregolari e fuorilegge —
Fenomeno che spazia dalla “consegna” di minori e bambini da
parte delle famiglie di origine, per necessità di sopravvivenza
o per debito, alla sottrazione forzata e al rapimento ad opera
di singoli, gruppi o bande criminali. È noto a tutti che la
questione delle adozioni, in particolare quelle internazionali,
è oggi argomento di particolare riflessione e attenzione.
A scopo di sfruttamento in ambito sportivo —
Noto come “tratta di baby calciatori”, è uno “spaccato”
sociale poco esplorato, anche se rappresenta una occasione di
lucro e di sfruttamento, in particolare di minori stranieri.
Nella stagione 1998/99, in Italia, i tesserati under 16
extracomunitari sono stati 5.308, dei quali 23 professionisti,
tre “giovani di serie” (tesserati da società professionistiche
ma senza contratto) e 5.282 dilettanti (il 46% dei quali con
meno di 12 anni). I minorenni over 16 sono 1.181, di cui
soltanto 93 provenienti dall’Unione europea. Dei 1.088
extracomunitari 512 sono africani, 324 provengono dai Balcani
(Albania, Macedonia e Jugoslavia) e 107 dal Sud America.
A scopo di espianto-commercio di organi — È
dal 1986 che si sono diffuse notizie e denunce sui rapimenti di
minori mirati a ottenere organi da trapiantare. Queste pratiche
sono tra le cause dell’aumento del furto di bambini, soprattutto
in alcuni paesi dell’America Latina. Uno dei paesi dai quali
provengono più organi è l’Iraq; qui, secondo testimonianze
dirette e autorevoli inchieste giornalistiche, un rene può
essere acquistato a circa 25.000 euro, anche se al donatore
arriva una parte minima della cifra pagata. Per il trafficante i
guadagni sono enormi: circa 15.000 euro, al netto dei costi. Nel
maggio 2004, in Albania, è stata aperta un’inchiesta su un
presunto traffico di minori, dopo la scomparsa di circa 2.000
bambini, trasferiti illegalmente in Grecia e in Italia per
essere sottoposti a trapianti. In generale, il giro d’affari del
traffico illegale di bambini ammonterebbe ad1,2 miliardi di
dollari annui.
Per sfruttamento e commercializzazione dei succedanei del
latte materno — È, questa, una forma poco
indagata e particolare di aggressione mercantilistica a danno
dei minori; un’aggressione che rivela, anche se in forma
indiretta e mediata, come i bambini possano diventare vittime
fin da neonati. È stato calcolato che, nel solo 1991, gli
interessi economici delle industrie produttrici di alimenti per
bambini ammontavano a 7 miliardi di dollari. Nel 1988 è stata
lanciata una campagna di boicottaggio contro la Nestlè,
l’American Home Products/Wyeths e la Milupa. Questa azione,
avviata dall’International Baby Food Network (IBFAN), ha
coinvolto poi altri 14 paesi. Il motivo del boicottaggio è il
mancato rispetto del Codice di Condotta sulla
Commercializzazione dei Succedanei del Latte Materno, approvato
nel 1981 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Multinazionali e grandi aziende nazionali scoraggiano
l’allattamento al seno, per indurre le madri a comperare
sostituti del latte materno, attraverso politiche aggressive di
commercializzazione, dirette soprattutto ai paesi più poveri.
Sembrerebbe un controsenso la diffusione di prodotti cari in
paesi dove la povertà è diffusa, eppure esiste una logica dietro
questa strategia: con il declino del tasso di natalità dei paesi
industrializzati, le multinazionali si sono rivolte ai paesi in
via di sviluppo per estendere il loro mercato. Ma nei paesi in
via di sviluppo le probabilità che un bambino allattato
artificialmente muoia di infezioni intestinali prima di
terminare il primo anno di vita sono 14 volte più alte rispetto
a un bambino allattato al seno; le probabilità che muoia per
infezioni respiratorie sono triple. Il latte materno, infatti,
trasferisce dalla madre al figlio gli anticorpi di cui il
neonato è sprovvisto alla nascita: è questo il motivo per cui
nei bambini allattati artificialmente sono più ricorrenti i casi
di infezioni intestinali e delle vie respiratorie.
Bambini “guerrieri”,
vergogna e crimine di “adulti”
Guerrieri per forza. Dotati di
“licenza di uccidere”, trasformati in inconsapevoli “robocop”,
istigati all’odio e alla violenza. Si stima che, solo nel 2004,
sono stati circa 500.000, in 128 diversi paesi del mondo i
bambini e le bambine strappati ai loro sogni e ai loro giochi e
costretti ad impugnare le armi o a partecipare attivamente in
operazione militari. Vengono educati e addestrati alla violenza
e all’odio, alle tecniche d’assalto e alle imboscate, ad azioni
dinamitarde suicide. Vengono spediti nelle zone di guerra e di
conflitto, spesso imbottiti di alcool e droghe, obbligati a fare
le staffette, trasportare armi e vettovaglie, schiavizzati o, se
bambine, sfruttate per soddisfare le pretese sessuali dei
militari adulti.
Paesi coinvolti e mai assolti. Il fenomeno dei “bambini
guerrieri” è esploso in questi ultimi anni, soprattutto nei
paesi subsahariani, Medio Oriente e Nord Africa, Asia centrale e
Pacifico, America Latina. La maggior parte dei ragazzi che
prendono parte ai conflitti hanno un’età compresa tra i 15 e i
18 anni; tuttavia molti altri vengono reclutati a partire
dall’età di 10 anni; e in preoccupante aumento risulta essere il
numero dei bambini sempre più piccoli utilizzati nelle
operazioni militari. Anche se questa “geografia della vergogna”
appartiene prevalentemente ai territori e ai paesi del Sud del
mondo, i paesi cosiddetti sviluppati non si sottraggono a questa
vituperata consuetudine. Per esempio, almeno fino al 2000, oltre
la metà degli Stati membri dell’Organizzazione per la Sicurezza
e la Cooperazione in Europa (OSCE) accettava minori di 18 anni
nelle proprie forze armate.
Vite spezzate, da ricostruire. Nel corso degli ultimi
anni si è registrato un incremento massiccio nell’impiego di
bambini soldato. La questione dei baby-guerrieri, nonostante e a
dispetto di proclami, dichiarazioni e denunce, continua a
macchiare di vergogna e di orrore vasti territori.
Si stima che in Uganda i ribelli del LRA (Lord’s Resistance Army)
che si oppongono alle forze regolari del governo di Kampala,
abbiano “sequestrato” complessivamente 20.000 bambini (il 90%
dei reclutamenti), 8.400 dei quali solo tra giugno 2002 e lo
stesso mese del 2003. Il loro eventuale ma urgente recupero
psico-sanitario e sociale è reso ancora più difficile dalla
mancanza di strutture: in Uganda sono in attività solo 12
psichiatri, due ogni due milioni di abitanti. Analoga situazione
in Liberia (21.000 baby combattenti di cui oltre 15.000 solo
negli ultimi tre anni), nel Myanmar (70.000), in Colombia
(11.000). Per far fronte a questa situazione, l’Unicef ha
intrapreso un programma di riabilitazione ad ampio raggio in
numerosi paesi; per esempio, in Afghanistan, nella provincia del
Badahkshan a favore di 2.000 minori costretti a combattere in
diverse fazioni della guerriglia afghana. Un programma esteso
anche alle zone di Kunduz, Taloqan e Baghan, dove entro la fine
del 2004 altri 5.000 bambini potranno usufruire di sostegno
concreto per il loro reinserimento. Anche nello Sri Lanka (dove
sono più di 1.300 i minori reclutati e molti di appena 10 anni)
l’Unicef ha avuto un ruolo di primissimo piano in due recenti
occasioni: nel rilascio di 100 bambini, rimessi in libertà dai
miliziani dell’esercito ribelle delle Tigri Tamil nella città di
Vakarai, e nella liberazione (febbraio 2004) di altri 15 baby
combattenti, rilasciati nella città di Kilinochi. Ma a questi
interventi di liberazione e di riscatto intrapresi e realizzati
dall’Unicef se ne affiancano molti altri, effettuati sul campo,
ad opera di ONG e di organismi ecclesiali. Attivato
congiuntamente da Coopi e Unicef, è da evidenziare un importante
progetto sanitario-chirurgico estetico e di supporto
psico-sociale, denominato “Children’s Scars Removal”, reso
necessario per il fatto che i guerriglieri sierraleonesi hanno
inciso nel petto dei giovanissimi combattenti la scritta RUF
(Fronte Rivoluzionario Unito): marchio che per questi bambini
rappresenta un segno d’infamia indelebile, con conseguenze
psicologiche e di impossibile reinserimento nei contesti
familiari e sociali di origine, in quanto prova riprovevole
delle atrocità commesse.
Centri di smobilitazione dei bambini soldato. Sempre in
Sierra Leone, grazie alla Rete Caritas sono stati predisposti e
attivati centri di smobilitazione e di accoglienza. Inoltre sono
stati istituiti servizi di ricerca delle famiglie di origine e
percorsi di riunificazione ai nuclei familiari. È stato anche
predisposto un servizio di sostegno legale e di monitoraggio sul
rispetto dei diritti umani nella fase del reinserimento. Sono
stati finanziati percorsi alternativi di frequenza scolastica,
realizzate intese con artigiani locali ed istituiti laboratori
professionali. Dal maggio 2001, nei centri di smobilitazione dei
bambini soldato sono transitati più di 3.500 minori, in quelli
di accoglienza 2.771; gli adolescenti riunificati con le
famiglie sono stati 1.532, di cui 280 ragazze. Complessivamente
il numero dei beneficiari del programma attivato dalla Rete
Caritas si aggira tra le 5 e le 6mila unità.
Altrove e in nessun luogo inseguendo la vita:
bambini scomparsi e adolescenti “in
fuga”
Nel 2003, i minori italiani e stranieri
per i quali sono state attivate le segnalazioni di ricerca sul
territorio nazionale e che risultano ancora da ricercare sono
complessivamente 1.552, la maggiorparte dei quali (618, il 39,8%
del complesso) residenti al Nord, 512 al Centro (33%) e 422
(27,2%) nel Mezzogiorno. La regione che registra il maggior
numero di scomparsi è la Lombardia (305), seguita da Lazio
(254), Campania (229), Toscana (200) e Piemonte (137). Tra il
2000 e il 2003 i minori scomparsi in Italia sono aumentati di
624 unità, pari ad un incremento percentuale del 67,2%. Dal
2000, anno in cui erano 928, il numero dei minori italiani e
stranieri per i quali sono state attivate le segnalazioni sono
cresciuti progressivamente, raggiungendo le 1.167 unità nel 2001
e le 1.377 nel 2002. L’incremento maggiore si è verificato nelle
regioni del Nord, dove nel 2003 i minori scomparsi erano 305 in
più rispetto al 2000, ed in particolare in Lombardia (+187). Al
Centro, dove nel complesso si registrano 214 scomparsi in più,
l’incremento è stato particolarmente significativo in Toscana,
regione in cui nel 2000 si contavano “appena” 25 minori
scomparsi. Tra le regioni del Mezzogiorno, infine, la Campania
registra il maggior aumento: 92 minori scomparsi in più rispetto
al 2000, su un incremento complessivo di 105 unità. A fronte di
un generale peggioramento del fenomeno, alcune regioni hanno
visto diminuire, nel periodo considerato, il numero delle
segnalazioni: Puglia (-47), Emilia Romagna (-23), Lazio (-11),
Basilicata (-4). Inoltre, circa i 2/3 dei minori scomparsi sono
di sesso maschile. Se nel 2000, solo 313 delle 928 segnalazioni
erano riferite a bambine o ragazze adolescenti, nel 2003 le
minori scomparse erano 535, a fronte di 1.017 coetanei maschi.
Il 60,4% dei minori scomparsi (938) ha un’età compresa tra i 15
e i 17 anni, il 26,2% (406) tra gli 11 e 14 anni mentre il 13,4%
(208) non supera i 10 anni. Nelle regioni del Nord si registrano
le maggiori segnalazioni relative a minori scomparsi di età
compresa tra gli 11 e i 14 anni (199, 49% del complesso), e tra
i 15 e i 17 anni (352, 37,5% del totale), mentre la maggior
parte dei minori scomparsi di età inferiore ai 10 anni (76, il
36,5%) è residente al Centro. Gli stranieri rappresentano la
stragrande maggioranza (l’85,5%) dei minori scomparsi in Italia
ancora inseriti nell’archivio delle ricerche: 1.327 le
segnalazioni ad essi relative registrate nel 2003, di cui 535
inerenti bambini o adolescenti non italiani residenti al Nord,
479 al Centro e 313 al Sud. Rispetto al 2000, il numero dei
minori stranieri scomparsi è cresciuto di oltre 75 punti
percentuali (erano 758 nel 2000) ed è addirittura raddoppiato al
Nord, dove è aumentato di 268 unità. Le segnalazioni di minori
scomparsi di nazionalità italiana sono cresciute, nell’arco di
tempo considerato, in misura più contenuta (+32,3%), passando
dalle 170 del 2000 alle 225 del 2003. L’incremento maggiore ha
riguardato i minori italiani residenti nelle regioni
settentrionali (83, l’80,4% in più rispetto al 2000); al Centro
i minori scomparsi di nazionalità autoctona sono cresciuti del
6,4%, raggiungendo le 33 unità mentre al Sud un incremento del
17,2% ha portato il numero dei minori italiani scomparsi a 109.
Macro-tipologie di scomparsi e fuggitivi. Si possono
individuare sei macro-categorie e situazioni di minori scomparsi
e adolescenti che fanno perdere le loro tracce.
Scomparsi per decisione “volontaria” — Le
motivazioni che direttamente spingono (o indirettamente
costringono) bambini e adolescenti a “scomparire”, “fuggire” e
far perdere le loro tracce sono generalmente legate a condizioni
di disagio socio-educativo, a personali e controverse situazioni
affettive e sentimentali, a condizioni familiari conflittuali,
ad affermazione della propria identità, desiderio di nuove
relazioni, ecc.
Scomparsi “per forza” e “per sequestro” — È forse
la tipologia di scomparsa più pubblicizzata e conseguentemente
più nota all’opinione pubblica. Sono casi di cui molto spesso
non si riescono ad individuare né l’autore o gli autori, né il
movente, né la soluzione. Sono casi generalmente circoscritti ma
che possono riguardare sia italiani che stranieri.
Scomparsi per “sottrazione” e “contesa” — Per la
maggior parte dei casi si tratta di sottrazione dei minori da
parte di un padre o di una madre, separati o in via di
separazione, allorquando uno dei coniugi nasconde o sottrae
all’altro il figlio o la figlia. Soprattutto quando si tratta di
matrimoni “misti” (e tra un cittadino/a di nazionalità italiana
con stranieri/e se ne celebrano ogni anno più di 27.000), questi
casi sono spesso altamente drammatici. In Italia sono oltre 500
i casi di figli contesi da genitori separati, uno dei quali viva
all’estero e i paesi coinvolti nei contenziosi sono una
sessantina. Nel 2001, per esempio, le cause avviate sono state
53 e le vicende risolte 9. Fin dal 1997, i genitori che vedono
sottrarsi i figli dal partner straniero hanno un sito
(www.bambinirubati.org) cui rivolgersi per ricevere assistenza
legale e sostegno morale e psicologico. In cinque anni al sito
si sono rivolte circa 800 persone: 150 di queste hanno ricevuto
assistenza.
Scomparsi “senza nome” e “senza identità” — È una
tipologia poco nota al vasto pubblico occidentale ma
drammaticamente significativa per i paesi del Sud del mondo. In
essa si possono far rientrare i bambini “scomparsi” perché
sconosciuti, mai registrati alla nascita ma crescono in giro per
il mondo, privi di una qualsiasi identità ufficiale o di
nazionalità, di un nome, di un volto, di una appartenenza
familiare e sociale. In pratica non esistono. La tratta di
minori è in costante crescita in Europa e coinvolge ogni anno
migliaia di bambini, d’età compresa tra 8 e 18 anni, destinati
al mercato del sesso, all’accattonaggio, al lavoro minorile, al
traffico di organi o alle adozioni internazionali illegali. In
Italia, la tratta a scopo di sfruttamento sessuale coinvolge tra
le 10 e le 15mila minorenni, provenienti soprattutto da Albania,
Moldavia, Romania e Nigeria. In Spagna, infine, nel 2002 i
giovani sfruttati sessualmente risultavano essere 274, di cui
168 bambine coinvolte nella prostituzione. Nello stesso anno, è
stata denunciata la scomparsa di oltre 8mila minorenni, mentre
più di 6mila bambini stranieri sono giunti nel paese da soli,
senza genitori o parenti. In Danimarca, le stime parlano di
almeno 2.000 prostitute straniere, di cui molte minorenni.
Cresce il numero di bambini provenienti dalla Romania trafficati
per scopi criminali: solo negli ultimi 6 mesi del 2003, i casi
registrati sono stati 20. Nel 2002 in Bulgaria i minori vittime
di abuso sono stati 2.128, il doppio rispetto all’anno
precedente: 42 bambini rapiti, 99 forzati alla mendicità e 40
alla prostituzione, tutti tra gli 8 e i 13 anni. Secondo i dati
del Ministero dell’Interno di Sophia, tra il 1995 e il 2000, i
minori scomparsi sono stati 158, di cui 33 sotto i 14 anni.
Circa 10mila ragazze bulgare, molte delle quali minorenni,
potrebbero essere state coinvolte in prostituzione, pedofilia e
impiego in film pornografici. Anche in Romania la percentuale di
minorenni trafficati aumenta (+25% nel 2000, +36% nel 2003). Nel
caso di bambini destinati al mercato del sesso, la vittima può
essere venduta diverse volte: esemplare il caso di una
quindicenne venduta per 22 volte. Le vittime sono reclutate
attraverso false promesse di lavoro o di matrimonio.
Scomparsi, “prigionieri dell’occulto” — È una
tipologia di scomparsi molto diffusa, anche se poco conosciuta,
nei paesi del Sud del mondo, particolarmente in Africa e
principalmente in Alto Volta, Ghana, Benin, Nigeria, Togo, dove
è individuata col nome di Trokosi, che in lingua Ewe significa
“Schiave di Dio”: schiavitù al femminile, dunque, in quanto ad
essere colpite, fagocitate o manipolate sono soprattutto
ragazze. Nel mondo occidentale, Italia compresa, il fenomeno
balza agli onori della cronaca nera e in occasione di episodi
eclatanti e tragici, legati a scomparse, delitti, suicidi
individuali o di massa, nei quali vengono coinvolti anche
bambini e adolescenti. È una forma di scomparsa che si manifesta
e si attualizza all’interno delle cosiddette “sette religiose
occulte”. In Italia è Roma la capitale delle “religioni
alternative”, dei culti parareligiosi o magici: sarebbero 36 in
tutto. Il record regionale spetterebbe alla Lombardia (81
gruppi, di cui 71 religiosi e 13 magici). I capoluoghi con
minore presenza di “guru” e “santoni” improvvisati sarebbero
Campobasso (2), Potenza (1) e Matera (1); tra le regioni
l’Abruzzo (9 gruppi), il Molise (2), e la Basilicata (2).
Scomparsi “senza nessuno” — A livello europeo, il
fenomeno è divenuto solo da poco argomento di accurate indagini
statistiche, riflessione culturale e legislativa. Tra il 2003 e
il 2004, sono stati oltre 30mila i ragazzi stranieri non
accompagnati, presenti in 10 paesi della Ue, ai quali andrebbero
comunque aggiunti i “clandestini”. In Italia, la maggior parte
delle segnalazioni provengono dalla Lombardia (22%) e dal Lazio
(14%); seguono Piemonte (12%), Emilia Romagna (10%) e Puglia
(9%). In relazione all’età dei minori stranieri non accompagnati
oltre un terzo delle segnalazioni (il 35,4%) riguarda sedicenni
ma è consistente anche la percentuale di quindicenni (21,2%), di
diciassettenni (19,4%) e di ragazzini di età compresa tra gli 11
e i 14 anni (19,4%). I bambini tra i 6 e i 10 anni rappresentano
il 3,1% dei minori stranieri non accompagnati mentre l’1,5% non
supera i 5 anni.
Il coinvolgimento dei minori nelle sette
Il coinvolgimento di minori nelle sette è fenomeno alquanto
complesso e difficile da descrivere: per questo non va
trascurato, poiché, anche se in modo poco visibile, i minori vi
sono coinvolti sia come vittime (attraverso abusi psicologici e
sessuali), sia come autori di reato (con l’uso di alcol e droghe
fino a forme estreme di crimine). L’abuso sessuale sui minori è
una realtà tangibile, come denunciano i numeri forniti dalla
Direzione Centrale della Polizia Criminale:
Bambini e adolescenti vittime di violenza sessuale,
segnalazioni di reato e persone denunciate all’Autorità
giudiziaria
Anni 2002 e 2003
Anni |
Vittime |
Segnalazioni di reato
|
Persone denunciate alla A.
G. |
|
|
|
|
Numero segnalazioni
|
Di cui risolte
|
Totale |
Di cui in stato di libertà |
2002 |
598 |
493 |
482 |
587 |
300 |
2003 |
742 |
562 |
540 |
663 |
374 |
Fonte: Elaborazione Telefono Azzurro su dati
Direzione Centrale della Polizia Criminale Ufficio Affari
Generali – 3° Settore - 4_ Area, 2004.
Bambini e adolescenti vittime di violenza sessuale secondo il
sesso e la classe di età
Anni 2002 e 2003
Anni |
0-10 anni |
11-14 anni
|
15-17 anni
|
|
|
|
M |
F |
Totale |
M |
F |
2002 |
71 |
144 |
215 |
74 |
159 |
2003 |
113 |
179 |
292 |
93 |
200 |
Fonte: Elaborazione Telefono Azzurro su dati Direzione
Centrale della Polizia Criminale Ufficio Affari Generali – 3°
Settore - 4_ Area, 2004.
Secondo la Direzione Centrale della Polizia Criminale, Ufficio
Affari Generali - Sezioni Minori, in data 30 aprile 2004,
risultavano scomparsi sul territorio italiano 605 minori (185 di
nazionalità italiana e 420 di nazionalità straniera). Tra questi
vi era anche il minorenne F.T, il quale nel giugno di quest’anno
è stato ritrovato morto, sepolto nei boschi di Busto Arstizio,
per mano di un gruppo di giovani satanisti. L’episodio appare
indicativo della pluralità di elementi di cui si compongono i
crimini di tali organizzazioni e di come la scomparsa improvvisa
di un minore possa rappresentare uno dei tanti pezzi del
complesso puzzle del fenomeno delle sette criminose.
Senza destare inutili allarmismi, è fondamentale, dunque, che
attraverso un lavoro di rete, sinergico e scientifico, tra
Chiesa, Stato e associazioni che si occupano di infanzia, si
tenda a far maggiore luce sulla pericolosità dei gruppi settari,
per definire il grado di rischio a cui sono sottoposti i bambini
che, a vari livelli, entrano a contatto con le sette.
Satanismo e sette sataniche. Il satanismo «(…) è una
religione basata (….) sull’adorazione di Satana che può essere
inteso sia come divinità malefica a sé stante, che come
avversario del dio cristiano».
Le sette sataniche, a differenza delle altre sette religiose di
tipo ordinario, rivolgono la propria fedeltà, più che alla
personalità carismatica, alla stessa dottrina satanica.
Nel documento del Ministero dell’Interno del febbraio 1998
vengono individuati nove gruppi “satanico-luciferini” per un
totale di 200 adepti.
Il CESNUR (Centro Studi sulle Nuove Religioni), nel 2002, elenca
le sette sataniche in Italia specificando il numero di adepti:
Bambini di Satana (50 adepti); Chiesa di Satana –
razionalista (20 adepti); Chiesa di Satana – occultista
(20 adepti); Gruppi minori (20 adepti).
Sempre il Cesnur parla inoltre di 5.000 adepti nel mondo e stima
che il maggior numero di aderenti si trovi negli Usa, seguiti da
quelli di Spagna e Scandinavia. È invece impossibile un
censimento sul Satanismo giovanile o “acido” per le proprietà di
de-strutturazione gruppale che caratterizza il fenomeno.
Infine dai dati dell’indagine campionaria pubblicata nel 4°
Rapporto Nazionale sulla Condizione dell’Infanzia e
l’Adolescenza (Eurispes, Telefono Azzurro, 2003) emerge che
sia i bambini sia gli adolescenti utilizzano Internet come mezzo
per comunicare con gli altri.
Tali dati preoccupano soprattutto se si considera che tra i
bambini che si collegano ad Internet (47,6%) il 9,4% lo fa per
chattare e il 13,8% per usare la posta elettronica, mentre tra
gli adolescenti (67,8% di essi si collega ad Internet) la
percentuale di coloro che chattano sale al 26,4% e l’utilizzo
della posta elettronica al 35%.
La Polizia Postale, attraverso il monitoraggio di siti satanici
on line e basando la metodologia sul conteggio dei motori di
ricerca, ha evidenziato un fortissimo aumento dei siti satanici
tra il 1999 e il 2003.
Club satanisti su Internet:
-
Anno 1999: 114 siti satanici
-
Anno 2000: 277 siti satanici
-
Anno 2001: 322 siti satanici
-
Anno 2002: 502 siti satanici
-
Anno 2003: 1.010 siti satanici
In tal senso, è stato attivato, con il patrocinio della Regione
Lazio, dal mese di ottobre 2004 un servizio gratuito di sostegno
alle famiglie delle vittime del satanismo, in forte espansione
nella regione.
La lotta alla povertà: una sfida ancora aperta
In Italia. La povertà minorile è diffusa in tutta la sua
drammaticità anche in Italia, basti pensare che, secondo stime
Eurispes, nel 2003 si contano quasi due milioni di bambini
poveri. La maggioranza di questi risiede nel Sud (circa
1.365mila), una componente inferiore al Nord (340mila) e i
restanti (285mila) al Centro. Dai dati sui consumi relativi al
2002, si può osservare come l’incidenza della povertà tra le
famiglie con minori assume connotazioni sempre più marcate man
mano che aumenta il numero dei figli: si passa dal 9,2% dei
nuclei familiari con un solo minore al 25,9% di quelli con tre o
più minori. Nel Sud la percentuale di famiglie povere arriva al
32,9% quando si considerano i nuclei con tre o più figli, ma è
comunque molto elevata anche quella relativa a famiglie con un
solo figlio minore (18,3%). Nel Nord e nel Centro, anche se i
tassi sono molto più contenuti, si registra la stessa
correlazione tra incidenza della povertà e numerosità dei figli.
Si tratta di una deprivazione economica che rende i bambini
ancora più vulnerabili: giovani vite che partono da condizioni
di svantaggio tali da rischiare di compromettere il futuro della
loro esistenza.
In Europa. Prima di affrontare il tema della povertà
minorile, è opportuna una avvertenza: sebbene si stia parlando
della povertà minorile, non è possibile rilevare il benessere
dei minori separatamente da quello della famiglia, sia perché i
bambini non percepiscono redditi, sia perché è difficile
osservare l’allocazione delle risorse tra i singoli membri della
famiglia. Il tasso di povertà minorile è calcolato in base alla
proporzione tra i bambini che vivono in famiglie povere rispetto
al totale dei bambini. La lotta alla povertà e all’esclusione
sociale si pone come obiettivo prioritario per la Comunità
Europea: nel Consiglio di Lisbona del 2000, i capi di Stato dei
quindici paesi europei hanno concordato una strategia decisiva
per lo sradicamento della povertà entro il 2010. Uno degli
strumenti più importanti adottati dalla Commissione Europea è
“Il Programma d’azione sull’esclusione sociale (Social Exclusion
Programme - SEP), valido per il periodo che va dal 1° gennaio
2002 al 31 dicembre 2006. In base a dati più recenti,
nell’Unione europea si contano circa 17 milioni di bambini (un
ragazzo con meno di 18 anni su 5) che vivono in situazione di
povertà. L’Italia occupa un indecoroso quarto posto (23,3%)
nella graduatoria degli Stati membri con i maggiori tassi di
povertà infantile, preceduta da Gran Bretagna (28,5%),
Portogallo (26,3%) e Spagna (25,2%). Al contrario, i paesi con i
valori più contenuti sono Finlandia, Danimarca e Svezia, che
registrano rispettivamente il 5%, il 5,5% e il 7,9%. Osservando
il trend degli ultimi anni, dal 1994 al 1999, si evince
un maggiore impegno di alcuni Stati che ha determinato migliori
risultati nel contrasto alla povertà: il Belgio registra il
decremento maggiore del tasso di povertà minorile (-41,4%)
passando dal 18,6% del 1994 al 10,9% del 1999; il bilancio della
Grecia si attesta su un -24,5%; simile il valore dell’Irlanda,
pari a -20%. La Danimarca e la Finlandia, pur presentando le
condizioni meno sfavorevoli rispetto alla povertà minorile,
registrano un’impennata dei tassi che nel primo caso è pari al
37,5% e nel secondo al 31,6%.
Il nostro Paese manifesta concreti passi in avanti
nell’eliminazione della povertà minorile: passa dal 27,4% del
1994 al 23,3% del 1999, segnando una riduzione del 15%. La
suddivisione dei dati per tipologia familiare evidenzia il
maggior rischio di povertà indotto dalla presenza di minori.
Appare infatti consistente la vulnerabilità delle famiglie
monogenitore con figlio minore soprattutto in Spagna, dove si
registra un tasso di povertà minorile del 61,2%. Anche nel Regno
Unito si rileva una percentuale molto elevata (52,9%), seguito a
breve distanza dai Paesi Bassi (51,1%) e dalla Germania (48%).
L’Irlanda raggiunge il livello di povertà più elevato nei nuclei
familiari di due genitori e un solo figlio minore (17%), seguita
da Portogallo (15,7%), Spagna (14,1%) e Italia (11,8%).
Mentre il tasso di povertà maggiore nella tipologia con due
figli minori si attesta intorno al 25,5% in molti paesi europei:
Regno Unito (25,5%), Spagna (25,4%), Portogallo (25,3%) e Italia
(23,5%).
Il Codice di Autoregolamentazione
Internet e Minori: nuove garanzie per i
giovani navigatori
Il Codice di autoregolamentazione Internet
e Minori, sottoscritto il 19 novembre 2003 dalle associazioni
degli Internet Service Provider alla presenza del Ministro delle
Comunicazioni e del Ministro per l’Innovazione e le Tecnologie,
è nato nell’ambito delle azioni di tutela dei minori intraprese
da circa tre anni dalla Commissione per l’assetto del sistema
radiotelevisivo.
L’attuale Codice di autoregolamentazione Internet e Minori è
nato grazie al contributo di esperti e rappresentanti delle
associazioni del mondo civile (tra cui Telefono Azzurro, Forza
Bambini onlus, Save the Children, La Caramella Buona,
Associazione Meter, Ecpat Italia, Telefono Arcobaleno, ALCEI,
Davide.it, MOIGE, Adiconsum, Fondazione Safety World Wide Web.
Esso si è posto come fine precipuo quello di dare ai provider
una serie di regole e indicazioni che li coinvolgessero
direttamente nell’attività di tutela dei giovani navigatori
della Rete, ma anche di incentivare e sostenere l’opera di
sensibilizzazione di genitori, educatori, bambini, adolescenti a
un uso corretto del Web.
Problemi relativi alla regolamentazione della Rete. La
difficoltosa gestazione del codice italiano per la
regolamentazione di Internet rispecchia le problematiche che si
sono presentate a tutti i paesi informatizzati dal momento in
cui sono emersi i rischi connessi all’utilizzo del Web, che
vedono la pedopornografia e i crimini connessi alla pedofilia
costituire solo una porzione marginale dei possibili reati
perpetrati attraverso il mezzo telematico. Essi includono
infatti attività legate al terrorismo, truffe, clonazione di
carte di credito, spionaggio, diffusione indiscriminata di
materiali pornografici, divulgazione di contenuti che incitano
all’odio razziale, al satanismo, all’intolleranza religiosa e a
qualsiasi altra forma di discriminazione; ma anche violazione
della privacy, infrazione del diritto d’autore, diffamazione,
spamming (pubblicità indesiderata), attivazione occulta di
dialers (programmi che, preso il controllo del modem, attivano
numerazioni “a valore aggiunto” – per esempio con i prefissi 709
e 899 – di costo generalmente molto elevato, che l’utente
scoprirà solo nella bolletta telefonica), ecc.
Il Codice attuale. Il Codice di autoregolamentazione
Internet e Minori, conosciuto anche come Codice Internet@Minori
per il “bollino” di garanzia che apparirà sui server dei
provider delle associazioni firmatarie (Aiip, Anfov,
Assoprovider, Federcomin), si compone di una parte introduttiva
(Premesse e Finalità) e di sette articoli.
Nelle Premesse si ribadisce che «la funzione educativa, che
compete innanzi tutto alla famiglia, può essere agevolata da un
corretto utilizzo delle risorse telematiche», ma che il
fanciullo, in quanto cittadino soggetto di diritti, «deve essere
protetto da contenuti illeciti o nocivi». È pertanto «necessario
provvedere alla tutela del minore nell’ambito delle tecnologie
della società dell’informazione, bilanciando i suddetti diritti
con la libertà di espressione».
A fronte di tale volontà di tutelare i giovani navigatori senza
deresponsabilizzare le famiglie e senza operare una censura
preventiva rispetto agli adulti che desiderino entrare in
contatto con contenuti dannosi o inadatti ai fanciulli, le
Finalità del Codice prevedono di: aiutare gli adulti, i minori,
le famiglie a un uso corretto e consapevole della Rete
telematica; predisporre apposite tutele; offrire un accesso
paritario e promuovere un accesso sicuro; tutelare il diritto
del minore alla riservatezza; assicurare una piena
collaborazione con le autorità competenti nella prevenzione, nel
contrasto e nella repressione dei reati attuati nella Rete,
soprattutto in danno di minori; agevolare la tutela del minore
nei confronti delle informazioni commerciali non richieste;
diffondere questo Codice presso gli operatori e le famiglie.
Il Codice Internet@minori può essere adottato su base volontaria
da qualunque operatore internet, manutentore di siti o fornitore
di servizi, che si impegna così a rispettarne le regole e i
dettami: dopo aver fatto domanda di adesione, un comitato
tecnico ne verifichera l’attività e, se ritenuta idonea e
corrispondente ai requisiti richiesti, consente all’operatore di
distinguersi tramite il bollino o strumento equivalente. Accanto
al logo viene posta anche la dicitura “Aderente al Codice di
autoregolamentazione”.
Tra gli strumenti per la tutela del minore vi sono una serie di
mezzi che il Provider deve mettere in atto: informazione alle
famiglie e agli educatori: la pubblicazione sull’home page
dei propri servizi un riferimento “Tutela dei Minori”,
chiaramente visibile, che rimanda ad apposite pagine web con le
quali fornire informazioni sulle corrette modalità per un
utilizzo sicuro della rete Internet, sull’esistenza degli
strumenti più utilizzati per la tutela dei minori e sulle
modalità di segnalazione, al Comitato di Garanzia, delle
violazioni del Codice. Sono previsti anche la creazione di una
hot-line a supporto di bambini, adolescenti e famiglie e
l’inserimento dei link istituzionali (Ministeri coinvolti e
Polizia Postale) per le segnalazioni di contenuti illeciti;
servizi di navigazione differenziata, in base all’età
dell’utente; classificazione dei contenuti: il Content
provider aderente potrà applicare i sistemi di classificazione
ai contenuti che riterrà opportuno subordinare ad accesso
condizionato; identificatori di età: possibilità di
utilizzo di Sistemi di individuazione dell’età dell’Utente, a
condizione che, nel rispetto delle norme sul trattamento dei
dati personali, ne venga tutelata e garantita la massima
riservatezza, sicurezza e dignità; profilazione e trattamenti
occulti: l’Aderente non esegue alcuna profilazione
dell’Utente minore nè alcun trattamento dei suoi dati personali
senza la previa autorizzazione espressa da parte di chi esercita
la potestà genitoriale; custodia di password, con
adeguate misure di sicurezza; anonimato protetto:
possibilità di consentire agli utenti di utilizzare i propri
servizi in modo da apparire totalmente anonimi;
identificazione dell’utente: erogazione dei propri servizi
solo ed esclusivamente a utenti identificati direttamente o
identificabili tramite elementi univoci anche se indiretti;
prestazione di servizi fiduciari: l’Aderente che offre
servizi in via fiduciaria (per esempio registrazione di un nome
a dominio per conto di un Cliente che vuole rimanere ignoto) è
obbligato a identificare in modo certo il Cliente che richiede
tali servizi, serbando la massima riservatezza; gestione di
dati utili alla tutela dei minori: l’Aderente conserva, come
dati utili, i registri di assegnazione degli indirizzi Ip; il
numero Ip utilizzato per l’accesso alle eventuali funzioni di
pubblicazione dei contenuti; li conserverà per almeno sei mesi
(si tratta di un periodo di tempo leggermente superiore a quello
già normalmente previsto dai provider) e li comunicherà solo su
richiesta dell’autorità giudiziaria; contrasto alla
pedopornografia on line: l’Aderente pone in essere tutte le
iniziative atte a realizzare la collaborazione con le autorità
competenti, e in particolare con il Servizio della Polizia
Postale e delle Comunicazioni.
Internet, pedopornografia e percezione dei rischi
è stato osservato
che Internet grazie alla facilità dell’anonimato, alla
delocalizzazione e alla sua transazionalità rende più agevole
commettere alcuni tipi di reati. Fra gli impieghi criminosi
della Rete, il fenomeno della pedopornografia on line è
certamente uno dei più noti e che desta più orrore. Ma, se il
pericolo più grande per un bambino o un adolescente che chatta è
incontrare nel mondo reale l’adulto che li ha contattati in
chatroom, anche la visione di immagini a contenuto violento e/o
pedopornografico provocano certamente un disagio e sono
potenzialmente traumatiche.
La hotline del Servizio Emergenza Infanzia 114. Tra
novembre e dicembre 2003 sono state effettuate 16.014
interviste, in media 1.000 per ogni Stato membro dell’Unione
europea (nell’Europa a 15 Stati, prima cioè del recente
allargamento), chiedendo ai genitori informazioni relative
all’utilizzo di Internet da parte dei loro figli.
Molti intervistati (38%) ammettono di non sapere a chi
rivolgersi, nel caso si imbattano casualmente in materiale
illegale durante la navigazione in Rete; il 19% non sa
rispondere; tra quelli (43%) che invece affermano di sapere a
chi rivolgersi in tali casi, il 37% si rivolgerebbe alla
Polizia. Soltanto l’8% contatterebbe l’Internet Service Provider
(ISP) e il 5% contatterebbe una hotline.
Con hotline si intende un centro, che fornisce un servizio
espletato attraverso un sito Internet e/o una linea telefonica,
di raccolta di segnalazioni da parte degli utenti che, navigando
in Internet, si sono imbattuti in materiale illegale. L’idea che
sta alla base della hotline è creare un canale alternativo a
quello delle Forze dell’Ordine per facilitare la segnalazione da
parte di quegli utenti magari “spaventati” o restii a comunicare
alla Polizia un contenuto illegale. Fra i compiti assegnati al
Servizio Emergenza Infanzia 114, c’è quello di raccogliere le
segnalazioni, da parte dei cittadini, sulla presenza in Rete o
in altri mass-media di contenuti illegali o dannosi per lo
sviluppo psico-fisico dei bambini e adolescenti o che possa
recare loro disagio. Le segnalazioni relative ai siti Internet
con materiale a presunto contenuto pedopornografico sono
inoltrate alla Polizia Postale; le
segnalazioni relative agli altri media sono inoltrate ad altri
organi competenti per il monitoraggio, il controllo e
l’eventuale sanzione.
Il progetto CIRP (Child Internet Risk Perception).
L’associazione ICAA (International Crime Analysis
Association), ha proposto il progetto CIRP (Child Internet Risk
Perception), finanziato da SYMANTEC (azienda di sicurezza
informatica), che è focalizzato sulla valutazione dei
comportamenti dei minori che facilitano i rischi di molestia e
di adescamento nelle chat-rooms e sugli atteggiamenti
disfunzionali degli adulti di riferimento (genitori ed
insegnanti) che sono deputati al controllo e alla prevenzione.
Le informazioni, ottenute con tale attività di studio possono
essere impiegate per la realizzazione di vari interventi di
prevenzione e possono essere utili per orientare l’attività di
contrasto da parte delle Forze di polizia. Il progetto CIRP è
patrocinato dal Ministero delle Comunicazioni, dall’Unicef, dal
Servizio Polizia Postale e delle Comunicazioni e dal Consiglio
Regionale del Lazio ed è stato inoltre premiato dal Ministro per
le Pari Opportunità con il Premio “Innovazione nei servizi
sociali” (Rimini, marzo 2004).
La ricerca. La ricerca ha visto la somministrazione di
questionari nelle scuole ai minori compresi nell’età a maggior
rischio di molestie e adescamento (8-13 anni) e lo svolgimento
di colloqui e interviste semi-strutturate a gruppi di insegnanti
e genitori. Il questionario, è stato somministrato nei primi
mesi del 2004 a un campione di 5.000 minori che utilizzano
Internet in maniera assidua appartenenti a vari ceti sociali.
A seguire vengono proposti i principali risultati.
I primi risultati della ricerca CIRP. Nel campione
analizzato la percentuale di utenti della Rete è abbastanza
elevata (77%). Sono stati considerati solo i minori che hanno
descritto un utilizzo frequente della Rete, escludendo quindi
coloro che l’hanno solo provata o che ne fanno un uso
estremamente raro (23%). Le finalità di studio (79%) e di
divertimento (74%) della navigazione sui siti costituiscono la
fruizione primaria, mentre le opportunità comunicazionali
offerte dalla Rete attraverso chat ed e-mail rappresentano una
finalità di impiego meno “gettonata” dai minori intervistati
(13%).
La navigazione su siti web costituisce ovviamente il tipo di
servizio offerto da Internet più utilizzato dai giovani utenti
(94%). La chat, che costituisce l’obiettivo primario della
ricerca, pur se non utilizzata dalla prevalenza del campione, si
attesta (con il 23%) su una diffusione discreta.
La fascia oraria di maggior accesso alla Rete è quella del
pomeriggio (14-18) e quella serale (19-21). Le connessioni
mattutine, evidentemente effettuate a scuola, sono molto ridotte
(3%) o non sono vissute come significative dai minori,
manifestandosi, infatti, una certa discrepanza da quanto
segnalato dagli istituti scolastici rispetto alla fruizione
della Rete durante l’orario scolastico. Una minore percentuale
(circa il 10%) si connette però anche in orario notturno (22-24)
che, secondo l’esperienza investigativa delle Forze di polizia
specializzate (Polizia Postale e delle Comunicazioni italiana;
Child Protection Unit di Scotland Yard), rappresenta il momento
di maggior presenza di pedofili on line.
Secondo i minori intervistati la percentuale dei genitori che
svolgono sistematicamente un monitoraggio della loro navigazione
su Internet, accompagnandoli in prima persona, risulta
abbastanza contenuta (26%), mentre per la maggior parte del
campione il controllo è saltuario (47%) o addirittura assente
(27%).
Capitare occasionalmente su un sito pornografico, rappresenta
un’esperienza vissuta da circa il 52% del campione di minori
intervistati, cosa del resto intuibile vista la presenza elevata
di tali contenuti sul Web e la loro disponibilità anche
all’interno di portali commerciali non dedicati e su banner
pubblicitari di tipo “intrusivo”.
La percentuale di minori che utilizzando le chat ha avuto un
incontro on line con un adulto e ha intrapreso discorsi su
tematiche sessuali, anche se ridotta rispetto al campione
analizzato, è comunque decisamente rilevante (13%) e dimostra
come tale ambito costituisca realmente uno scenario di rischio.
La percentuale di coloro che hanno vissuto l’evento con
connotazioni positive (curiosità 15% e attrazione 7,6%) conferma
infatti la necessità, in ambito preventivo, di dover far fronte
alla curiosità innata da parte dei minori rispetto al sesso,
fatto che rappresenta una forte agevolazione per i pedofili.
Anche l’area di connotazione “neutrale” dell’incontro (nulla di
particolare nel 61,5% dei casi) non evoca situazioni di
particolare attrattiva, ma nemmeno di allarme e di conseguente
impellente richiesta di aiuto attraverso una pronta
comunicazione dell’accaduto a genitori ed educatori.
Un’allarmante percentuale, del campione di coloro che hanno
avuto un incontro in chat con adulti presunti pedofili (nel 70%
dei casi) riferisce l’assenza di comunicazione dell’accaduto ai
genitori. Tale situazione costituisce di fatto il fattore di
maggior rischio, poiché il pedofilo può agire incontrastato nel
suo tentativo di molestia e adescamento. Le investigazioni di
Polizia hanno infatti dimostrato che il successo di un’eventuale
tecnica di molestia verbale o di un tentativo di avvicinamento
di un minore in chat è spesso legato anche a un comportamento “a
rischio” da parte di quest’ultimo, in particolare quando il
minore non informa nessuno del contatto avvenuto o quando la sua
segnalazione non viene tenuta dagli adulti in debita
considerazione.
Le ragioni riportate dai minori che hanno incontrato dei
presunti pedofili in chat e che non hanno informato di ciò i
genitori sono in larga parte attribuibili alla scarsa
“confidenza” con loro e all’imbarazzo nel trattare determinate
tematiche. Il 33,5% degli intervistati non ritiene, infatti, i
propri genitori “in grado di capire”, mentre il 16,6% dei minori
afferma di provare vergogna. Anche la curiosità verso la nuova
esperienza (16,6%) e una generica valutazione positiva nei
confronti dell’esperienza (25%) costituiscono motivo di omertà,
a dimostrazione dell’attrattiva esercitata dalle tematiche
sessuali sui minori. Il mantenimento del segreto (8,3%)
rappresenta infine un’ulteriore ragione di non-comunicazione
dell’evento ai genitori.
Conoscenza dei rischi legati alla navigazione su Internet da
parte degli insegnanti. La grande maggioranza degli
insegnanti intervistati (92%) dichiara di conoscere i potenziali
rischi della navigazione su Internet per i minori, mostrando
attenzione verso il problema. Solo una minima percentuale di
educatori (8%), che coincide con quelli che non utilizzano
personalmente la Rete, non si dichiara sufficientemente
preparata in materia. Molti degli insegnanti intervistati hanno
dichiarato di aver dato agli studenti informazioni sulla
tematica della pedofilia (80%). Permane però una ridotta
percentuale del campione che non ha intrapreso azioni formative
in tale direzione (20%). Tali informazioni sono state
frequentemente legate a fatti di cronaca avvenuti e, in alcuni
casi, anche a specifiche richieste da parte degli studenti
(18%).
Alfabetizzazione informatica dei genitori di minorenni utenti
di Internet. Anche se la maggior parte dei genitori
intervistati conosce per grandi linee il funzionamento di
Internet (90%), permane una discreta percentuale di soggetti
(32%) che afferma di non aver mai navigato sulla Rete,
evidenziando ancora un certo gap generazionale rispetto all’alfabetizzazione
informatica. Tale situazione di fatto limita notevolmente la
possibilità, da parte dei genitori, di un’efficace attività di
monitoraggio sulle modalità con cui i loro figli utilizzano
Internet.
Controllo dei figli on line e informazioni fornite sui rischi
di navigazione. L’azione di monitoraggio e controllo della
navigazione dei figli minori risulta purtroppo pressoché assente
nel 58% dei casi. Il 18% del campione afferma che tale attività
è occasionale, mentre solo il 24% del campione effettua un
controllo costante. Nel campione di genitori intervistati, una
discreta percentuale (66%) ha comunque fornito ai propri figli
delle informazioni sui rischi della navigazione sulla Rete
mentre il rimanente 34% non ha avuto capacità o occasione di
farlo.
Collocazione fisica del computer in casa. Il luogo di
collocazione del computer connesso a Internet rappresenta un
fattore di sicurezza semplice, ma a volte fondamentale, per
effettuare il monitoraggio della navigazione dei minori. La
collocazione del computer nella stanza del minore (nel 36% dei
casi) costituisce, infatti, un notevole ostacolo al controllo,
ma anche lo studio del genitore (38%), specie in sua assenza e
durante le ore serali, può non essere la soluzione ottimale. Le
zone “di transito” dell’abitazione e quelle maggiormente
frequentate dagli adulti (salone e cucina) sono generalmente
quelle più strategiche per un monitoraggio efficace.
I bambini e la pubblicità
I bambini nella pubblicità sui diversi media i bambini hanno
conquistato nel 2003 uno spazio tra l’8 e il 10% della quota di
mercato, con un giro di affari valutato in oltre sei miliardi di
euro e, per i primi mesi del 2004, in circa tre miliardi di
euro, ci si trova di fronte ad un notevole fenomeno economico e
mediatico.
Bambini nuovi protagonisti del mercato. Complessivamente,
la pubblicità dei bambini occupa uno spazio di circa il 10% sul
totale degli investimenti annui di tutta la torta pubblicitaria:
con prospettive di crescita e di incremento sempre maggiori,
vede la propria attività ed il budget di affari aggirarsi
intorno ai 105.000.000 di euro annui.
Business&Media.
Tv. La pubblicità in Tv destinata ai bambini e che li
vede anche protagonisti, occupa uno spazio di mercato pari al 3%
degli investimenti. Il settore con maggiore interesse di
investimenti, quello della pubblicità dei giocattoli, per il
quale il giro di affari nel 2003 è stato di circa circa
60.000.000 euro, per 33.481 spot pubblicitari ed una presenza di
bambini in Tv di 668.055 secondi. Anche gli investimenti nel
comparto alimentare sono stati considerevoli, infatti il budget
di investimenti per la pubblicità per i cibi dell’infanzia si è
attestato a 20.167.000 euro, con 5.324 spazi pubblicitari in
televisione e la presenza dei bambini misurata in 134.053
secondi. Elevato risulta essere inoltre il giro di affari nel
settore dei prodotti per l’igiene di prima infanzia, in virtù
dei 17.295.000 euro investiti e dei 4.379 spot televisivi
trasmessi. Al contrario, sono più contenute le cifre riferite al
comparto dei prodotti farmaceutici e sanitari che, essendo
prodotti di prima necessità, rappresentano il fanalino di coda
degli investimenti pubblicitari in televisione.
Radio. Gli investimenti pubblicitari netti, nel
2003, risultano pari a 328.961.000 euro, molto ridimensionati
rispetto a quelli televisivi. I settori in cui risulta più
frequente la presenza di bambini, sono quelli degli arredi per
l’infanzia (per un complessivo di 241.000 euro per 715 spot
radiofonici e 19.030 secondi) ed il settore alimentare,
soprattutto cibi per l’infanzia, in cui si contano investimenti
per 147.000 euro per 497 spot e 14.940 secondi di trasmissione.
Il settore con i minori investimenti è stato quello dei prodotti
farmaceutici e dei sanitari generici, ma anche la pubblicità di
giocattoli e degli intrattenimenti per bambini ha registato un
calo evidente.
Stampa quotidiana. Per quanto riguarda la stampa
quotidiana, il settore pubblicitario in cui gli investimenti
risultano più consistenti è quello dell’abbigliamento per
bambini. Questo comparto, se in Tv segnala investimenti minimi,
che si riducono ulteriormente nella radio, quasi fino a
scomparire, sui quotidiani registra un discreto giro di
investimenti: infatti, con 628.000 euro per 122 spot ed un
totale in presenze di 7.146 spazi pubblicitari, rappresenta
l’area dove si rileva in maniera evidente il maggior incremento
finanziario.
Periodici. Come per la stampa quotidiana, nel
2003, il maggior target di investimento interessa
l’abbigliamento per bambini: 10.385.000 euro distribuiti in
1.677 annunci, per 2.189 spazi pubblicitari. Anche il comparto
per l’arredamento con articoli per l’infanzia conta un
consistente giro di investimenti: con 4.697.000 euro per 825
annunci e 1.257 spazi pubblicitari. Ultimo settore è quello dei
prodotti sanitari, dove biberon e tettarelle vedono un
investimento massimo di 480.000 euro. Complessivamente è da
evidenziare che l’immagine pubblicitaria dei bambini nei
periodici ha mosso nel 2003 un volume complessivo pari al 2%
della pubblicità totale, un valore pari alla crescita registrata
nei primi mesi del 2004.
Affissioni. Con un budget di investimenti sul
mercato tra i più contenuti, la pubblicità per affissione si
caratterizza per aree di interesse molto particolari e
ristrette. Unica eccezione il settore dell’abbigliamento per
bambini, che nell’anno 2003 conta un budget di investimenti di
1.827.000 euro, per 19.512 cartelloni pubblicitari.
Il bambino: il personaggio più persuasivo negli spot. Che
si parli di Tv, radio, o giornali, la figura del bambino riesce
sempre ad occupare il centro della scena, a catturare
l’attenzione. Il messaggio di cui il bambino è testimonial nello
spot pubblicitario difficilmente può essere contrastato o
rifiutato, perché egli rappresenta la purezza, l’incapacità di
mentire e, in quanto tale, veicola la bontà e la genuinità dei
contenuti pubblicitari. Un’immagine candida e limpida, come
quella di un bambino, posta al centro della scena, diviene uno
strumento per richiamare la maggiore attenzione possibile
durante la trasmissione dei messaggi pubblicitari.
Baby-fruitori. Le dinamiche di fruizione della
televisione da parte dei bambini e sugli effetti che essa
produce sono state largamente studiate. In particolare, la
pubblicità costituisce argomento di discussione e confronto tra
gli esperti del settore che hanno evidenziato il potere degli
spot televisivi di imporre al pubblico dei minori determinati
modelli di consumo e comportamento. Lo spot televisivo da un
lato viene recepito come spettacolo, mentre dall’altro invoglia
al possesso, e quindi all’acquisto, del prodotto reclamizzato. I
bambini sono attratti dalla pubblicità per i diversi elementi
che caratterizzano gli spot: la vivacità delle immagini, le
musiche, i personaggi e i prodotti. Lo spot televisivo con un
coetaneo come attore principale è tra gli spettacoli che viene
maggiormente apprezzato dai bambini, poiché si riconoscono nel
protagonista e tendono a imitare il modello da esso proposto. La
pubblicità influisce in maniera significativa sul comportamento
e sulle abitudini del bambino, stimolandolo all’acquisto di
prodotti di ogni tipo. Inoltre, gli stessi bambini-fruitori, a
loro volta, influenzano gli adulti nella scelta di acquisti di
generi diversi. Gli spot pubblicitari con e per i più giovani
ovviamente si differenziano secondo l’età del target di utenti,
bambini e adolescenti: anche sulla base di ciò viene pianificata
la trasmissione di spot in diverse fasce orarie e con messaggi
differenziati.
Il bambino è sicuramente un ottimo spettatore ed osservatore di
immagini. La pubblicità che lo vede protagonista, più delle
altre, cerca di conquistare l’attenzione di colui che usufruisce
dello spot attraverso un modo visivo di fare comunicazione, a
scapito della conversazione e dell’ascolto. I veri ostaggi di
questa pubblicità, come già si è valutato, sono i bambini al di
sotto dei sette anni, poiché non sono in grado di distinguere la
pubblicità di un prodotto rispetto ad un altro e non hanno
ancora chiaro il fatto che la pubblicità ha finalità puramente
di vendita del prodotto pubblicizzato.
Il disagio, la devianza e la giustizia minorile
Il servizio emergenza infanzia 114:
un modello di presa in carico
dell’emergenza
Il codice “114” istituito con un decreto
interministeriale del 14 ottobre 2002 costituisce «un servizio
di emergenza accessibile da parte di chiunque intenda segnalare
situazioni di emergenza e disagio». È attivo 24 ore al giorno,
tutti i giorni dell’anno, è totalmente gratuito per il chiamante
e interviene in tutte quelle situazioni nelle quali si ravvisano
gravi elementi di rischio per l’incolumità psicofisica del
minore e per cui si necessita di un’attivazione immediata dei
servizi territoriali. A seguito di un bando pubblico, il
Servizio 114 Emergenza Infanzia è stato affidato a Telefono
Azzurro per la fase di sperimentazione, e successivamente, nel
2003, il mandato è stato promulgato sempre a Telefono Azzuro in
qualità di Ente gestore per un periodo di tre anni con possibile
proroga di due anni.
Obiettivi. Il modello operativo dell’attività di risposta
del Servizio 114 è definito sulla base di obiettivi
fondamentali: la valutazione della criticità della situazione
presentata, l’offerta di supporto psicologico e sociale
immediato, l’attivazione e il coinvolgimento delle agenzie per
la gestione del caso.
Alla base dell’attuazione del servizio è necessaria una
qualificata capacità di ascolto da parte degli operatori, volta
in primo luogo ad analizzare le segnalazioni ricevute in modo da
verificare che si tratti o meno di una situazione di emergenza.
Altro obiettivo è caratterizzato dal fornire quel supporto
psicologico e sociale necessario per contenere la situazione di
forte squilibrio che caratterizza spesso la situazione di
emergenza. In tali situazioni, inoltre, è sempre presente il
rischio della interruzione della comunicazione: l’operatore si
trova concentrato sia sulla situazione che caratterizza
l’emergenza in sè sia sulla necessità di stabilire
immediatamente una forte relazione empatica con il minore,
cercando di raccogliere in tempi brevi tutte le informazioni che
consentano di attivare l’intervento.
Le tipologie di emergenza. Esistono una varietà di
situazioni di emergenza che coinvolgono minori in età evolutiva
e possono essere raggruppate in alcune macrotipologie. Gravi
abusi: riguardano le situazioni in cui un minore è vittima
di abusi, violenze, maltrattamenti o trascuratezze (abuso
sessuale, violenza fisica, maltrattamento e percosse, abuso
psicologico, incuria e ipercuria). Atti autolesivi:
comportamenti che il minore agisce mettendo a repentaglio la
propria incolumità psicofisica (tentato suicidio, la fuga da
casa, l’assunzione di sostanze stupefacenti ed alcoliche, il
fenomeno noto come “sensation seeking” come guida pericolosa,
rapporti sessuali non protetti, sport estremi praticati senza
adeguato supporto). Tale categoria di rischio può essere
definita come “età-specifica”, cioè strettamente legata alla
tappa evolutiva della preadolescenza e dell’adolescenza.
Eventi catastrofici: sono situazioni di emergenza
causate da fattori non ordinari, quali incidenti, calamità
naturali, guerre, attentati terroristici, ecc. In queste
particolari condizioni, la prima urgenza è quella di intervenire
per fornire cure mediche e materiali, ma è importante dare anche
un supporto a livello psicologico per prevenire l’insorgenza di
reazioni patogene, quali per esempio il disturbo post traumatico
da stress. Comportamenti devianti: sono quelli
attraverso cui il minore mette in atto comportamenti eterolesivi
e pregiudizievoli per terze persone, che possono configurarsi
come situazioni di reato (furti, spaccio di sostanze
stupefacenti, atti vandalici, gravi aggressioni).
È necessario quindi porre attenzione non solo all’emergenza,
ma anche al trauma che l’evento emergenza comporta per lo
sviluppo del bambino e dell’adolescente. In relazione ai diversi
livelli di rischio, inoltre, è possibile fare riferimento a tre
criteri di analisi: contenuto della situazione descritta
dall’utente; posizione del minore: vittima, testimone
(diretto o indiretto) o autore; tempi contingenza della
situazione problematica e valutazione del livello di pericolo.
Traumatizzazione indiretta. Si tenga inoltre presente che
un bambino o un adolescente, oltre ad essere vittima o autore di
una situazione pregiudizievole, può essere coinvolto come
“testimone”. L’esposizione indiretta ad un evento traumatico,
per esempio assistere ad un episodio di conflittualità tra i
genitori o imbattersi in materiale “sconveniente” via Internet,
o ancora assistere ad un grave incidente stradale o averne
semplicemente notizia tramite i mass media, possono
rappresentare episodi di emergenza, in cui la salute
(soprattutto psicologica) del minore viene alterata.
Esiste quindi una connessione tra emergenza e traumatizzazione
indiretta, che può incidere a diversi livelli nella vita di un
bambino, in relazione alle sue caratteristiche personali e alla
tappa evolutiva che sta attraversando.
Il modello operativo del 114
La risposta telefonica. Il modello di risposta
telefonica del Servizio 114 è progettato con due obiettivi:
fornire supporto psicologico immediato per contenere lo
squilibrio provocato dalla situazione di emergenza; valutare il
“livello di rischio” della situazione di emergenza al fine di
attivare le risorse della rete più idonee e competenti rispetto
alla presa in carico di ogni caso, sia a breve sia a lungo
termine. Il modello di risposta è costruito su tre livelli:
Front Line: ’accoglienza della chiamata; Back Line: la gestione
del caso in emergenza; Specialisti/Consulenti esperti: il
confronto sul progetto di intervento.
La presa in carico: la messa in rete del caso attraverso
il coinvolgimento del territorio. Il lavoro
dell’attivazione delle istituzioni e dei servizi del territorio,
sia immediata sia successiva all’emergenza, è quello di “rete” e
prevede la stretta collaborazione di tutte le agenzie
territoriali interconnesse tra loro da ruoli e compiti
espressamente complementari e non sovrapponibili (almeno in
quelle reti che funzionano in maniera ottimale).
Il modello del Servizio Eemergenza Infanzia 114 è basato sui
seguenti princìpi: interdisciplinarità, cioè interazione
tra le diverse figure professionali; multiagency , cioè
coinvolgimento di diverse istituzioni per la tutela dei minori.
In quest’ottica, il 114 si pone anche come promotore di una
cultura della “rete” e come strumento di cura e di tutela
dell’infanzia, educando e formando i diversi attori del
territorio su tematiche specifiche. L’obiettivo che tutti i
membri della rete devono condividere è quello di porre al centro
dell’intervento proprio il minore, perché solo la stretta
collaborazione tra i servizi garantisce una corretta presa in
carico del caso nell’immediato, nonché la conseguente gestione a
medio e lungo termine.
Il follow up. Rappresenta il momento conclusivo
della gestione e della presa in carico di un caso. Il contatto
con le agenzie che a diversi livelli hanno seguito direttamente
il caso, permette, infatti, un aggiornamento rispetto agli
sviluppi dello stesso. Il 114 utilizza questi momenti di scambio
tra i diversi attori della rete soprattutto per sottolineare la
centralità del minore, anche dopo la risoluzione immediata
dell’urgenza, ponendosi a sua volta come risorsa a disposizione
di altre agenzie territoriali.Tale scambio di informazioni
risulta funzionale non solo per la gestione della specifica
situazione, ma anche per delineare eventuali linee-guida nella
gestione operativa di altri casi simili. Questa fase, infatti,
permette anche di ridefinire e verificare la prassi operativa,
alla luce delle ricadute e dei risultati emersi.
Discussione casi e supervisione. Elemento
fondamentale per la gestione dei casi in emergenza è il lavoro
d’équipe, attraverso il quale si ricerca un continuo confronto
tra gli operatori. Tale lavoro, operativamente, si traduce in
momenti di “discussione casi” e incontri di supervisione. La
supervisione, quindi, non mira ad offrire soluzioni predefinite,
ma cerca di innescare un processo di soluzione dei problemi
incrementando il senso di empowerment del gruppo, di
autoefficacia collettiva .
La progettazione e l’applicazione di standard di qualità
nelle helpline telefoniche per
l’infanzia e l’adolescenza
Gli standard di qualità minimi nelle
Helpline telefoniche. Nel pieno rispetto delle differenze
culturali e operative hanno aderito volontariamente circa una
cinquantina di helpline di cui 18 europee, 5 africane, 5
asiatiche, 9 americane e 12 dell’Europa dell’Est. Il bisogno di
sviluppare e condividere criteri di qualità minimi si è
concretizzato attraversi la creazione di un sistema che prevede
tre categorie di linee guida relative a: chiamate ricevute dall’helpline;
gestione dell’helpline; formazione dei professionisti e dei
volontari. Insomma, offrire un servizio di qualità significa
quindi erogare un servizio efficace, attraverso
un’organizzazione efficiente.
Dall’analisi delle esperienze delle principali helpline
telefoniche d’Europa è possibile rintracciare motivazioni
condivise con tutte le altre organizzazioni e capaci di spiegare
e giustificare un impegno e una specifica “politica per la
qualità”. La qualità insomma è entrata a fare parte dei processi
produttivi. In particolare, il mondo dei servizi è sempre più
attento al rapporto con l’utente. Anche Telefono Azzurro
nell’ambito dell’ascolto e della consulenza a bambini e
adolescenti si è avvalso del sistema offerto dalle ISO9000 per
razionalizzare i processi, trovare il modo per valutare e
migliorare continuamente il servizio e per comunicare con il
territorio. Quando si parla di qualità, si fa riferimento alla
possibilità di progettare servizi pienamente rispondenti ai
bisogni dei clienti, sia nella loro fase di pianificazione sia
in quella di piena attuazione. Anche le linee telefoniche devono
adeguare i propri processi cercando di adattarli alle esigenze
dei loro utenti.
È significativo che una delle più note associazioni di helpline
telefoniche al mondo la CHI Child Helpline International,
che riunisce circa una sessantina di linee telefoniche per
l’infanzia e l’adolescenza, abbia avviato un lungo e faticoso
processo di definizione di linee guida per la consulenza,
servendosi dell’esperienza delle helpline che maggiormente hanno
dedicato tempo e impegno nell’individuazione di criteri di
qualità per la consulenza telefonica. Il motivo per cui Child
Helpline International ha costituito un gruppo ristretto di
helpline esperte sul tema della qualità della consulenza (tra
cui Telefono Azzurro) è strettamente legato all’obiettivo di
fondare una task force deputata a definire i criteri
internazionali minimi di qualità cui adeguare tutte le helpline
telefoniche e su cui svilupparne di nuove.
Il sistema qualità in Telefono Azzurro e la Carta europea dei
princìpi per la consulenza telefonica. In Telefono Azzurro
il concetto di qualità permette l’individuazione e la
condivisione di processi e modalità operative, con un duplice
obiettivo: da una parte, garantire un’elevata professionalità
dei consulenti telefonici attraverso la promozione di un modello
di “ascolto interno”; definire i criteri di qualità per ogni
singolo processo del Centro Nazionale di Ascolto; definire un
percorso di formazione interna programmata. Dall’altra,
garantire la realizzazione di un servizio di eccellenza, capace
di confrontarsi con la complessità della relazione di aiuto, in
un contesto che cambia (si pensi solo al problema della
multiculturalità e delle nuove modalità di comunicazione dei
bambini e degli adolescenti come la comunicazione on line).
Il sistema qualità in Telefono Azzurro può essere descritto
secondo due diversi livelli di azione: da una parte il confronto
operativo, teorico e metodologico al livello internazionale con
le helpline europee al fine di individuare e adottare comuni
linee guida per la gestione della consulenza e per la formazione
e lo sviluppo delle competenze degli operatori (dimensione dei
contenuti); dall’altro, l’applicazione e l’adozione del sistema
internazionale, che poi sarà di certificazione (ISO 9000) per la
definizione dei processi di offerta del servizio e di
monitoraggio continuo delle procedure adottate nella costruzione
e nell’offerta del servizio (dimensione gestionale e
procedurale). Nella figura successiva vengono descritti gli
elementi che caratterizzano il flusso dei processi e le
responsabilità proprie del sistema di qualità certificato in
Telefono Azzurro.
Figura
Processo di miglioramento del sistema
qualità certificato in Telefono Azzurro
Fonte: Telefono Azzurro, 2004
Questi princìpi sono applicati anche nella
realizzazione di un sistema di qualità per il nuovo servizio
telefonico di Emergenza Infanzia 114, una linea telefonica
d’emergenza accessibile gratuitamente da telefonia fissa 24 ore
su 24 da parte di chiunque intenda segnalare situazioni di
pericolo immediato per l’incolumità psico-fisica di bambini e
adolescenti.
Quale riforma per la giustizia minorile?
Tra civile e penale: una riforma
necessaria. Nel 2001, a fronte di ben 54.174 procedimenti
esauriti dal Tribunale per i Minorenni, ne sono rimasti
pendenti, a fine anno, 100.899 che hanno inevitabilmente
contribuito ad appesantire l’attività dell’anno successivo.
L’esigenza di rendere più celere, e quindi maggiormente
efficace, la macchina della giustizia emerge chiaramente dalla
consistenza numerica dei provvedimenti emessi (nel corso di un
solo anno) rispettivamente dai Tribunali per i Minorenni
(39.685) e dal Giudice tutelare (172.851), sottendendo un
pesante onere di lavoro a carico delle istituzioni in questione.
Le medesime considerazioni sono supportate dall’andamento delle
pratiche di separazione e divorzio nel nostro Paese. Dagli anni
Novanta, tanto il numero delle separazioni quanto quello dei
divorzi è aumentato in modo costante: si è passati da 44.018
separazioni nel 1990 a 79.642 nel 2002 e per i divorzi, con un
andamento meno lineare, da 27.682 a 41.835. A fronte di questo
incremento generale, sono ovviamente aumentati anche i numeri di
separazioni e divorzi che hanno coinvolto figli minori per i
quali è stato necessario avviare pratiche di affidamento.
Nell’anno 2002 le separazioni con figli minori affidati sono
state 41.176 (ben il 51,7% sul totale ) e i divorzi 15.288 (il
36,5% sul totale).
Complessivamente, quindi, sempre nel 2002, i figli minori
affidati sono stati 78.836 (in particolare 59.480 in seguito a
separazione e 19.356 in seguito a divorzio), con affidamento
esclusivo alla madre nell’85% dei casi e solo nel 5% ai padri.
Sempre nel 2001, sono stati denunciati alle Procure per i
Minorenni 39.785 minori. In particolare, nell’82,5% dei casi si
trattava di maschi con una netta preponderanza di ragazzi con
un’età compresa tra i 14 e i 17 anni (33.120) a dispetto dei
minori non imputabili (6.665). Non stupisce poi, sempre tra i
denunciati, la prevalenza dei minori italiani (78,1%) nonostante
sia degna di considerazione la percentuale degli stranieri che
si attesta su un rilevante 21,9%. Le regioni dove sono state
rilevate percentuali più alte di reati a carico di minori sono
la Lombardia (14,7%), la Sicilia (11,9%) e il Lazio (10,8%). È
possibile comunque osservare una tendenza, tutto sommato
circoscritta, al ricorso di misure cautelari nei confronti dei
minori denunciati: per 37.243 di questi, il 93% circa dei casi,
non è stata adottata alcuna misura.
Il bambino: tra diritto ed equo processo. Le teorie ed i
modelli di intervento nella giustizia minorile possano essere
molteplici, e come ci sia ancora troppa confusione normativa che
spesso rende totalmente inefficace la concreta attuazione dei
diritti dei ragazzi. Il bambino, da soggetto cui è riconosciuto
il più alto grado di tutela, rischia di divenire invece vittima
inconsapevole, nella pratica amministrativa ma soprattutto
giudiziaria, della pigrizia e dei ritardi, non solo culturali,
ma anche strutturali dell’azione dei singoli apparati dello
Stato.
Per considerare una riforma della giustizia minorile adeguata e
seria non si potrà prescindere dal potenziamento del numero dei
magistrati, dalla formazione integrata fra magistrati, avvocati
e operatori dei servizi come sopra evidenziato, ma soprattutto
dall’integrazione di norme chiare sulla procedura civile da
applicare nei casi di emergenza e nei procedimenti di volontaria
giurisdizione in tema di potestà e di diritto familiare e
minorile in generale, oltre che dall’investimento di risorse
economiche per migliorare la risposta e i tempi della giustizia.
Devianza minorile e comportamenti violenti:
percorsi di riflessione e di intervento
Il comportamento violento in
adolescenza: la dimensione del fenomeno. Nel 2003 i dati
relativi ai reati a carico dei soggetti presenti negli Istituti
Penali per i Minorenni (IPM), evidenziano che, su un totale di
811 reati commessi, 425 riguardano reati contro il
patrimonio e 139 contro la persona.
Tra i reati contro il patrimonio assume una certa
rilevanza l’incidenza delle rapine (in totale 197, di cui 113
riguardano minorenni italiani e 84 stranieri), a seguire furto
(153), ricettazione (37), danneggiamento (12), sequestro di
persona a scopo di estorsione (2) e truffa (1).
Tra i reati contro la persona invece la rilevanza
maggiore è rappresentata dalle lesioni personali volontarie
(54); a seguire 29 reati di violenza privata e minaccia,
omicidio volontario aggravato (20), omicidio volontario (11),
tentato omicidio (10), violenza sessuale di gruppo (8), violenza
sessuale (3), ingiurie (2), omicidio colposo (1) e percosse (1).
Dai dati relativi ai soggetti presenti negli Ipm secondo il
reato di maggiore gravità emerge che, su un totale di 442
minorenni, 289 hanno commesso reati compresi nella categoria
contro il patrimonio (di cui ben 93 si riferiscono a reati di
rapina aggravata), 89 in violazione della legge sugli
stupefacenti e solo 54 contro la persona (di cui 20 per omicidio
volontario aggravato). I restanti soggetti hanno commesso reati
appartenenti alle altre categorie.
In particolare, i dati riguardanti gli omicidi commessi
negli ultimi anni in Italia da adolescenti non mostrano comunque
un incremento significativo. Analizzando la casistica biennale
in un arco di tempo di dieci anni, dall’anno 1993 all’anno 2003,
il fenomeno risulta abbastanza stabile, con una media di circa
26 omicidi l’anno. Il record è stato registrato negli anni 1995
e 2003, in cui le vittime sono state 32; il dato più basso
riguarda invece il 1997, in cui si sono registrati 15 omicidi.
In fine, ben 9.376 minori gravitano attualmente all’interno del
sistema dei servizi minorili: di questi, 519 sono detenuti in
Ipm, 507 collocati in comunità e ben 8.314 sono seguiti
dall’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni.
D’altra parte, la devianza minorile non si manifesta sempre in
comportamenti penalmente sanzionabili, rappresentando più spesso
delle espressioni di disagio attraverso condotte diverse:
ripetute fughe da casa, suicidi, vagabondaggio e abbandono
scolastico, teppismo e vandalismo di vario genere, violenza
nell’ambito scolastico (ad esempio fenomeni di bullismo) e
sportivo (soprattutto negli stadi) uso e spaccio di sostanze
stupefacenti, aggressioni aggravate come l’omicidio. Lo sviluppo
della condotta deviante è parte di un ampio schema di sviluppo
della devianza stessa che usualmente inizia con un comportamento
distruttivo non delinquenziale.
Alcuni indicatori di disagio del comportamento violento.
Il comportamento violento si configura come un processo che si
costruisce nel tempo e all’interno di relazioni: al pari di ogni
altro fenomeno, va considerato un “fatto sociale”. È pertanto
inevitabile prendere in considerazione le interazioni tra il
soggetto e le situazioni che l’individuo incontra, con i
significati sociali di tali situazioni, con la reazione degli
altri e con la norma che definisce il comportamento deviante. In
particolare, “fattori di predizione della violenza giovanile”
sono stati raccolti in cinque categorie: fattori individuali,
familiari, scolastici, legati al gruppo dei pari, correlati
all’ambiente economico-sociale di appartenenza.
Un caso per tutti. Quello del bullismo può configurarsi
come fenomeno predittivo rispetto alla comparsa in età
adolescenziale di comportamenti “devianti”. Con il termine
bullismo si intende un’oppressione, psicologica o fisica,
reiterata nel tempo, perpetuata da una persona o da un gruppo di
persone più potente nei confronti di un’altra persona percepita
più debole. Dai casi raccolti dagli osservatori privilegiati
quali S.O.S Telefono Azzurro e il Servizio Emergenza Infanzia
114, emerge in maniera preoccupante come gli episodi di bullismo
avvengono prevalentemente all’interno della scuola: aule,
corridoi, bagni sono gli ambienti privilegiati, accanto ai
cortili, ai laboratori, agli spogliatoi della palestra e a tutti
i luoghi isolati o poco sorvegliati dal personale scolastico; le
prepotenze si verificano frequentemente anche nel tragitto
casa-scuola. Tale fenomeno può può manifestarsi in due forme
principali: diretta e indiretta. La prima comprende le
manifestazioni più visibili e aperte di aggressività, tanto
fisiche – come picchiare, spingere, dare calci e pugni,
graffiare, tirare i capelli, dare pizzicotti, appropriarsi degli
oggetti altrui o rovinarli – quanto verbali – come
minacciare, offendere, deridere, insultare, prendere in giro,
estorcere denaro e beni materiali. Il bullismo indiretto,
invece, è caratterizzato da manifestazioni meno palesi, più
subdole e quindi maggiormente difficili da individuare, anche se
altrettanto dannose per chi le subisce (esclusione dal gruppo
dei pari, isolamento, diffusione di calunnie e di pettegolezzi,
manipolazione dei rapporti di amicizia, l’uso ripetuto di
smorfie e gesti volgari).
Le prepotenze di tipo diretto, verbali e soprattutto fisiche, si
manifestano con più frequenza nei maschi e sono indirizzate
indifferentemente verso maschi e femmine; le prepotenze di tipo
indiretto, invece, sono agìte prevalentemente dalle femmine, le
quali utilizzano forme di prevaricazione meno eclatanti e
visibili, indirizzate per lo più a vittime dello stesso sesso.
Il bullismo “al femminile” si concretizza in forme “sottili” e
giocate sul piano psicologico; per questo motivo è stato
riconosciuto più tardi rispetto al bullismo maschile e risulta
di più difficile individuazione.
La violenza giovanile urbana:
il caso Napoli e le principali
esperienze europee
Nel 2002, l’Eurispes e il Telefono Azzurro
hanno condotto un’indagine relativa agli episodi di bullismo
nelle scuole su campione di 3.800 adolescenti di età compresa
tra i 12 e i 18 anni, frequentanti la seconda e la terza media o
un istituto di scuola secondaria superiore.
A livello nazionale, la percentuale di adolescenti che ha
ammesso di aver picchiato e/o minacciato qualcuno è pari a
46,8%; in Campania essa è sensibilmente più elevata:
complessivamente, ben il 56,4% degli adolescenti campani di età
compresa tra i 12 e i 18 anni afferma di avere minacciato
(16,6%) o picchiato (21,5%) qualcuno, o, ancora, di aver fatto
entrambe le cose (18,4%). È stato poi chiesto agli intervistati
se nella scuola frequentata si fossero verificati furti,
minacce, atti continui di prepotenza e di violenza fisica o
verbale tra compagni. Sempre in riferimento al dato nazionale
quasi il 57% dei ragazzi dai 12 ai 18 anni afferma che nella
propria scuola si verificano furti. Il dato, già estremamente
elevato, raggiunge il 69,9% tra gli adolescenti campani.
Il fenomeno del bullismo, e della devianza minorile in generale,
assume dimensioni allarmanti in tutto il territorio nazionale,
ma in particolare tra i ragazzi delle scuole campane, come
emerge anche in relazione alle minacce o agli atti di prepotenza
da parte di compagni: se a livello nazionale la percentuale di
adolescenti che denuncia il verificarsi negli istituti
frequentati di minacce e di atti di prepotenza continui da parte
dei compagni è pari al 33,5%, essa supera il 45% tra gli
adolescenti campani. La percentuale di adolescenti campani che
denunciano il verificarsi di continue violenze fisiche da parte
dei compagni è pari al 17,5%, contro una media nazionale del
10,9%.
Il fenomeno delle sopraffazioni e della violenza nelle scuole
s’inserisce in un quadro di accresciuta devianza minorile e
riflette la crisi socio-culturale che ha investito i principali
meccanismi di appartenenza e di riconoscimento territoriale,
come emerso anche da una rilevazione realizzata dall’Eurispes
nel 2004 su un campione di 2.000 cittadini napoletani. Oltre
i 2/3 del campione, il 67,9%, ritiene molto o abbastanza diffusa
tra i giovani l’abitudine di girare armati di coltello
(percentuale che raggiunge il 78% tra gli intervistati di età
compresa tra i 18 e i 29 anni), il 70,5% afferma di sentirsi
poco o per niente sicuro ad uscire da solo nel quartiere in cui
vive quando è buio ed il 26,9% si sente poco o per niente sicuro
a farlo di giorno: ciò significa che a livello
socio-antropologico si è prodotta una modificazione sostanziale
del tradizionale approccio relazionale comunitario. In relazione
alla violenza giovanile, oltre il 90% degli intervistati ritiene
Napoli poco (54,6%) o per niente (35,7%) sicura; solo per il
7,8% del campione la città è abbastanza (7,4%) o molto (0,4%)
sicura. La diffusione tra minori e ragazzi di comportamenti
antisociali più o meno gravi viene quindi percepita da quasi
tutti i cittadini come un’emergenza che determina un clima di
forte insicurezza. Basti pensare che la provincia di Napoli, nel
complesso, ha registrato nel 2001 un quoziente specifico di
criminalità minorile dell’8 per mille.
Dimensioni e caratteristiche del fenomeno. In merito
all’ingresso nei Centri di Prima Accoglienza nel 2003, a livello
nazionale, la maggior parte degli ingressi è costituita da
stranieri – 1.990, il 56,5% del totale, a fronte di 1.532
italiani (il 43,5% del complesso). In particolare, in Campania
la stragrande maggioranza dei minori presenti nei Cpa (l’87,2%)
è costituita da italiani. La componente femminile rappresenta
appena il 7,2% dei 278 minori entrati nei Cpa campani ed è
costituita soprattutto da straniere. Il 96,9% dei minori di
sesso maschile ed il 100% delle minorenni è entrato nei centri
in seguito ad arresto.
Mentre i minori che hanno fatto il loro ingresso negli Istituti
Penali per i Minorenni, sempre nel 2003, sono risultati in
totale 1.581, di cui il 56,6% stranieri ed il 43,4% italiani,
mentre a Nisida e Airola, i due Istituti Penali per Minorenni
presenti in Campania, la maggioranza degli ingressi (il 58%)
riguarda minori di nazionalità italiana. Relativamente alla
realtà di Napoli, nel 2001 sono stati denunciati nel territorio
provinciale 2.919 delitti ad opera di minorenni: 2.308 ragazzi
di età inferiore ai 18 anni, ovvero il 5,6% del totale dei
minori denunciati in Italia. Il 20,1% dei minorenni denunciati
nella città di Napoli ha compiuto un furto, il 14,4% è accusato
di ricettazione ed il 12,1% è accusato di rapina. Abbastanza
significativa anche la percentuale di minori denunciati per
lesioni personali volontarie (9,3% del totale), per danni a cose
o animali (7,8%), per violenza e resistenza a pubblico ufficiale
(6,1%). Ben il 49,3% dei delitti commessi da minorenni sul
territorio partenopeo si è verificato nella città di Napoli, in
cui risiede appena il 29% della popolazione minorile della
provincia.
Il “disagio dell’agio”. A partire dai primi anni Novanta,
si sono affermate forme di devianza minorile del tutto
sconosciute in precedenza e che solo in parte risultano
appannaggio di soggetti inseriti in realtà di grave
emarginazione sociale. Accanto alla devianza “tradizionale”,
quantitativamente più rilevante, si sta dunque affermando una
“nuova” devianza, espressione del “malessere del benessere”. La
nuova devianza vede infatti spesso coinvolti giovani la cui
condotta precedente è stata del tutto irreprensibile, che fanno
parte di famiglie benestanti e colte, le quali solo ad
un’analisi molto approfondita si rivelano disfunzionali al loro
interno perché conflittuali e disaggregate, perché disattente e
indifferenti. Il disagio “relazionale”, taglia trasversalmente
tutte le fasce sociali, e sfocia il più delle volte
nell’ingresso nel terzo contesto relazionale, quello del
“gruppo”. Nel nostro Paese, il fenomeno coinvolge per lo più
giovani “annoiati” che cercano di trascorrere il tempo
divertendosi. I gruppi sono costituiti in genere da compagni di
scuola o di quartiere, che appartengono a contesti sociali e
familiari molto problematici, ma non necessariamente disagiati
economicamente. I reati commessi possono essere ben diversi per
tipo, gravità e frequenza: generalmente consistono in atti di
vandalismo nelle scuole, negli stadi, negli appartamenti
(soprattutto nel corso di feste private) o nei parchi, in reati
contro la persona (violenze sessuali e omicidi nei casi più
efferati) oppure in furti e rapine, finalizzati a procurare
denaro per poter acquistare oggetti di valore, i cosiddetti
status symbol (il telefonino di ultima generazione, il giubbotto
firmato, il motorino, ecc.). Nella maggior parte dei casi,
questi atti non sono preventivati, ma si verificano
improvvisamente e si svolgono in un clima di eccitazione
collettiva. Le molteplici forme della devianza e della
delinquenza giovanile trovano nel napoletano – un’area che conta
poco più di 3 milioni di abitanti, un reddito pro-capite di
10.500 euro nel 2001 e un tasso di disoccupazione pari al 24,7%
nel 2002 – un osservatorio privilegiato, un “laboratorio di
analisi” dei fenomeni criminali unico oggi in Italia con le
caratteristiche proprie di un’area distrettuale di stampo
criminale. La criminalità a Napoli e nel suo hinterland presenta
una struttura multidimensionale e complessa. In un’area
piuttosto omogenea sul piano socio-economico, amministrativo e
culturale sono rappresentate le principali forme di criminalità
(organizzata, comune, ambientale, economico-amministrativa,
microcriminalità) e i principali settori di attività criminale
(dal traffico di stupefacenti al contrabbando di sigarette,
dallo sfruttamento della prostituzione alle estorsioni, dagli
appalti pubblici truccati alla criminalità ambientale, ecc.). In
questo contesto s’inserisce la crescente abitudine dei ragazzi
napoletani di girare armati di coltello, una vera e propria
“moda giovanile” che ha già provocato, solo dall’inizio del
2004, 95 feriti e un morto (Centro documentazione dell’Eurispes):
un diciannovenne ucciso a coltellate da un coetaneo per aver
sorriso a una ragazza. I piccoli “ganster” urbani si divertono,
nel migliore dei casi, a schiaffeggiare i passanti per strada, a
bordo del motorino, ma la cronaca riporta sempre più
frequentemente pestaggi di gruppo ed accoltellamenti di
coetanei, per uno sguardo, una spinta, un cellulare.
Il gangsterismo metropolitano, caratterizzato da esplosioni di
violenza di gruppo e da fatti delittuosi senza apparente fine di
lucro o motivazioni specifiche, può essere fatto risalire ad una
sorta di “disagio dell’agio” che sembra investire con
sempre maggiore intensità e frequenza le aree metropolitane
della modernità e i figli della buona borghesia che, per noia o
per un malinteso senso di appartenenza al gruppo, diventano
sempre più spesso protagonisti di serate violente, in una sorta
di “Arancia meccanica” partenopea.
L’integrazione scolastica dei minori stranieri
I numeri dell’immigrazione in Italia. I dati più recenti
sulla situazione degli immigrati in Italia sono stati reperiti
dall’Archivio Centrale del Ministero dell’Interno e sono
aggiornati al 31/12/2002. È necessario ricordare che al momento
non sono disponibili i dati definitivi sulla regolarizzazione
seguita alla legge “Bossi-Fini” (art. 33, legge 189/02) e alla
successiva legge 222/02 sulla legalizzazione del lavoro
irregolare; ciò nonostante è possibile quantificare, con le
opportune cautele, la popolazione straniera regolare presente in
Italia alla fine del 2003, anche perché i respingimenti delle
istanze di regolarizzazione dovuti alla mancanza dei requisiti
richiesti sembrano essere piuttosto contenuti. L’incremento di
stranieri regolari, passati da 1.512.324 a 2.639.324 unità tra
la fine del 2002 e la fine del 2003, è stato senza dubbio
agevolato dalla nuova legge sulle regolarizzazioni.
Nonostante l’entità di queste cifre, l’incidenza degli stranieri
regolari sul totale della popolazione residente è di circa il
4,5%, valore che risulta essere più basso di quello medio
registrato in Europa (5,2%). Analizzando le motivazioni che
hanno spinto gli immigrati regolari a chiedere un permesso di
soggiorno al Ministero dell’Interno nel 2002, prevalgono le
ragioni di lavoro. Infatti, la voce che incide maggiormente tra
le motivazioni della richiesta di un permesso di soggiorno è
quella relativa al lavoro subordinato (45,1%); sommando questa
percentuale a quella del lavoro autonomo (7,2%) e del lavoro
subordinato in attesa di occupazione (1,9%), si ottiene una
percentuale complessiva del 54% circa. Un altro aspetto che
spesso influisce sull’arrivo degli stranieri nel nostro Paese è
legato ai ricongiungimenti familiari con parenti già
soggiornanti in Italia (31,2%). Ai 2,6 milioni di stranieri
regolari presenti sulla Penisola (secondo la stima di cui
sopra), bisogna sommare la quota di immigrati clandestini che
inevitabilmente sfuggono al conteggio ufficiale del Ministero
dell’Interno. Secondo l’Eurispes, gli immigrati extracomunitari
clandestini presenti alla fine del 2003 sul territorio nazionale
sarebbero 800.000 (cfr. Rapporto Italia 2004), cifra che
porta il totale della presenza straniera a oltre 3 milioni e
400mila immigrati, pari al 6% della popolazione italiana. Le
dimensioni del fenomeno immigratorio, dimostrano che la
componente straniera della nostra popolazione non rappresenta
più una minoranza da emarginare ma una parte attiva sempre più
consistente di una società multi-etnica.
La scuola, ambito privilegiato dell’interculturalità.
I dati analizzati nel nostro studio registrano la presenza degli
alunni con cittadinanza diversa da quella italiana nell’anno
scolastico 2003/2004 e sono forniti dal Miur (Ministero
dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca). Nell’anno
scolastico considerato si registra un numero di alunni stranieri
pari a 282.683 unità, con un aumento di quasi 50.000 alunni
stranieri (+21,4%) rispetto all’a.s. 2002/2003. L’incidenza
degli alunni con cittadinanza non italiana sulla popolazione
scolastica totale è passata dallo 0,47% del 1994/1995 al 3,49%
del 2003/2004. La serie storica presa in esame, evidenzia un
incremento percentuale, di alunni con cittadinanza europea
(passati dal 42,4% dell’a.s. 1994/1995 al 46,4% dell’a.s.
2003/2004) ed un corrispondente decremento di alunni con
cittadinanza extra-europea (dal 57,6% al 53,6%). Dal primo
maggio 2004, dieci paesi dell’Est europeo sono entrati a far
parte dell’Ue, pertanto, gli alunni provenienti dai nuovi Stati
membri dell’Unione vanno considerati a tutti gli effetti come
cittadini europei. In totale, sono 5.669 gli alunni stranieri
cittadini dei nuovi Stati membri, dei quali ben 4.167
provenienti dalla sola Polonia.
Per quanto concerne le cittadinanze non italiane più
rappresentate nelle scuole del nostro Paese l’Albania risulta al
primo posto con 49.965 alunni, seguita dal Marocco con 42.126 e
dalla Romania con 27.627 (rispetto all’a.s. 2002/2003, il numero
degli alunni rumeni è aumentato addirittura del 78,1%).
Considerando l’intera serie storica dal 1995/96 al 2003/2004,
l’Ecuador, è la nazione che ha fatto registrare l’incremento più
rilevante (da 292 alunni a ben 10.674, 36,5 volte il valore
iniziale). Il continente di provenienza maggiormente
rappresentato fra gli alunni non italiani è quello europeo che,
sommando il dato dei paesi Ue e di quelli non Ue, nell’a.s.
2003-2004 raggiunge il 46,4% del totale; a seguire, l’Africa,
con quasi il 26%, l’Asia (14,8%) e l’America (12,8%); tra gli
alunni stranieri, quelli provenienti dal continente oceanico non
raggiungono neanche il punto percentuale. Dall’anno scolastico
1995/1996 al 2003/2004 si è evidenziato un incremento
dell’incidenza degli alunni europei (e di quelli non Ue in
particolare) sul totale degli alunni stranieri in Italia;
contestualmente, la presenza di alunni provenienti dall’Africa e
dall’Oceania (inclusi gli apolidi) si è ridotta rispettivamente
di 2,5 e 0,5 punti percentuali; molto meno rilevante risulta il
decremento di alunni americani e asiatici.
La quota più consistente di alunni stranieri (il 40,8%) si
registra nelle scuole elementari, mentre il valore più basso si
rileva nelle scuole secondarie di II grado (15,9%). Nello
specifico, si osserva che la quota percentuale degli stranieri
di provenienza Ue presenti nelle scuole secondarie di II grado
(20,9%) è più elevata che nelle secondarie di I grado (19,2%);
lo stesso accade per quanto concerne gli alunni provenienti
dall’Oceania e apolidi (23% vs. 9,8%), mentre i cittadini dei
paesi europei non Ue, così come quelli provenienti dagli altri
continenti, fanno registrare valori percentuali più elevati
nelle scuole medie piuttosto che nelle superiori. Da rilevare,
infine, che la percentuale di alunni cittadini di paesi
americani presenti nelle scuole secondarie superiori (23,4%) è
più elevata rispetto a quelle fatte registrare dai cittadini
degli altri continenti. Passando all’esame della distribuzione
per regione degli alunni con cittadinanza non italiana spicca il
dato della Lombardia che, con 68.423 unità, accoglie il 24,2%
del totale degli alunni stranieri presenti in Italia; a seguire,
il Veneto con 35.826 alunni (12,7%), l’Emilia Romagna con 35.095
(12,4%) e il Piemonte con 29.546 (10,4%). Per trovare una
regione meridionale in questa classifica, bisogna scendere
all’undicesimo posto, dove si trova la Sicilia con 6.161 alunni
con cittadinanza non italiana, a conferma del fatto che le città
del Meridione rappresentano un punto di approdo per l’Italia
piuttosto che una meta di destinazione. Le regioni italiane in
cui la presenza di alunni stranieri è meno numerosa sono la
Basilicata (con 604 unità) e il Molise (359), che insieme
ospitano solo lo 0,3% del totale di alunni non italiani.
Considerando le macroaree geografiche, la percentuale più
elevata di alunni stranieri si registra nel Nord-Ovest (38,2%);
seguono il Nord-Est (28,7%), il Centro (23,8%), il Sud (6,7%) e
le Isole (2,6%). Focalizzando l’attenzione sull’incidenza degli
alunni con cittadinanza non italiana sulla popolazione
scolastica totale risulta che, su 100 frequentanti, 3,5 sono di
nazionalità straniera; per ogni tipologia di scuola considerata,
l’incidenza di alunni stranieri sulla popolazione scolastica è
più alta nel Nord-Est, dove risultano 6,2 alunni stranieri per
100 frequentanti nella scuola dell’infanzia, 7,7 nelle
elementari, 6,9 nelle scuole medie e il 3,4% nelle superiori.
La presenza degli alunni stranieri non si rileva solo nelle aree
metropolitane ma anche nelle piccole province del Centro-Nord,
che costituiscono poli attrattivi per i lavoratori stranieri e
offrono loro prospettive di stanzialità. Scorrendo l’elenco
delle dieci province italiane con la più elevata consistenza
numerica di alunni non italiani troviamo ai primi posti tre
grandi province come Milano, Roma e Torino, e a seguire Brescia,
Vicenza, Treviso, Firenze e Verona, concludendo con Bergamo e
Bologna. Nello specifico, gli studenti europei non comunitari
risultano numericamente prevalenti, rispetto agli alunni di
diversa provenienza, nelle province di Roma, Torino, Brescia,
Vicenza, Treviso, Firenze e Verona; nelle scuole della provincia
di Bologna e di Bergamo, la cittadinanza non italiana
maggiormente rappresentata è quella africana, mentre negli
istituti scolastici di Milano e provincia prevalgono gli
studenti di provenienza americana. Se invece rapportiamo la
presenza di alunni stranieri alla popolazione scolastica delle
singole province, risulta che l’incidenza più alta di alunni con
cittadinanza non italiana (e dunque la concentrazione più
elevata di nuclei familiari allogeni) si raggiunge lontano dalle
grandi aree metropolitane e, specificamente, nella provincia di
Mantova, con un valore di 9,3 stranieri ogni 100 frequentanti;
seguono le province di Prato (9%), Reggio Emilia (8,7%) e
Piacenza (8,3%). L’analisi riporta i dieci comuni capoluogo che
presentano la più alta incidenza di studenti non italiani: dopo
Milano (10,1 alunni stranieri per 100 frequentanti) seguono
Prato (9%), Reggio Emilia (8,3%), e Alessandria (8,2%).
L’individuazione delle cittadinanze straniere più rappresentate
negli istituti scolastici delle province italiane offre uno
spaccato interessante della costituzione multiculturale della
nostra società. Nelle scuole della provincia di Roma sono
rappresentate ben 157 cittadinanze, tra le quali quella rumena
fa registrare l’incidenza più elevata (27%) sul totale della
popolazione scolastica straniera; seguono Milano (con 156
cittadinanze, tra le quali prevale quella ecuadoriana, con una
percentuale del 12%), Torino (137, con una prevalenza della
cittadinanza rumena, pari al 32,2%), e Bologna (122, con una
rappresentanza prevalente di alunni marocchini, pari al 26,3%).
Chiude la classifica la provincia di Varese, dove sono
rappresentate 112 diverse cittadinanze, tra le quali quella
albanese raggiunge un’incidenza del 21,8% sul totale della
popolazione scolastica straniera.
Da rilevare, infine, che nella provincia genovese gli alunni
ecuadoriani rappresentano addirittura il 50% della popolazione
scolastica straniera. In Italia il 90,5% degli alunni con
cittadinanza diversa da quella italiana frequenta le scuole
statali, mentre il restante 9,5% quelle non statali. Nelle
scuole statali il maggior numero di alunni non italiani si
concentra nelle elementari (111.287 unità, corrispondenti al
43,5% del totale di alunni stranieri delle scuole pubbliche);
nelle scuole non statali, invece, la maggioranza di alunni non
italiani si concentra nelle scuole dell’infanzia, con una quota
che arriva al 72,1% del totale. L’incidenza di alunni stranieri
sul totale della popolazione scolastica è di 3,56 alunni non
italiani su 100 frequentanti per quanto concerne le scuole
statali, e di 2,92 per le scuole non statali. Sul totale degli
alunni con cittadinanza non italiana, le alunne straniere
raggiungono la quota del 46,8%; disaggregando questo dato in
rapporto alle scuole statali e non statali, si nota che nelle
prime l’incidenza delle alunne straniere è del 46,7%,
sostanzialmente in linea con il dato complessivo, mentre nelle
seconde la percentuale di studentesse non italiane sale al
47,9%. Le stime previsionali sull’incremento della popolazione
scolastica non italiana nei prossimi 16 anni, elaborate dal Miur,
sviluppano due diverse ipotesi di crescita (bassa nel primo
caso, alta nel secondo). Rispetto all’a.s. 2003-2004 (in cui si
sono registrati, lo ricordiamo, 282.683 alunni non italiani),
l’ipotesi 1 evidenzia un tasso di incremento del 96%, mentre
l’ipotesi 2 del 155%.
Le relazioni pericolose: il consumo di sostanze stupefacenti
e il doping in adolescenza
“Conformista”, “Sintetico”, “Anfibio”,
“Virtuoso” questi i 4 ritratti del giovane consumatore italiano
di stupefacenti tracciati dall’Eurispes e da Telefono Azzurro,
dopo aver analizzato il comportamento di circa 6mila adolescenti
di età compresa tra i 12 ei 19 anni.
Dall’analisi emerge che il 28% di adolescenti italiani consuma
sostanze stupefacenti di diversa natura e pericolosità. Un dato
allarmante che, tradotto nella realtà, significa che un ragazzo
su quattro fa uso di droghe e alcolici.
Dallo studio della correlazione nelle componenti principali
riferita agli atteggiamenti nei confronti delle droghe, del
fumo, degli alcolici e superalcolici è stato possibile
identificare quattro tipologie di adolescenti italiani
classificati, in base alle caratteristiche comportamentali, in:
“conformisti” (il 23% degli adolescenti tra 12 e 19 anni,
pari a circa 1.059.000 soggetti sul territorio nazionale), “sintetici”
(i consumatori di droghe sintetiche, il 3% dei giovani che
corrispondono a circa 138.000 unità), “anfibi” (il 2% del
totale, pari a 92.000 adolescenti) e “virtuosi” (il 72%
degli adolescenti, circa 3.300.000 giovani).
Conformisti. La prima tipologia delineata
dall’indagine Eurispes è caratterizzata dalla contiguità di
alcuni comportamenti ed è stata identificata come quella dei
“conformisti”. I giovani che appartengono a questa categoria
fanno uso prevalentemente di droghe leggere associate
all’assunzione di alcolici e solo occasionalmente consumano
ecstasy. Marcata inoltre risulta essere la logica dell’appartenza
al gruppo: uno degli atteggiamenti caratterizzanti riguarda
infatti la frequantazione di amici che fanno già uso sia di
droghe leggere sia pesanti.
Sintetici. La seconda tipologia, connotata da una
comune linea comportamentale rilevata nella correlazione tra
variabili riferite al consumo di droghe sintetiche e chimiche,
raggruppa i giovani denominati “sintetici”, ovvero gli
psiconauti, che, attraverso le droghe di sintesi, tentano di
esplorare le potenzialità immaginative della psiche. Accanto
all’uso di droghe psichedeliche e allucinogene, vengono
utilizzate anche droghe di prestazione come il
crystal e la cocaina. Questa categoria di giovani, dunque, cerca
l’evasione, l’esperienza ludica ed estatica del trip mentale, ma
anche la durata e la resistenza fisica (garantite dalle droghe
stimolanti) necessarie per soddisfare il proprio bisogno di
onnipotenza e restare in piedi tutta la notte in discoteca.
Anfibi. Nell’analisi dei valori riferite ai
comportamenti a rischio, è possibile individuare poi una terza
linea di comportamento giovanile, nella quale risulta essere
prevalente l’uso della cocaina, una droga di prestazione e di
esaltazione dell’ego, che in questo caso si accompagna a
stimolanti come l’ecstasy, a droghe psichedeliche come le
ketamine, o (meno frequentemente) a stupefacenti come l’eroina,
spesso fumata o sniffata per “tornare a terra” dopo la fase di
eccitazione indotta dalla coca e dalle pasticche. La prevalenza
dell’uso di coca, in questa categoria di giovani, rinvia ad una
ricerca spasmodica di autoaffermazione e di una sensazione di
disinvoltura, stile, mondanità. I giovani che ne fanno uso, come
del resto gli adulti (spesso manager, professionisti o
dirigenti), sono competitivi e ambiziosi e ricercano
l’affermazione personale: a questi soggetti, la cocaina offre
una doppia soddisfazione, perché grazie ai suoi effetti
(potenziamento della lucidità e dell’attività) consente loro di
vivere, come anfibi, sia sulla terra ferma del
riconoscimento sociale che nelle acque instabili della
trasgressione.
Virtuosi. A questa ultima tipologia appartengono
coloro che non fanno mai uso di droga e alcol. Questi ragazzi
sono estranei ad ogni forma di trasgressione, non sembrano
solleticati dall’interesse a provare “nuove sensazioni” prodotte
dal consumo di droghe o alcol ma, al contrario, appaiono
talmente integerrimi da non fumare neanche sigarette. I
“virtuosi” assumono comportamenti salutisti a tutela del proprio
benessere psico-fisico e vivono con fastidio la altrui
“dipendenza”.
Il gruppo dei “virtuosi”, appare il più consistente e
corrisponde a circa 3.300.000 giovani.
In conclusione emerge che le sostanze stupefacenti si sono
moltiplicate e aumentano anche i modelli di consumo; inoltre
appare sempre più frequente l’uso in contesti legati al
divertimento e al tempo libero. Questa tendenza, inoltre, è
confermata dal fatto che cresce il consumo delle droghe
“ricreazionali” (anfetamine, ecstasy, psicofarmaci, LSD e,
soprattutto, cocaina), la cui assunzione rende nell'immediato
più socievoli, disinibiti, euforici. È infine aumentata, negli
ultimi anni, la tendenza dei ragazzi al “policonsumo”, la
forte sovrapposizione tra consumo di droghe ed alcolici e fra
consumo di oppiacei e di stimolanti, con una minore resistenza
al passaggio dagli oppiacei a droghe più pesanti.
I giovani e il doping. Per comprendere quali siano oggi
le dimensioni del fenomeno basti pensare che il mercato del
doping in Italia (nel 2003) ammonta a 650 milioni di euro, circa
330 dei quali distribuito ai dilettanti; la crescita annuale del
fatturato è del 25-30%. Il ricorso al doping per migliorare
l’aspetto fisico, le proprie performance e l’abilità atletica,
non può essere considerato semplicemente un problema sportivo,
ma anche sociale e sanitario. È innegabile che la diffusione del
doping ha aperto alle case farmaceutiche un mercato illegale di
portata inimmaginabile, i cui prodotti comprendono sia le
sostanze dopanti vere e proprie sia le sostanze “coprenti”
utilizzate per nascondere nelle analisi la presenza dei farmaci
proibiti. Il traffico delle sostanze proibite, sul mercato nero,
ha raggiunto in ambito internazionale dimensioni enormi ed è
spesso gestito dalle organizzazioni criminali (mafia e camorra),
come le sostanze stupefacenti. Una parte consistente dei
traffici, inoltre, sfugge ai controlli perché i preparati
farmaceutici vengono camuffati e spacciati per prodotti
destinati a soggetti con disturbi di salute. Un altro aspetto
rilevante è costituito dal fatto che l’approvvigionamento di
sostanze dopanti non è difficoltoso come per le altre droghe;
persino Internet viene ormai utilizzato con frequenza come
canale per le ordinazioni, grazie al semplice utilizzo della
carta di credito.
I soggetti maggiormente coinvolti nel consumo di sostanze
dopanti sono proprio i giovani ed i giovanissimi, spesso
adolescenti all’oscuro dei rischi connessi, o che pur di
diventare campioni sarebbero disposti a tutto; l’età media di
assunzione di doping viene stimata intorno ai 14 anni.
Per conoscere l’atteggiamento degli adolescenti nei confronti
del doping, Telefono Azzurro ed Eurispes hanno chiesto ad un
campione rappresentativo di ragazzi tra i 12 e i 19 anni in che
misura giudichino grave sottoporsi a doping per migliorare le
prestazioni sportive. Oltre la metà degli intervistati (58,5%)
considera molto grave questa pratica, il 23,9% abbastanza grave,
l’8,9% poco, il 6,6% per niente. Se dunque un ampio 82,4% dei
ragazzi intervistati valuta negativamente il doping, è
preoccupante osservare un 15,5% la pensa diversamente. Sono
quindi numerosi gli adolescenti che sottovalutano o addirittura
ignorano, da un lato, i rischi per la salute che il doping
comporta, dall’altro la scorrettezza e l’antisportività di
questo comportamento.
Comportamenti suicidari nei minori italiani
In Italia il suicidio dei minori, pur nella sua dolorosa
connotazione a livello umano, a livello epidemiologico mantiene
una dimensione piuttosto contenuta. Infatti, esso rappresenta,
se si considera l’arco temporale che va dal 1987 al 2002, meno
dell’1,5% della mortalità totale dovuta a suicidio. Conforta
ulteriormente il notare che, dal 1995 in poi, la dimensione
numerica assoluta è andata diminuendo, con un valore minimo di
23 decessi nel 1999. Successivamente al 1994 (anno con il valore
massimo registrato: 74 casi), sui sedici anni considerati, i
dati sono risultati costantemente inferiori al valore medio di
45 casi/anno. Per quanto riguarda i minori di 14 anni, con
l’unica eccezione del 2001 (8 casi), si possono fare
osservazioni analoghe: l’anno peggiore è risultato il 1993 (17
casi), ma dal 1995 i dati sono risultati inferiori (o uguali per
il 1995) al valore medio di 6 decessi/anno. È chiaro comunque
che la rilevanza numerica del fenomeno per quest’età della vita
non è tale da permettere considerazioni conclusive. La
diminuzione del numero di decessi dovuti a suicidio è evidente
anche dal numero totale dei casi per tutte le età della vita:
dal 1995 il numero complessivo è apparso addirittura
progressivamente discendente (salvo un aumento di 130 casi nel
2002), mentre, se si osservano i due estremi del periodo
considerato (1987 e 2002), la diminuzione risulta superiore al
25% del totale, a fronte di un quasi dimezzamento dei casi nel
sesso femminile. Le differenze di sesso indicano che nei minori
di 14 anni la preponderanza di casi di suicidio tra i maschi è
circa 2,2 volte superiore a quella delle femmine ma,
considerando il range fino a 17 anni inclusi, il rapporto
diventa circa di 3 a 1. La forbice si allarga ulteriormente
considerando tutte le età della vita, risultando nel complesso
di 3,3 a 1. Ciò significa che con il progredire dell’età i casi
di suicidio maschile aumentano (e diminuiscono proporzionalmente
i casi nel sesso femminile). Considerazioni analoghe esprimono i
rapporti tra tassi di suicidio (cioè numeri relativi, rapportati
a 100.000 abitanti). Infatti, la popolazione generale italiana
presenta per il 2002 un valore inferiore alle 7 unità per
100.000 (un decremento di circa il 27% dal 1993), con un
rapporto approssimativamente di 4,5 a 1 rispetto alla
popolazione dei minori (poco più di 1 caso all’anno per 100.000
abitanti). Per quanto riguarda i mezzi di esecuzione dell’atto
suicidario, l’impiccagione è il metodo più frequentemente
utilizzato sia dai minori che dal resto della popolazione;
frequenti anche la precipitazione o l’utilizzo di un’arma da
fuoco. Pur rimanendo per lo più sconosciuto il movente dell’atto
suicidario, è tuttavia interessante notare che i “motivi
affettivi” (sentimentali) in quest’età della vita soverchiano
quelli attribuiti a malattia psichica. Virtualmente assenti i
“motivi d’onore”, che invece erano preminenti all’inizio del
ventesimo secolo, in particolare nei più giovani. Per quanto
riguarda la “scelta temporale” dell’atto, sia per i minori che
per gli adulti gli atti suicidari si concentrano nelle ore
diurne e in primavera.
La prospettiva internazionale. A livello internazionale,
l’aumento del tasso dei suicidi nella prima adolescenza sono
apparsi evidenti fin dagli anni Settanta, con le variazioni
maggiori a carico dei paesi anglo-sassoni e scandinavi.. In
Italia, l’aumento registrato dal 1960 al 1999 è stato del 43%.
Il suicidio rappresenta infatti la seconda causa di morte nei
soggetti più giovani, mentre costituisce la causa più importante
nei giovani adulti. Occorre precisare che d’altra parte che
dalla metà degli anni Novanta, il tasso di suicidi nella fascia
di età 15-24 anni ha cominciato a declinare significativamente,
soprattutto tra i soggetti di sesso maschile.
Tentativi di suicidio. Ancor più che nel caso dei dati
relativi ai suicidi, la reale dimensione del fenomeno “tentativi
di suicidio” sfugge per larga parte alla registrazione delle
Autorità. Inoltre, il numero degli atti non fatali da parte di
minori appare chiaramente superiore a quello dei suicidi. Anche
rispetto al numero totale degli atti non fatali, i tentativi dei
minori appaiono numericamente più importanti. Infatti essi
costituiscono circa il 4% del numero totale degli atti della
popolazione generale, ma nei minori di sesso femminile essi
raggiungono il 7% dei tentativi della corrispondente popolazione
generale. Da ciò risulta evidente che, contrariamente ai suicidi
(in cui prevalevano i soggetti di sesso maschile), nei tentati
suicidi prevalgono i soggetti di sesso femminile. Infatti nel
2002, i tentativi di suicidio di minori dai 13 ai 17 anni hanno
riguardato in totale 90 soggetti di cui 60 femmine.
Capitolo 3
Socialità, cultura e nuovi media
Il ruolo della scuola nella percezione
degli studenti
L’indagine campionaria sugli
adolescenti. Nel maggio 2004, Eurispes e Telefono Azzurro
hanno somministrato un questionario ad un campione
rappresentativo della popolazione scolastica italiana tra i 12 e
i 19 anni, intervistando 3.453 adolescenti frequentanti la
seconda e terza media o una delle classi degli istituti
superiori. Chiamati ad esprimere le loro considerazioni sulla
scuola, gli adolescenti hanno espresso le seguenti opinioni: la
maggior parte dei ragazzi intervistati considera la scuola una
tappa obbligatoria nella vita (33,2%), mentre una quota
leggermente più contenuta (28,6%) ritiene che è un importante
momento di socializzazione. A seguire, con percentuali minori,
un adolescente su cinque (precisamente il 19,6%) giudica la
scuola interessante perché si imparano cose nuove, il 12,1% la
considera il posto peggiore dove trascorrere la giornata e il
4,5% afferma che è noiosa. La differenza di genere evidenzia, da
parte dei maschi, un atteggiamento più negativo nei confronti
della scuola: si registrano le percentuali maggiori sia tra
coloro che considerano la scuola il posto peggiore dove passare
la giornata (addirittura il 17,1% dei maschi contro il 6,8%
delle femmine), sia tra coloro che la ritengono noiosa (il 5,7%
contro il 3,4%). Al contrario, le ragazze riconoscono
maggiormente l’importanza della scuola come occasione di
socializzazione (il 33,3% contro il 24,3% dei maschi) e sono più
numerose a ritenerla interessante perché si imparano cose nuove
(il 20,7% contro il 18,7%). Per quanto riguarda i dati relativi
a coloro che vedono la scuola come una tappa obbligatoria nella
vita non si riscontrano sostanziali differenze: nello specifico
il 33,7% delle ragazze sostiene questa tesi contro il 32,4% dei
ragazzi. La disaggregazione territoriale mostra significative
differenziazioni: quote molto elevate di residenti nell’Italia
settentrionale affermano che la scuola è una tappa obbligatoria
nella vita (rispettivamente il 41,2% nel Nord-Ovest e il 39,1%
nel Nord-Est); nelle Isole si registrano i valori più elevati
tra le modalità negative (il 16,9% degli intervistati afferma
che la scuola è il posto peggiore dove trascorrere la giornata e
l’8,9% la ritiene noiosa). Ritengono importante la scuola dal
punto di vista della socializzazione soprattutto i ragazzi del
Nord-Est e del Sud, con percentuali superiori alla media
nazionale e pari rispettivamente al 30,4% e 30,1%. Inoltre, sono
i residenti al Sud i più numerosi ad affermare che la scuola è
un posto interessante dove si imparano cose nuove (26% contro la
media nazionale del 19,6%), anche se una quota abbastanza
consistente degli stessi (13,4%) ritiene che è il luogo peggiore
dove trascorrere la giornata. In riferimento alla componente
della socializzazione, emerge che i ragazzi ritengono importante
trovare a scuola soprattutto compagni simpatici (il 75% afferma
che è molto importante) e docenti comprensivi (66,8%).
L’importanza di questi aspetti è sottolineata dagli intervistati
in misura superiore ad altri elementi quali la preparazione
degli insegnanti o un metodo didattico coinvolgente (in questo
senso, risponde “molto” rispettivamente il 65,3% e il 62,2%
degli studenti), proprio a rimarcare l’essenzialità dei rapporti
umani in un sistema scolastico efficace. I fattori strutturali
sembrano preoccupare meno i ragazzi. Questi pur riconoscendo
l’importanza di un edificio scolastico ben tenuto, di laboratori
linguistici e informatici funzionanti, concentrano le loro
risposte principalmente nella modalità “abbastanza”, attribuendo
ad essi una priorità secondaria. Un numero maggiore di
intervistati, rispetto agli altri items, afferma che non è per
niente importante avere un edificio ben tenuto (4,6%), un
laboratorio informatico e linguistico che funziona
(rispettivamente il 4,3% e l’8,9%). Per quanto concerne la
differenza di genere, ragazzi e ragazze si esprimono in modo
leggermente diverso rispetto ai fattori ritenuti prioritari
nell’istituzione scolastica. Le ragazze concentrano la loro
attenzione soprattutto sul fattore umano (per il 78,5% di esse è
molto importante avere compagni simpatici e per il 72,3%
insegnanti comprensivi) e, allo stesso tempo, ritengono
prioritari gli aspetti legati alla metodologia didattica (avere
insegnanti preparati e materie insegnate in modo coinvolgente è
della massima importanza rispettivamente per il 70,6% e il 66,9%
delle ragazze). I ragazzi esprimono le loro necessità
principalmente per un laboratorio informatico funzionante (il
45,3% contro il 33,3% delle ragazze) e per un edificio
scolastico ben tenuto (il 33,4% contro il 26,8%). Al contrario,
il laboratorio linguistico interessa in misura superiore le
ragazze che nel 43,6% dei casi lo giudicano abbastanza
importante e nel 29,8% molto importante. La disaggregazione
territoriale è stata riportata esclusivamente per l’item che
presentava sostanziali differenziazioni rispetto alle diverse
macro-aree, nello specifico analizziamo il tema dell’edilizia
scolastica. Mostrano maggiore interesse per l’edificio
scolastico soprattutto gli studenti residenti nel Isole e nel
Sud: esprimono il massimo grado di importanza rispettivamente il
39,8% e il 36,8% degli intervistati. Una quota più contenuta dei
ragazzi residenti nel Nord-Ovest si esprime allo stesso modo
(30,7%), ma risultano più elevati che nelle aree del Mezzogiorno
i valori relativi a discreta (46,1%) o scarsa importanza
(17,3%). I meno interessati a questo aspetto risultano i ragazzi
dell’Italia centrale, che nel 7,9% dei casi affermano che non è
per niente importante avere un edificio scolastico ben tenuto.
Sembra importante sottolineare che il maggior grado di
importanza per un edificio scolastico ben tenuto è stato
espresso proprio dagli intervistati residenti nelle aree in cui
l’edilizia scolastica registra le maggiori criticità, rilevate
in indagini precedenti (Eurispes, I Rapporto Nazionale sulla
Scuola, 2003). Relativamente ai progetti per il futuro, una
quota elevata dei ragazzi italiani (33,5%) manifesta un deciso
interesse per la propria formazione espresso nel desiderio di
continuare a studiare, un’altra componente in percentuale molto
simile (32,5%) vorrebbe proseguire gli studi e lavorare al tempo
stesso, probabilmente per non rinunciare ad un titolo di studio
elevato e garantirsi l’indipendenza economica. Circa un ragazzo
su quattro (25,1%) preferirebbe interrompere gli studi e andare
a lavorare, mentre una percentuale esigua (4,3%) afferma che
sceglierebbe “il dolce far niente”.
La domanda relativa ai progetti futuri incrociata con la
variabile territoriale evidenzia una quota leggermente più
elevata (6,7%) di ragazzi del Centro che, potendo scegliere
liberamente, preferirebbe non fare niente. Oltre la metà degli
intervistati residenti nelle Isole (58,5%) esprime il desiderio
di voler continuare gli studi, mentre circa un ragazzo su tre
del Nord-Ovest (30,7%) afferma che smetterebbe di studiare per
andare a lavorare. L’idea di conciliare studio e lavoro incontra
l’approvazione soprattutto dei giovani del Centro (35,5%), del
Sud (34,5%) e del Nord-Ovest (33,8%). Gli intervistati chiedono
che la scuola abbia principalmente una funzione professionale,
basata sull’opportunità di favorire l’ingresso degli studenti
nel mondo del lavoro (32,8%); circa un ragazzo su quattro
(25,7%) afferma che la scuola non deve trasmettere solo nozioni
ma anche valori. Il 19% dei ragazzi ritiene che la scuola debba
offrire anche degli spazi in cui trascorrere il tempo libero e
l’8,6% pensa che sia opportuno intensificare la funzione
socializzante della scuola, basata sullo sviluppo delle capacità
relazionali. Il 7,6% afferma che non sente il bisogno di
modificare le funzioni della scuola sotto alcun aspetto.
Rispetto alla macro-area di residenza degli intervistati, non si
riscontrano sostanziali differenze in riferimento all’item: “la
scuola non dovrebbe fare niente di più di quello che già fa”,
mentre è interessante evidenziare alcune caratterizzazioni
territoriali. I giovani dell’Italia meridionale e insulare
ritengono in misura maggiore, rispetto agli altri coetanei, che
la scuola dovrebbe offrire spazi in cui trascorrere il tempo
libero (rispettivamente il 26,8% e il 28,4%).
La funzione socializzante è suggerita in maniera abbastanza
omogenea a livello nazionale (tutti i valori oscillano intorno
alla media dell’8,6%), con una eccezione per i giovani
dell’Italia centrale, tra cui la percentuale è più contenuta e
pari al 5,5%. Sono soprattutto gli studenti del Nord-Est e del
Centro ad esprimere la volontà di privilegiare la dimensione
valoriale tra gli obiettivi della scuola: in queste due realtà
territoriali le percentuali sono superiori alla media nazionale
e pari rispettivamente al 28,3% e al 28,6%. Il Nord-Ovest
manifesta con forza l’esigenza di irrobustire i nessi tra scuola
e mondo del lavoro, infatti ben il 38,5% dei ragazzi esprime
questa necessità contro il 28,9% del Sud e il 23,3% delle Isole.
Quasi la metà del campione (48,7%) afferma che il tempo
impiegato per conseguire un titolo di studio, superiore o
universitario, è un modo per accrescere le proprie conoscenze
culturali. Gli altri intervistati suddividono le loro risposte
tra le modalità con finalità occupazionali: per il 32% il
proprio percorso formativo garantirà la possibilità di svolgere
un lavoro soddisfacente; il 12% afferma che è un mezzo per
trovare un lavoro qualsiasi, mentre il 4% lo considera “un
parcheggio”, un modo di prendere tempo fino al momento
dell’ingresso nel mondo del lavoro. Interrogati sul grado di
accordo con alcune affermazioni al fine di verificare la loro
posizione su alcune questioni inerenti la scuola, i ragazzi
forniscono risposte significative. Osserviamo che essi
riconoscono l’importanza delle conoscenze acquisite con lo
studio non condividendo (“per niente” nel 42,5% dei casi e
“poco” nel 34,2%) l’affermazione che la scuola non serve quasi a
nulla e la vera formazione si acquisisce lavorando. Sono
abbastanza convinti che la scuola è l’unico mezzo per contare
(37,3%) e per assicurarsi la sopravvivenza nella società
(37,5%), mentre esprimono un netto dissenso (63,8%) in
riferimento all’affermazione che il titolo di studio non serve a
trovare un posto di lavoro. I ragazzi non assumono una posizione
netta in riferimento al fatto che la scuola sia troppo lontana
dai concreti problemi della realtà, infatti le loro risposte si
concentrano nelle modalità di risposta intermedie (il 34,4% è
poco d’accordo, mentre il 29,3% lo è abbastanza), mentre le
percentuali registrate ai poli sono molto più contenute. I
ragazzi delle Isole e del Sud esprimono un elevato disaccordo
(rispondono di non essere per niente d’accordo rispettivamente
il 53% e il 45,9% del campione) con l’affermazione che la scuola
non serve quasi a nulla e la vera formazione si acquisisce
lavorando, mentre al Centro si registra la percentuale più
consistente di intervistati che afferma di essere molto
d’accordo (6,9%). Nel Settentrione le risposte si concentrano
nelle modalità di risposte intermedie: nel Nord-Ovest i ragazzi
sono poco d’accordo nel 37,6% dei casi e abbastanza nel 19,6%,
mentre nel Nord-Est manifestano uno scarso accordo il 38,4%
degli studenti e un grado leggermente più elevato di accordo il
14,6%. I più numerosi a pensare che la scuola è troppo lontana
dai concreti problemi della società sono i ragazzi del
Nord-Ovest che si dichiarano molto d’accordo con questa
affermazione nel 13,6% dei casi e abbastanza nel 31,7%. I
ragazzi decisamente contrari a questa posizione sono quelli
residenti nell’Italia meridionale e insulare che manifestano un
completo disaccordo rispettivamente per il 21,1% e per il 23,3%
del campione. Monitorare la presenza degli insegnanti di
sostegno per i ragazzi che ne abbiano bisogno non è risultato
molto semplice, dal momento che circa un intervistato su cinque
non è riuscito a fornire una risposta. Sommando i valori
positivi e negativi di coloro che si sono espressi osserviamo
che nella maggioranza dei casi (46,6%) gli insegnanti sono
presenti, mentre in alcune scuole (34,5%) sono carenti o
assenti. Anche se un ragazzo su cinque afferma che non è
necessario ampliare lo spazio per alcuna materia nei programmi
scolastici, la maggioranza degli intervistati ritiene opportuno
approfondire le proprie attività didattiche.
Di questi ultimi il 36,2% vorrebbe concedere maggiore spazio
alle materie tecnico-scientifiche e il 27,3% alle materie con
indirizzo umanistico-letterario. Da questi dati emerge il
bisogno di un sapere più pratico e meno teorico che sia
immediatamente spendibile nel mondo del lavoro. Quasi la
totalità del campione (80,1%) esprime l’interesse per
l’inserimento dell’educazione sessuale nei programmi scolastici;
solo il 10% è di parere contrario e il 9,9% non risponde. Questi
dati sono da interpretare come un segnale della necessità di
contestualizzare i programmi scolastici nella società attuale
affrontando le problematiche che toccano i giovani da vicino. I
ragazzi chiedono con una determinazione maggiore delle ragazze
che l’educazione sessuale venga inserita nei programmi
scolastici, infatti l’83,7% dei primi auspica questa innovazione
mentre tra le ragazze la percentuale scende al 76,5%. Queste
ultime mostrano un maggiore disorientamento in merito alla
questione, infatti il 12,2% non fornisce una risposta mentre tra
i ragazzi questo accade nel 7,3% dei casi.
I maggiori assertori dell’inserimento dell’educazione sessuale
nei programmi scolastici sono i ragazzi residenti nell’Italia
insulare che registrano una percentuale di risposte positive
pari all’89%. Al contrario, nel Sud si osserva la componente più
contenuta (74,4%) che guarda con favore all’inserimento di
questa nuova disciplina nei programmi didattici. Nell’Italia
centrale e settentrionale si può notare un andamento dei dati
molto simile tra le diverse realtà ed in linea con la media
nazionale. Il giudizio relativo all’adeguatezza di strutture e
servizi scolastici presenta delle sostanziali differenze: i
ragazzi sono abbastanza soddisfatti delle aule (49,3%), dei
corridoi (56,5%) e dei luoghi interni di passaggio (52,1%) delle
loro scuole, mentre diventano più critici quando si parla di
laboratori linguistici, spazi esterni di passaggio e parcheggio
dei motorini, che sono del tutto inadeguati rispettivamente per
il 23,8%, il 23,9% e il 22,6%. Palestra e laboratorio
informatico pur registrando complessivamente un bilancio
positivo, sono oggetto di insoddisfazione per percentuali
abbastanza consistenti di intervistati. I dati sono stati
aggregati in una ulteriore tabella sommando giudizi positivi e
negativi in modo da avere un impatto immediato e più facilmente
confrontabile. Si può osservare che l’adeguatezza di aule,
corridoi, luoghi interni di passaggio e laboratori informatici è
garantita nella maggioranza dei casi, ma la palestra diventa un
problema per 4 ragazzi su dieci. Quasi la metà dei ragazzi
denuncia l’inadeguatezza degli spazi esterni e dei parcheggi per
i motorini, infatti i giudizi negativi superano quelli positivi,
mentre l’aspetto più problematico risulta il laboratorio
informatico e linguistico che nel 46% dei casi è poco o per
niente adeguato contro il 36,5% di valutazioni favorevoli. La
variabile territoriale evidenzia maggiori criticità nell’Italia
centrale e insulare per quasi tutti gli ambienti scolastici:
dalle aule ai corridoi, dai luoghi interni di passaggio agli
spazi esterni, il giudizio negativo è sempre più marcato. Per
quanto riguarda le aule, queste vengono ritenute completamente
inadeguate dal 18,8% dei ragazzi del Centro e dal 22,5% dei
residenti nelle Isole, mentre al Settentrione prevalgono le
valutazioni favorevoli. In riferimento a corridoi e luoghi
interni di passaggio si presenta un analogo andamento dei dati
che vede il Centro e le Isole in condizioni di maggiore
problematicità e il Nord con i valori positivi più elevati. Lo
spazio della palestra non è per niente adeguato per il 25,8% dei
ragazzi dell’Italia centrale e per il 22,5% degli studenti
meridionali, mentre il 38,6% dei residenti nel Nord-Ovest
esprimono un giudizio abbastanza positivo. Gli stessi si
ritengono molto soddisfatti del loro laboratorio informatico nel
28,8% dei casi, la stessa percentuale scende all’8,9%
nell’Italia centrale e i giudizi più negativi sono espressi al
Sud e nelle Isole (per niente adeguato rispettivamente per il
17,7% e il 18,6%).
La massima insoddisfazione per il laboratorio linguistico viene
manifestata dai ragazzi residenti nel Sud e nelle Isole (per
niente adeguato rispettivamente nel 37,4% e nel 29,2%), mentre
nel Nord-Est si registrano le percentuali più elevate tra i
giudizi positivi: è molto adeguata nel 12,6% dei casi e
abbastanza nel 43,5%. Lo stesso andamento dei dati si presenta
per gli spazi esterni di passaggio e per il parcheggio dei
motorini, con maggiori criticità nel Sud e nelle Isole ed
elementi di maggiore soddisfazione nel Nord-Ovest.
Il sistema di certezze e di valori
degli adolescenti italiani
Per verificare la solidità del sistema di
certezze degli adolescenti italiani, Eurispes e Telefono Azzurro
hanno somministrato, nel maggio 2004, un questionario ad un
campione rappresentativo della popolazione scolastica italiana
tra i 12 e i 19 anni, intervistando 3.453 adolescenti
frequentanti la seconda e terza media o una delle classi degli
istituti superiori.
Il sistema di certezze. In un contesto di insicurezza
diffusa, caratterizzato dal susseguirsi continuo di minacce
inquietanti e immagini atte a ricordare quotidianamente la
realtà della guerra, gli adolescenti intervistati hanno
individuato innanzitutto in una vita familiare serena l’elemento
in grado di trasmettere loro un certo sentimento di sicurezza.
La garanzia di un “cantuccio ideale” in cui potersi raccogliere,
per un momento lontani dalle inquietudini e dalle angosce del
mondo, è indicato come fattore in grado di trasmettere “molto”
(70,1%) o “abbastanza” (22,3%) sicurezza dalla quasi totalità
degli intervistati (il 92,4%). Anche la “certezza di essere nel
giusto delle proprie scelte” e la stima degli altri
costituiscono elementi in grado di dare molta o abbastanza
sicurezza a oltre i 4/5 del campione. In particolare, ben
l’88,7% degli adolescenti si sente molto (51,6%) o abbastanza
(37,1%) sicuro davanti alla certezza di aver operato scelte
corrette, mentre l’80% individua all’esterno, nella stima
altrui, un fattore in grado di trasmettere molta (38,2%) o
abbastanza (41,8%) sicurezza. Per molti adolescenti, questo
sentimento deriva anche dalla possibilità di contare su forti
legami affettivi, di tipo sentimentale o amicale. L’amore del
proprio ragazzo (o della propria ragazza) rende molto (45,4%) o
abbastanza (28,2%) sicuro poco meno dei _ del campione (73,6%),
mentre l’appartenenza a un gruppo è in grado di suscitare questo
sentimento in circa due ragazzi su tre (il 66,2%). Assume
relativamente meno importanza tra gli adolescenti la certezza
dell’amore di Dio per loro: il 17,5% afferma che questo fattore
non fornisce a livello personale alcun tipo di sicurezza, mentre
per un altro 17,2% si tratta di un elemento in grado di favorire
di poco questo sentimento. La quota di intervistati per i quali
il credere che Dio s’interessi a loro suscita molta o abbastanza
sicurezza è comunque maggioritaria (57,3%). Gli adolescenti non
restano indifferenti nemmeno al dio denaro: oltre il 54%
sostiene infatti che il possesso di molto denaro è un elemento
in grado di dare loro molta (17,7%) o abbastanza (36,4%)
sicurezza. Lo scorporo delle risposte in base al sesso degli
intervistati consente di osservare come, in relazione ai fattori
in grado di fornire molta o abbastanza sicurezza, la graduatoria
stilata dai ragazzi e dalle ragazze sia molto simile.
Indipendentemente dalla variabile sesso, i primi tre elementi
indicati dagli adolescenti sono: una vita familiare serena, la
certezza di fare scelte giuste e la stima degli altri. Seguono,
per entrambi i sessi, la possibilità di contare sull’amore del
proprio ragazzo (o della propria ragazza) e l’appartenenza a un
gruppo. In relazione a ciascuno di questi elementi, le ragazze
si distinguono dai coetanei per una maggiore capacità di trarre
dalla certezza di fare scelte giuste o dalla stima degli altri
delle possibili fonti di sicurezza. La percentuale di coloro che
affermano di ricevere da questi fattori molta o abbastanza
sicurezza è infatti sistematicamente più elevata tra le
intervistate. Tra i loro coetanei è invece più elevata la quota
di quanti rintracciano nel possesso di molto denaro un fattore
in grado di dare molta o abbastanza sicurezza (59,1%, a fronte
di un dato femminile del 48,9%). In relazione a questo
sentimento, i ragazzi considerano la ricchezza più importate
della fede in Dio: il credere che Dio s’interessi a loro
fornisce abbastanza o molta sicurezza per una quota di essi
percentualmente più contenuta (il 56,6%, contro il 58,1% delle
ragazze). La possibilità di una vita familiare serena e la
certezza di fare scelte giuste si collocano ai primi posti della
graduatoria relativa ai fattori in grado di favorire il
sentimento di sicurezza tra gli adolescenti intervistati,
indipendentemente dall’area geografica di residenza. In
particolare, una vita familiare serena fornisce “molta” o
“abbastanza” sicurezza ad una quota di ragazzi variabile dal
93,7% (Centro) al 91,1% (Isole), mentre la certezza di essere
nel giusto costituisce un elemento in grado di dare “molta” o
“abbastanza” sicurezza ad una percentuale di adolescenti
variabile dal 92,1% (Nord-Est) all’83% (Isole). Il sentimento di
sicurezza si nutre anche, per una maggioranza significativa di
adolescenti (variabile dal 71,2% degli isolani all’85,8% dei
ragazzi del Nord-Est), della stima altrui, dell’apprezzamento e
della considerazione che gli altri hanno nei loro confronti.
Questo fattore, al terzo posto della graduatoria tra gli
adolescenti del Nord e del Centro-Sud, si colloca in quinta
posizione tra gli isolani, che gli antepongono sia l’amore del
proprio partner (in grado di dare molta o abbastanza sicurezza
ad avviso del 74,1% di questi intervistati) sia la fede nel
fatto che Dio s’interessi a loro (71,7%). Gli adolescenti delle
Isole si distinguono, inoltre, insieme ai ragazzi del Sud, per
una minore fiducia nella possibilità di trarre una maggiore
sicurezza in sé stessi dal possesso di molto denaro, elemento da
essi collocato in settima e ultima posizione. Questo fattore è
in grado di dare molta o abbastanza sicurezza al 50% degli
adolescenti del Sud e al 55% dei ragazzi isolani, al 52,9% degli
adolescenti del Nord-Est e al 57,8% di quelli residenti al
Nord-Ovest e al Centro. Non si osservano, invece, differenze
significative tra gli adolescenti del Centro-Nord, che in
relazione alla capacità di favorire il proprio senso di
sicurezza ritengono relativamente meno importante il credere che
Dio s’interessi a loro. La fiducia nell’aiuto di Dio, ritenuta
un fattore in grado di fornire molta o abbastanza sicurezza
soprattutto dai ragazzi del Sud (72,4%), è considerata tale,
infatti, per una quota percentuale di adolescenti decisamente
più contenuta al Nord-Ovest (47,4%), al Nord-Est (51,7%) e al
Centro (47,9%).
Il ruolo delle agenzie di socializzazione. Qual è il peso
delle principali agenzie di socializzazione in relazione al modo
di pensare degli adolescenti rispetto a determinati argomenti?
Quale ruolo assumono la famiglia, gli insegnanti, gli amici, il
parroco o la tv nel determinare le scelte ed i gusti dei ragazzi
in materia di idee politiche, credo religioso, rapporto con
l’altro sesso, interessi culturali e modo di vestire?
È possibile osservare in primo luogo che su ciascuno di questi
argomenti, un peso importante, quando non primario, è assunto
dalla famiglia: non solo essa rappresenta il soggetto in grado
di influenzare maggiormente le idee politiche (il 37,9% del
campione afferma di essere stato influenzato rispetto a questo
argomento dai propri familiari) ma, ad avviso degli
intervistati, ha un ruolo di spicco anche in relazione al credo
religioso (38,5%), nonché, in misura minore, rispetto agli
interessi culturali (22,9%), allo stile nell’abbigliamento
(20,3%) e ai rapporti con l’altro sesso (16,3%). Va evidenziato,
inoltre, come una parte significativa di adolescenti riconosca
di subire l’influenza della televisione non solo rispetto al
modo di vestire (16,9%) e agli interessi culturali (11,4%) ma
anche, e soprattutto, in relazione alle idee politiche (34,3%).
Rispetto a questo argomento la tv mostra dunque di avere un peso
solo lievemente inferiore a quello della famiglia e di gran
lunga più importante di quello degli amici (11,6%). Questi
giocano invece un ruolo incontrastato nell’influenzare il modo
di vestire (56,9%) ed i rapporti con l’altro sesso (68,5%). Per
quanto riguarda gli insegnanti, ad essi è riconosciuto un ruolo
di primo piano nel determinare gli interessi culturali (54,5%).
Infine, ai parroci e ai catechisti il 47,6% degli adolescenti
attribuisce, come prevedibile, un’influenza sul credo religioso.
L’influenza delle diverse agenzie di socializzazione rispetto a
determinati argomenti assume un peso differente a seconda del
genere. In particolare, è possibile evidenziare come la famiglia
influenzi soprattutto le ragazze in merito a idee politiche
(40,1%, contro un dato maschile del 35,8%), credo religioso
(42,7%, contro il 34,7% dei maschi) e rapporti con l’altro sesso
(ne riconosce l’influenza il 18,7% delle ragazze, contro il
14,1% dei ragazzi). Rispetto al modo di vestire sono invece i
ragazzi a subire più delle loro coetanee l’influenza dei
familiari (22,9%, contro i1 7,6%). Per quanto concerne gli
amici, i ragazzi riconoscono più delle coetanee di esserne
influenzati rispetto a: idee politiche (13,7%, contro un dato
femminile del 9,5%), credo religioso (5,5%, contro il 3,2%) ed
interessi culturali (8,4%, contro il 6,9%). Al contrario, gli
amici condizionano maggiormente le ragazze riguardo i rapporti
con l’altro sesso (70,6%, contro il 66,3% dei maschi) e lo stile
d’abbigliamento (59,3%, contro il 54,5%).
Non si rilevano differenze di sesso significative in relazione
alle altre agenzie di socializzazione. È possibile evidenziare,
tuttavia, come i ragazzi si sentano maggiormente influenzati
dagli insegnanti rispetto al credo religioso (6,6%, contro il
3,1% delle coetanee), mentre le ragazze avvertano più dei
coetanei l’influenza dei docenti sui propri interessi culturali
(58%, contro il 51,1%). Infine, gli adolescenti di sesso
maschile subiscono maggiormente l’influenza della tv in merito
ai rapporti con l’altro sesso (9,1% contro il 4,5%), mentre le
loro coetanee avvertono di più questa influenza sul modo di
vestire (18,8%, contro il 15,2%). L'analisi evidenzia la
distribuzione delle risposte in base all’area geografica di
riferimento. È possibile notare, in primo luogo, come la
famiglia influenzi più di altri soggetti le idee politiche degli
adolescenti residenti al Nord-Ovest (38,6%), al Nord-Est (44,2%)
e al Centro (44,4%), mentre rispetto a questo argomento gli
adolescenti del Sud e delle Isole ritengono di subire
soprattutto l’influenza della tv (rispettivamente nel 45,2% e
nel 40,7% dei casi). Va evidenziato, inoltre, come la
televisione sia indicata quale elemento che ha influito sulle
proprie opinioni politiche anche dal 25,7% degli adolescenti
residenti al Nord-Est, dal 30,8% dei ragazzi del Centro e dal
32,2% di quelli residenti al Nord-Ovest. Il suo peso sul modo di
pensare degli adolescenti rispetto ad altri argomenti è
decisamente più contenuto, soprattutto in relazione ai rapporti
con l’altro sesso e agli interessi culturali. È possibile
evidenziare, tuttavia, come rispetto alle scelte di
abbigliamento l’influenza della televisione sia avvertita
prevalentemente dai ragazzi residenti al Sud (23,3%, contro il
12,6% dei ragazzi residenti al Nord-Ovest). In relazione al
credo religioso, gli adolescenti del Centro e del Nord-Est si
sentono influenzati soprattutto dalla famiglia (rispettivamente
nel 42,5% e nel 45% dei casi); diversamente, rispetto a questo
argomento subiscono maggiormente l’influenza di parroci e
catechisti sia gli adolescenti residenti al Nord-Ovest (45,3%)
che i ragazzi residenti al Sud (56,9%) e nelle Isole (55,9%). In
merito ai rapporti con l’altro sesso e al modo di vestire il
gruppo dei pari vanta un’influenza incontrastata sugli
adolescenti di tutte le aree geografiche. In particolare, la
percentuale di intervistati che ha riconosciuto l’influenza
degli amici sui propri gusti di abbigliamento, pari al 44,5% tra
i ragazzi delle Isole, raggiunge il 64,3% tra gli adolescenti
residenti al Nord-Est; rispetto alle relazioni con l’altro
sesso, riconosce l’influenza degli amici una percentuale
variabile di intervistati compresa tra il 61,9 (Isole) ed il
72,5% (Nord-Est).
In relazione agli interessi culturali, sono gli insegnanti ad
avere un’influenza maggiore sugli adolescenti di tutte le aree
geografiche. La percentuale di quanti riconoscono questo ruolo
ai docenti varia dal 50% (adolescenti delle Isole) al 60% (Sud).
Da evidenziare, inoltre, come tra i ragazzi residenti al Centro
ben il 9,2% affermi di essere stato influenzato dai docenti in
merito al credo religioso.
Comportamenti illegali e/o immorali. Con il quesito
successivo gli adolescenti intervistati sono stati chiamati a
valutare la gravità di alcuni comportamenti e di una serie di
atti illegali o immorali.
Gli adolescenti condannano con forza soprattutto il
maltrattamento degli animali, giudicato molto (68,3%) o
abbastanza (17,2%) grave dall’85,5% del campione. Al centro dei
valori adolescenziali vi è anche l’onestà nei confronti del
proprio ragazzo (o della propria ragazza) e degli amici. È
infatti possibile osservare che oltre il 78% degli intervistati
giudica molto (52,9%) o abbastanza (25,2%) grave tradire il
proprio ragazzo/a, e come oltre il 72% fornisca una valutazione
molto (48%) o abbastanza (24,2%) severa rispetto al corteggiare
il/la partner di un amico/a. La maggioranza degli adolescenti
mostra di essere consapevole della pericolosità di andare sul
motorino senza casco: il 69,4% ritiene questo comportamento
molto (41,9%) o abbastanza (27,5%) grave, sebbene il 12,4% lo
giudichi, al contrario, di nessuna gravità.
Anche per quanto riguarda le bugie e il ricorso alle
raccomandazioni per trovare lavoro la percentuale di adolescenti
molto o abbastanza critici nei confronti di questi comportamenti
è maggioritaria, pari, rispettivamente, al 64,2% e al 52,8%; le
risposte si concentrano tuttavia nelle modalità più moderate. In
particolare, “mentire” è un’azione che viene giudicata
“abbastanza” grave dal 41,5% del campione e “molto” grave dal
22,7%; il servirsi di raccomandazioni per trovare lavoro è
valutato abbastanza grave dal 27,2% e molto grave dal 25,6%.
Sul resto delle azioni l’atteggiamento degli adolescenti è
invece molto più morbido. Ad avviso del 65,6% del campione è
poco (34,5%) o per niente grave (31,1%) copiare un compito in
classe; per il 60,6% è di scarsa (35,2%) o nessuna gravità
(25,4%) fingersi malati per non andare a scuola. È maggioritaria
(pari al 56,7% del campione) anche la quota percentuale di
adolescenti che ritiene poco (28,8%) o per niente grave (27,9%)
andare in due sul motorino.
È tuttavia sulla pirateria che vige tra gli adolescenti la
massima indulgenza (quando non l’approvazione). Ben il 72,6%
ritiene poco o per nulla grave l’acquisto di cd/videogiochi/film
pirata; oltre il 44% ritiene che si tratti di un comportamento
del tutto legittimo. Allo stesso modo, l’83,2% ritiene di scarsa
o nessuna gravità scaricare musica da Internet; in particolare,
sfiora il 60% la quota di quanti non ravvisano alcun problema in
questo comportamento.
Lo scorporo dei dati per sesso consente di evidenziare una
maggiore severità da parte delle ragazze rispetto alla quasi
totalità dei comportamenti sottoposti a giudizio. Fatta
eccezione per lo scaricare musica da Internet, considerato un
comportamento poco o per niente grave dall’80,6% dei ragazzi e
dall’86% delle ragazze, queste tendono a esprimere giudizi più
negativi nella valutazione di alcuni comportamenti e atti
illegali/immorali.
Si è già avuto modo di osservare come il maltrattamento degli
animali raccolga una condanna quasi unanime da parte degli
adolescenti e sia considerato il comportamento più riprovevole
tra quelli elencati; la percentuale di quanti lo giudicano molto
o abbastanza grave, pari al 78,8% tra i ragazzi, raggiunge il
92,4% tra le loro coetanee. Tra queste, inoltre, appena il 2,7%
ritiene il maltrattamento degli animali di alcuna gravità,
contro l’8,9% dei ragazzi. Allo stesso modo, la quota
percentuale di ragazze che considerano molto o abbastanza grave
tradire il proprio ragazzo (87,2%) o corteggiare il partner di
un amico (80,5%) è sensibilmente più elevata rispetto a quella
rilevata tra i ragazzi (pari, rispettivamente, al 69,3% e al
64%), mentre è decisamente più contenuta la quota di quante
considerano tali comportamenti per niente gravi.
Lo stesso andamento è riscontrabile in relazione al mancato uso
del casco in motorino (abbastanza o molto grave per il 75,8%
delle ragazze ed il 62,4% dei ragazzi), al ricorso alle bugie
(72,1%, contro un dato maschile del 57%) e all’uso di
raccomandazioni per trovare lavoro (58,3%, contro il 47,3% dei
ragazzi). In tutti questi casi prevalgono, tuttavia, in entrambi
i sessi, i giudizi di disapprovazione nei confronti di questi
comportamenti. Rispetto agli altri comportamenti sottoposti a
giudizio, gli adolescenti di entrambi i sessi esprimono
prevalentemente una valutazione più morbida. La quota di quanti
danno un giudizio di scarsa o nessuna gravità è maggioritaria
sia tra i ragazzi che tra le ragazze, sebbene quest’ultime
mostrino di essere sempre più “severe”. Nello specifico, il
muoversi in due sul motorino è considerato poco o per niente
grave dal 59% dei ragazzi e dal 54,7% delle ragazze; fingersi
malati per non andare a scuola è considerato molto o abbastanza
grave da una quota minoritaria di adolescenti, sia tra i ragazzi
(34,7%) che tra le loro coetanee (37,2%), così come copiare un
compito in classe (rispettivamente 30,3% e 31,6%).
Infine, come osservato anche rispetto allo scaricare musica da
Internet, l’acquisto di cd, film e videogiochi pirata trova
negli adolescenti un consenso maggioritario, sia tra i maschi –
ben il 73,6% ritiene questo comportamento per niente (48,8%) o
poco grave ( 24,8%) – che, in misura lievemente inferiore,
(71,7%) tra le ragazze. La distribuzione dei dati in base
all’area geografica di riferimento consente di evidenziare la
presenza di una certa omogeneità di giudizio tra gli adolescenti
delle diverse regioni. Il maltrattamento degli animali è
considerato abbastanza o molto grave da una percentuale di
adolescenti variabile dal 90,3% (Nord-Est) al 75,4% (Isole).
Anche il mancato uso del casco in motorino, condannato dalla
stragrande maggioranza degli adolescenti di tutte le aree
geografiche, trova i più forti oppositori tra i ragazzi del
Nord-Est (che lo considerano un comportamento molto o abbastanza
grave nel 75,2% dei casi), mentre registra giudizi negativi meno
numerosi tra gli adolescenti delle Isole (57,2%).
Gli adolescenti residenti al Nord-Est mostrano una severità di
giudizio maggiore rispetto agli altri intervistati (e ai ragazzi
residenti nelle Isole in particolare) anche rispetto al tradire
il proprio ragazzo (molto o abbastanza grave per l’84,2%, contro
il 71,6% degli isolani), al corteggiare il partner di un amico
(76,7%, contro un dato isolano del 64,5%), e al ricorso alle
bugie (67,5%, contro il 52,6% delle Isole). Mentre rispetto a
questi comportamenti i giudizi di “condanna” sono maggioritari
tra gli adolescenti di tutta Italia, i ragazzi del Nord-Est sono
invece gli unici ad esprimere giudizi prevalentemente negativi
in merito al girare in due sul motorino (considerato molto o
abbastanza grave dal 50,2% degli intervistati residenti in
questa area geografica); tra gli altri intervistati, la quota di
quanti ritengono, al contrario, poco o per niente grave questo
comportamento varia dal 52,6% (Nord-Ovest) al 69,9% (Isole).
Diversamente, il ricorso alle raccomandazioni per trovare lavoro
è giudicato con maggiore severità dagli adolescenti residenti al
Sud (che lo ritengono molto o abbastanza grave nel 58,9% dei
casi), seguiti dai ragazzi delle Isole (53,4%), mentre è
maggiormente tollerato al Centro, dove i giudizi negativi
ammontano al 47,7%.
Nei confronti dei comportamenti che registrano tra la maggior
parte degli adolescenti di tutte le aree geografiche una
valutazione meno negativa, quando non di implicita approvazione,
è invece possibile evidenziare una minore severità di giudizio
tra i ragazzi del Centro-Nord rispetto a quelli del Sud e delle
Isole. In particolare, la percentuale di quanti ritengono poco o
per nulla grave copiare un compito in classe, pari al 71,2 % al
Nord-Est e di poco inferiore al 70% al Nord-Ovest e al Centro,
scende al 56,8% al Sud e al 55,9% nelle Isole; il fingersi
malati per non andare a scuola, ritenuto poco o per niente grave
dal 62,7% degli adolescenti del Nord-Ovest e da una percentuale
leggermente inferiore di ragazzi del Centro (61,9%) e del
Nord-Est (62,3%), è ritenuto tale dal 57,2% degli adolescenti
del Sud e dal 58,5% dei ragazzi isolani.
Lo stesso andamento si registra nei confronti dello scaricare
musica da Internet e dell’acquisto di cd, film o videogiochi
pirata. Questi comportamenti trovano l’approvazione della
stragrande maggioranza degli adolescenti in tutte le aree
geografiche (basti osservare l’alta percentuale di risposte
indicanti che si tratta di azioni “per niente gravi”), ma in
particolare al Centro-Nord. L’85,7% degli adolescenti residenti
al Nord-Est considera poco (21,7%) o per niente grave (64%)
scaricare musica da Internet, come l’85,6% dei ragazzi del
Nord-Ovest e l’84,4% di quelli residenti nelle regioni del
Centro; al Sud e nelle Isole tale percentuale scende,
rispettivamente, all’80,3% e al 74,6% e la quota di quanti
considerano per niente grave questo comportamento si attesta
intorno al 53%. Infine, è possibile osservare come l’acquisto di
materiale pirata sia ritenuto poco (26,3%) o per niente grave
(50,3%) dal 76,6% degli adolescenti residenti al Nord-Ovest e da
circa il 73% dei ragazzi del Nord-Est e del Centro, mentre al
Sud e nelle Isole questo comportamento sia giudicato tale
rispettivamente dal 70,7% e dal 69% degli adolescenti.
Diritto alla vita, diritto alla morte. L’ultima sezione
del questionario ha inteso sondare l’opinione degli adolescenti
in relazione ad alcuni diritti umani (come il diritto alla vita
e alla morte) e civili (come ad esempio il divorzio e la
riproduzione assistita) che spesso si trovano al centro del
dibattito pubblico e istituzionale. Tra gli item proposti, il
divorzio è l’unico a riscuotere un consenso maggioritario. La
maggior parte degli adolescenti (il 54,9%) si dichiara
favorevole al divorzio, a fronte del 34,6% che manifesta invece
la propria contrarietà. Il campione si spacca in relazione alla
fecondazione artificiale, ovvero alla possibilità per le coppie
sterili di ricorrere alle tecniche di fecondazione assistita per
avere un bambino: gli adolescenti contrari, pari al 43,4%, sono
leggermente più numerosi dei favorevoli (40,2%).
In relazione ai temi inerenti il diritto o meno di dare la morte
o impedire la vita, gli adolescenti non esprimono un giudizio
univoco. Se nei confronti dell’eutanasia i ragazzi favorevoli
costituiscono la maggioranza (41,2%, contro il 34,8% dei
contrari), rispetto ad aborto e pena di morte i giudizi negativi
sono più numerosi. In particolare, il 49% del campione afferma
di essere contrario all’aborto, a fronte di un 38% favorevole,
ed il 63,7% ribadisce il diritto alla vita contro la pena di
morte, auspicata invece dal 25% degli intervistati. Questi dati
suggeriscono che la possibilità da parte dell’uomo di decidere
della vita o della morte dei propri simili, trova il favore di
una parte degli adolescenti, soprattutto quando essa è
finalizzata ad impedire il protrarsi di una sofferenza e un
dolore inguaribili (eutanasia), ottiene un consenso minore
qualora comporti il mancato sviluppo di un nuova vita (aborto),
e sia prevalentemente osteggiata nei casi in cui sia finalizzata
ad interrompere e spezzare una vita per ragioni estranee alla
presenza di malattie terminali.
Va evidenziato, infine, come di fronte a temi di tale portata la
percentuale di adolescenti che non hanno saputo esprimere un
giudizio al riguardo sia piuttosto elevata, soprattutto in
relazione all’eutanasia (24%).
In relazione al sesso degli intervistati, è possibile osservare
come la percentuale di adolescenti favorevoli all’istituto del
divorzio, maggioritaria tra entrambi i sessi, sia più elevata
tra le ragazze, tra cui sfiora il 60% (a fronte di un dato
maschile del 50,1%). Rispetto alla fecondazione artificiale il
giudizio prevalente è di contrarietà tra i ragazzi (48,4%, a
fronte di un 35,5% favorevole) e di approvazione tra le ragazze
(44,8%, contro il 38,4%). Nei confronti dell’eutanasia gli
adolescenti che si dichiarano favorevoli si attesta intorno al
41% sia tra i ragazzi che tra le ragazze. I contrari sono invece
leggermente più numerosi tra i maschi (35,7%, contro un dato
femminile del 34,1%). Dichiara invece la propria contrarietà
all’aborto una quota percentuale di intervistati maggioritaria
sia tra i ragazzi (47,6%, contro un 38,4% di favorevoli) che,
soprattutto, tra le loro coetanee (50,5%, contro il 37,6% di
favorevoli). Il giudizio delle ragazze rispetto ai temi
sottoposti a valutazione sembra essere più netto, sia qualora
esprimano il proprio favore, che nei casi in cui manifestano la
propria contrarietà. Lo confermano anche i dati relativi alla
pena di morte: sebbene la quota percentuale di adolescenti
contrari a questo istituto sia maggioritaria in entrambi i
sessi, essa è sensibilmente più elevata tra le ragazze: 70,2%, a
fronte di un dato maschile del 57,2%.
Dallo scorporo dei dati per area geografica di residenza, emerge
immediatamente come soltanto rispetto alla pena di morte il
giudizio degli adolescenti sia omogeneo lungo tutto lo stivale.
La percentuale di contrari a questo istituto è infatti
nettamente maggioritaria sia al Nord-Est (60,4%) e al Nord-Ovest
(57%), che al Centro (65,5%) e, soprattutto, al Sud (69,3%) e
nelle Isole (68,6%). Tra questi ultimi appena il 14,1% esprime
al contrario il proprio favore alla pena di morte contro il
31,6% degli adolescenti residenti al Nord-Est. In relazione agli
altri temi sottoposti a valutazione, il giudizio degli
adolescenti sembra spaccarsi in due: al Sud e nelle Isole la
maggior parte dei ragazzi si dichiara contrario sia al divorzio
e alla fecondazione artificiale che all’eutanasia e all’aborto;
al Centro-Nord, al contrario, i giudizi favorevoli sono
maggioritari.
Nello specifico, è possibile osservare come gli adolescenti
favorevoli all’istituto del divorzio superano il 61% al Centro e
al Nord-Ovest e raggiungano il 63,2% al Nord-Est, mentre
costituiscano il 42,7% al Sud (contro il 46% di contrari) e il
34,3% nelle Isole (a fronte di un 53,8% di contrari). Rispetto
all’eutanasia esprime il proprio favore il 53,1% degli
adolescenti residenti al Nord-Ovest e il 51,1% di quelli
residenti al Nord-Est. Anche al Centro, dove tale percentuale
scende al 43,6%, i contrari costituiscono comunque una minoranza
(31,5%). Al Sud e nelle Isole, diversamente, la maggior parte
degli adolescenti si dichiara contrario all’eutanasia
(rispettivamente il 50,6% e il 44,5%). Per quanto concerne
l’aborto, mentre i ragazzi del Sud e delle Isole esprimono un
rifiuto netto nei confronti di questo istituto (si dichiarano
contrari rispettivamente nel 64,2% e nel 60,2% dei casi), tra
gli adolescenti del Centro-Nord la quota percentuale di
favorevoli (pari al 44,9% al Centro e al Nord-Est e al 47,5% al
Nord-Ovest), pur maggioritaria, è poco più elevata rispetto a
quella dei contrari (compresa tra il 40,2% del Nord-Ovest ed il
42,1% del Nord-Est). Anche per quanto riguarda, infine, la
possibilità per le coppie sterili di ricorrere alla fecondazione
assistita, è possibile osservare come gli adolescenti del Sud e
delle Isole mostrino prevalentemente la propria contrarietà: la
percentuale di contrari è pari al 54% tra gli intervistati
residenti al Sud (a fronte di un 30% di favorevoli) e al 44,1%
tra i ragazzi residenti nelle Isole (contro il 31,8% di
favorevoli). In relazione al Centro-Nord, la maggior parte degli
adolescenti si dichiara favorevole alla fecondazione
artificiale: al Nord-Ovest esprime il proprio consenso il 43,6%
degli adolescenti (a fronte di un corposo 40,4% che dichiara
invece la propria contrarietà), percentuale che sale al 45,4%
tra i ragazzi del Centro (39,5% la quota di contrari) e al 46,7%
tra quelli residenti al Nord-Est (contro il 37,4% di quanti
esprimono il giudizio opposto).
La consulenza on line per l’infanzia e l’adolescenza: aspetti
problematici
e opportunità per lo sviluppo di nuovi
canali di ascolto
Dalla consulenza telefonica alla
consulenza on line. L’introduzione della consulenza on-line
richiede un’attenta analisi sia dei processi di comunicazione,
in particolare delle modalità di costruzione della relazione di
aiuto sul setting virtuale, sia una riflessione sulle competenze
professionali di consulenti, generalmente psicologi, abituati a
fornire il loro aiuto attraverso la relazione faccia a faccia o
attraverso le linee telefoniche. Da una recente ricerca
americana tra gli operatori della salute mentale risulta che
circa il 60% di loro prova una forte frustrazione e una profonda
resistenza a utilizzare le nuove tecnologie per la consulenza.
Ciò implica l’esigenza di un processo progressivo e lento
nell’introduzione della consulenza on line, un coinvolgimento
diffuso per l’innovazione, un maggiore supporto tecnico
nell’utilizzo iniziale dei nuovi sistemi informatici, al fine di
ridurre l’ansietà provata da operatori non abituati a questi
nuovi sistemi.
Analisi dei fattori che facilitano lo sviluppo della
consulenza on line in un call center per l’infanzia e
l’adolescenza. La ricerca condotta da Telefono Azzurro
analizza le principali resistenze professionali e le difficoltà
organizzative nello sviluppo della consulenza on line in quei
contesti professionali in cui la consulenza a bambini e
adolescenti è offerta attraverso i canali tradizionali (faccia a
faccia o telefonicamente).
Sono stati intervistati operatori telefonici di diversa
esperienza del Call Center di Telefono Azzurro con l’obiettivo
di rilevare: la percezione e la consapevolezza degli operatori
telefonici relativa alle potenzialità offerte dalla consulenza
on line; la percezione di possibili difficoltà nella costruzione
della relazione di aiuto attraverso la consulenza on line; le
aree critiche su cui progettare le attività formative al fine di
preparare professionalmente i consulenti alla gestione di una
relazione di aiuto on line.
Dai dati emersi dalla ricerca risulta che più del 63% degli
operatori telefonici intervistati sulla specificità della
consulenza telefonica dichiara di essere da moderatamente
a completamente d’accordo nel considerare il
“riconoscimento dell’identità” del chiamante un elemento
determinante per la costruzione della relazione di aiuto.
L’impossibilità di adottare lo stesso modello relazionale della
consulenza telefonica per il Web ha spinto Telefono Azzurro ad
approfondire le modalità di gestione delle relazioni virtuali e
a promuovere un progetto di lavoro sullo sviluppo di competenze
specifiche dei propri operatori.
Solo il 2,7% dei 73 operatori telefonici è abituato a utilizzare
con regolarità la chat per motivi personali. È però positivo che
il 43,8 % degli stessi operatori usi Internet per comunicare.
Rispetto alle opportunità offerte dalla consulenza on line,
questa viene percepita dagli operatori come utile strumento per
potere soddisfare l’enorme e crescente richiesta di contatti via
Internet da parte di adolescenti e bambini.
Gli altri fattori individuati sono pressoché tutti relativi alle
difficoltà proprie della consulenza on line.
D’altra parte, la perdita degli indicatori non verbali accresce
il rischio di non riuscire a comprendere correttamente ciò che
viene narrato, riducendo soprattutto la possibilità di
individuare casi simulati e verificare il grado di veridicità di
quanto viene riportato dal chiamante. Ciò può incidere
indirettamente sulla percezione di autoefficacia del consulente,
soprattutto in considerazione della grande abilità comunicativa
che hanno gli adolescenti nell’uso degli strumenti offerti dalle
nuove tecnologie.
Un altro aspetto importante è quindi attribuito dagli operatori
alla difficoltà di individuazione dell’identità del chiamante,
ritenuta indispensabile per l’efficacia della consulenza
telefonica. Questo aspetto assume un valore determinante tanto
da spingere circa il 79,5% degli operatori a ritenere che la
consulenza on line è poco utile per la gestione delle situazioni
di emergenza. Questo è un dato interessante poiché in pieno
contrasto con quanto registrato dalle helplines telefoniche che
da tempo adottano a livello internazionale la consulenza on
line. Un’altra area critica è relativa alla percezione di
inadeguatezza professionale nella gestione di casi on line. Il
71,2% degli operatori infatti ritiene da moderatamente a
completamente problematico l’uso della consulenza on line per
lavorare con bambini e adolescenti.
Il problema dell’introduzione della consulenza on line implica
diversi problemi. Tra questi vi è l’esigenza di affrontare
consapevolmente e con i tempi più adeguati il cambiamento
organizzativo determinato dall’utilizzo di nuovi strumenti
tecnologici. Questo sembra essere uno degli aspetti più
caratterizzanti le resistenze degli operatori nelle helplines
per l’infanzia e l’adolescenza. Ciò richiede una specifica
attenzione ai percorsi formativi finalizzati non solo a
condividere, o meglio a costruire, nuovi paradigmi comunicativi,
ma anche a ridurre il senso di ansietà e l’insicurezza provata
dai consulenti nell’affrontare un nuovo modello di
comunicazione. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, il
lavoro di ricerca svolto indica inoltre che vi sono problemi
anche relativamente alla possibilità di utilizzare gli usuali
indicatori non verbali per comprendere lo stato emotivo del
chiamante e soprattutto la sua identità. Circa l’89% degli
operatori dichiara di essere da moderatamente a completamente
d’accordo che per svolgere la consulenza on line è necessario
essere più cauti poiché non si è certi dell’identità del
chiamante. Inoltre circa il 24,3% dichiara di essere da
moderatamente a completamente d’accordo che la mancanza della
certezza dell’identità del chiamante nella modalità on line
rende difficile l’instaurarsi di una relazione d’aiuto.
Bambini e adolescenti:
i nuovi percorsi del tempo libero
I bambini: tempo gestito e tempo da
gestire. L’indagine svolta nel 2003 da Eurispes e Telefono
Azzurro si è proposta di fornire un quadro sintetico delle
attività che i bambini (i minori intervistati sono stati 5.076
di età compresa tra i 7 e gli 11 anni) svolgono nel loro tempo
libero. Ai bambini è stato chiesto di indicare le attività
svolte nel tempo libero e i motivi della scelta.Si tratta di
attività che appartengono all’ambito formativo, culturale o
sportivo. Ai primi posti c’è l’attività fisica, in particolare
giocare a calcio (50,7%), seguito dalla pallavolo (25,5%) e dal
nuoto (23%), insieme allo studio di una lingua straniera (26,5%)
e di uno strumento musicale (22,2%). Le attività svolte dai
bambini soddisfano il loro gusto personale e non sono vissute
come “imposte” dall’esterno: le motivazioni legate alle scelte
sono nella maggior parte dei casi da ricondurre alla propensione
dei bambini verso le attività stesse.
La soddisfazione maggiore si registra per la danza e lo studio
degli strumenti musicali; la ballerina e il musicista sono due
professioni che si ritrovano spesso nei sogni e nelle
aspettative dei bambini. Tuttavia, è possibile intravedere nelle
preferenze dei bambini anche un “progetto degli adulti”. In
relazione ad attività come lo studio di una lingua straniera, ad
esempio, il ruolo dei genitori nell’organizzazione del tempo
libero dei bambini è un elemento da tenere in considerazione: il
15,5% dei bambini dichiara infatti di scegliere quest’attività
per far piacere agli adulti.
La noia. Solo un minore su 10 dichiara di ritrovarsi
spesso a non avere niente da fare, al resto dei coetanei
capita ogni tanto (67,1%) e al 20% di loro addirittura
mai. È come se si riproponesse anche nei bambini quella
scansione ritmica e frenetica del tempo propria degli adulti.
Anche per quanto riguarda la distinzione di genere non si
rilevano differenze sensibili, infatti sembrerebbe essere una
tendenza comune ai due sessi quella di non avere tempo “vuoto”.
Adolescenti e tempo libero: il loisir come percorso di
identità. Il tempo libero per i giovani va oltre l’accezione
tradizionale di tempo di evasione, di fuga dagli impegni
quotidiani, prospettandosi come un vero e proprio spazio di
identificazione sociale. Nonostante questo, quella ludica
prevale sulle altre dimensioni. La centralità di questa
dimensione peer to peer del loisir è ulteriormente confermata
anche dalla scelta dei luoghi in cui generalmente si decide di
trascorrere il tempo libero; oltre a bar, pub e pizzerie, la
propria casa o quella degli amici rappresenta un luogo di
ritrovo per il 39,8%. La preferenza della casa come luogo del
tempo libero indica la volontà di intessere relazioni,
sottolinea l’importanza del dialogo, oltre che del semplice
“stare insieme”. Probabilmente il tempo trascorso in casa è
caratterizzato dalla ricchezza degli scambi interpersonali
“faccia a faccia” che si coniuga in vario modo ai momenti di
fruizione collettiva dei media. L’informalità, la consuetudine
del luogo in cui i ragazzi si incontrano, rimarcano questa
dimensione familiare e quotidiana del contatto con i coetanei.
Allo spazio formale della scuola, dunque, si contrappone lo
spazio informale della casa.
Breve viaggio nei consumi outdoor. Gli adolescenti sono
un pubblico di spettatori cinematografici: la frequentazione
delle sale diventa lo stile di tempo libero connotante la
condizione giovanile. Su questo le differenze di genere sono
sensibili; mentre le giovani donne mostrano una spiccata
propensione verso la fruizione di tutti gli spettacoli dal vivo
di “qualità”, i loro coetanei confermano un orientamento molto
più ludico ed edonistico. Una consistente componente maschile
segue spettacoli sportivi dal vivo (60,7%), contro una
popolazione di ragazze che preferisce il teatro (31,6%), le
mostre e i musei (46,2%).
Le differenze di genere si fanno invece meno significative
(sebbene si continui a rilevare una lieve dominante femminile)
nei luoghi deputati all’incontro più che alla soddisfazione
delle proprie curiosità culturali: discoteche, cinema, concerti
di musica leggera. La musica, la “colonna sonora” della vita
degli adolescenti, costituisce un terreno di incontro importante
tra i due sessi.I consumi “elitari”, quali teatro (25,5%) e
concerti di musica classica (10,6%), siano ancora limitati a
ristrette nicchie di adolescenti, una tendenza certamente
attribuibile anche alla spesa che l’accesso a questo tipo di
spettacoli comporta.
Per un confronto tra vecchi e nuovi media. La televisione
continua ad essere “il” mezzo di comunicazione, tanto che la sua
popolarità tra gli adolescenti non risente della differenza di
genere, e rappresenta ancora oggi il mezzo più diffuso del
consumo indoor, non solo personale, ma anche familiare.
Il medium televisivo riunisce la famiglia in particolari momenti
della giornata e funge da rumore di fondo per tutte le attività
domestiche (96,9% per maschi e femmine).
Per quanto riguarda la radio, la ripresa dell’ascolto negli
ultimi anni rappresenta il segno di una vera e propria scelta
generazionale: la radio è il medium dei giovani in
movimento: essa rappresenta la colonna sonora dei ragazzi
che la usano sia in casa che fuori. Il vissuto dei ragazzi
trova, nel medium radiofonico, uno spazio di espressione cui si
fa continuo riferimento. Anche quando la Tv è spenta, la radio è
sicuramente accesa, contribuendo a creare un flusso musicale
continuo (ascoltano la radio l’82,1% dei maschi e l’88,9% delle
femmine).
Considerando ancora le differenze di genere, la tendenza dei
maschi a manifestare un bisogno di informazione (in particolare
la lettura di quotidiani, 55,9%) si accompagna ad una
propensione maggiore nei confronti del computer. Al contrario,
le ragazze sono proiettate verso media classici,
tradizionalmente rappresentati dal libro (64,2%).
La ricerca di tempo.La “ricerca di tempo” accomuna dunque
i bambini e gli adolescenti: se per i bambini esso rappresenta
la conquista dell’espressione del sé attraverso il gioco e la
fantasia, per gli adolescenti il my time è lo spazio
dell’auto-determinazione e delle relazioni sociali orizzontali.
Per i bambini è possibile individuare una “concordanza di
genere” che non si riscontra tra gli adolescenti. Mentre i più
piccoli hanno una comune percezione del tempo libero e della
noia, le adolescenti e i loro coetanei operano delle scelte
originali all’interno del percorso del loisir. Gli
orientamenti e i gusti degli adolescenti tracciano due ritratti
ben distinti delle ragazze e dei ragazzi. Anche il significato
dello spazio domestico è diverso per bambini e adolescenti.
Mentre la casa è il luogo in cui i più piccoli hanno maggiori
possibilità di scegliere le attività da svolgere, svincolati da
un controllo forte del mondo adulto, per gli adolescenti essa
rappresenta uno spazio di incontro con i coetanei, un luogo di
aggregazione forte. Nonostante queste differenze, la casa è “il”
luogo mediale tanto per i bambini quanto per gli adolescenti.
Il calcio italiano e i giovani: la fabbrica della speranza
Il calcio: sport sognato dai bambini. Nel 2002, quasi il
30% della popolazione ha dichiarato di praticare uno o più
sport; il 58,1% di quelli che si sono espressi in questo senso
rientra nelle fasce di età comprese tra i 3 e i 19 anni, mentre
il rimanente 41,9% si riferisce a persone di età compresa tra i
20 e i 65 anni e più.
Tra le fasce di età considerate, quella in cui maggiormente si è
concentrata la pratica sportiva, nel 2002, va dagli 11 ai 14
anni (64,8%), seguita da quella dei giovani di 15-17 anni
(62,4%) e infine da quella dei ragazzi di 6-10 anni (56,9%). Tra
gli undici e i diciassette anni, d’altra parte, alcuni aspetti
come la motivazione agonistica, i processi identificativi e il
bisogno di realizzare forme di appartenenza alternative alla
famiglia assumono un’importanza rilevante che sembra spiegare il
trend rilevato.
Confrontando la pratica sportiva giovanile relativa al 1995 con
quella del 2002 si evidenzia un generale incremento. Nella
fascia di età compresa tra i 6 e i 10 anni l’aumento è del 5,2%,
per i ragazzi tra i 15 e i 17 anni si attesta sul 10,4%, mentre
è del 2,7% nei giovani tra 18 e 19 anni.
Nel complesso, lo sport manifesta una buona “tenuta” rimanendo,
tra quelle organizzate e strutturate, una delle attività
preferite da ampie fasce di giovani. C’è da segnalare, inoltre,
che essi praticano lo sport in modo continuativo. A livello
assoluto il calcio rimane lo sport più praticato in Italia;
seguono la ginnastica e il nuoto. In particolare, calcio e
calcetto hanno conquistato in breve tempo i maschi con più di 6
anni; al contrario, le ragazze nella quasi totalità preferiscono
cimentarsi in altre discipline.
Il calcio giovanile in Italia. Nel 2004 il panorama
calcistico giovanile si presenta come un fenomeno di dimensioni
considerevoli. La selezione, durissima, struttura e rende
funzionale il sistema piramidale che caratterizza il mondo del
calcio: da una base numericamente ricca si arriva, attraverso
percorsi a tappe non sempre prestabiliti, ad una élite
ristretta costituita da un piccolo numero di protagonisti,
all’interno della quale si configura una ulteriore
gerarchizzazione che eleva il “fuoriclasse” a suo modello di
riferimento e di rappresentazione: il giovane sportivo diventa
“campioncino” piuttosto che “atleta”, con una volontà chiara di
denominare e di riferirsi a un esempio di calciatore ormai
adulto. Si tratta di un meccanismo complesso, fortemente basato
sulla necessità di creare aspettative, di alimentare una
speranza per la quale si è disposti ad investire ogni risorsa
disponibile. Una fabbrica di sogni indispensabile per garantire
lo “spettacolo (campionato) più bello del mondo”. Uno spettacolo
che è famoso e popolare ma soprattutto ricco, anzi ricchissimo.
La stragrande maggioranza delle società svolge attività in
quello che gli esperti chiamano l’“altro calcio”, ovvero nei
settori giovanili, scolastici e dilettantistici, quelli che
rappresentano la vera “fabbrica della speranza”. Emerge
chiaramente che il numero delle squadre del settore giovanile e
scolastico è in crescita, mentre quello delle squadre
dilettantistiche è in continua diminuzione.
Nella stagione 2002-2003, è soprattutto il settore dei pulcini a
mostrare un incremento nel numero delle squadre di calcio: la
domanda per la pratica di questo sport proviene soprattutto dai
più piccoli (per pulcini si intendono i giovani calciatori
aventi una età compresa fra gli 8 e i 10 anni).
In particolare, se si considera l’arco temporale che va dal 2000
al 2003, l’incremento delle squadre di calcio per il settore dei
pulcini è stato del 14,7%.
Il boom delle scuole di calcio è confermato dalle
iscrizioni effettuate dai piccoli aspiranti calciatori. Un po’
tutti i settori hanno registrato discreti incrementi, ma sono i
più giovani (Piccoli Amici e Pulcini) e soprattutto i tesserati
del settore allievi, ad avere avuto l’incremento più
consistente, pari al 120,8% nell’arco di tempo considerato.
Le Scuole calcio. Le scuole di calcio in Italia sono
moltissime e in continua crescita, tuttavia non tutte hanno gli
stessi obblighi e gli stessi doveri. Nella stagione calcistica
2002-2003, moltissime scuole si trovavano in attesa di
riconoscimento (5.033), altre non erano riconosciute (1.791),
tutte comunque operative; insieme a quelle riconosciute (2.791)
le scuole di calcio attive raggiungevano la consistente cifra di
9.615 con un incremento del 42,8% rispetto alla stagione
2000-2001.
Le scuole calcistiche riconosciute dalla Figc a loro volta si
dividono in: Specializzate, Riconosciute e Centri Calcistici di
Base; in particolare per le prime due categorie è obbligatoria
l’affiliazione alla Figc da almeno due anni ed è richiesto il
tesseramento di almeno tre tecnici qualificati iscritti all’Albo
del Settore Tecnico Figc. I Centri Calcistici di Base invece,
pur non possedendo questi requisiti, possono partecipare alle
attività ufficiali in almeno una delle categorie “piccoli
amici”, “pulcini” ed “esordienti”.
Moltissimi adolescenti, dunque, trovano sfogo alle loro passioni
calcistiche iscrivendosi a una scuola di calcio, ma chi
troveranno ad accoglierli?
La situazione dei tecnici appare piuttosto eterogenea e poco
coerente con le scelte formative adottate per qualificare il
settore tecnico. Infatti negli ultimi due anni si è visto un
incremento notevole di tecnici privi di formazione o abilitati
solo dai corsi del Coni, mentre il numero di professionisti che
dispongono di una laurea in scienze motorie, sebbene in aumento,
rimane inferiore rispetto a quello di quasi tutte le altre
categorie di allenatori. Ciò che emerge è un libero
associazionismo ben strutturato, che investe risorse economiche
nella speranza di creare, di accaparrarsi o di vendere un
campione. Una speranza che si concretizza in un contratto di
compravendita firmato, in un trasferimento accordato, in uno
scambio fruttuoso. Il mercato regola l’intero sistema economico
calcistico e non risparmia il settore giovanile.
Il bambino, in questa logica, diventa merce di scambio, per le
sue promettenti capacità che ne fanno un “campioncino”. Solo
quando si registrano episodi di cronaca sconcertanti, bambini
trasferiti da una città all’altra e poi abbandonati a se stessi,
costretti a vivere in ambienti inadatti, privi di controlli
efficaci da parte delle strutture federali competenti, allora si
può comprendere quanto possa essere difficile far emergere i
contorni di un fenomeno che rimane sostanzialmente inesplorato.
Così come inconprensibile resta l’atteggiamento dei genitori che
incoraggiano, spesso oltre il dovuto, i propri ragazzi a
intraprendere una carriera così difficile e avara di
prospettive. Entrare nel mondo del calcio non vuol dire solo
essere capace di giocare, ma anche acquisirne le regole, la
mentalità, il linguaggio. Significa essere tutt’uno con un mondo
che solo apparentemente opera a favore del gruppo: anzi, sempre
più spesso il gioco di squadra serve da complemento per far
emergere le doti individuali, per celebrare il campione. La
stessa selezione così dura assicura solo all’uno per mille la
possibilità teorica di accedere al professionismo.
Il calcio giovanile, rispetto ai miti che propone, si presenta
agli occhi dell’osservatore come una vera e propria fabbrica
della speranza, dove le possibilità dei giovanissimi
calciatori di approdare in serie A sono significativamente
ridotte.
Se per puro esercizio statistico rapportiamo i 726.145 baby
calciatori al numero di calciatori attualmente presenti in serie
A (577), otteniamo un quoziente di 1.258: per i piccoli
calciatori significa una possibilità teorica ogni 1.258
di far parte, in futuro, dell’organico di una squadra di A.
Possibilità teorica, anche perché attualmente i nostri
club si orientano sempre più verso i calciatori stranieri e
questo riduce ulteriormente le probabilità dei calciatori in
erba di operare il salto nella massima serie professionistica.
Una lotta costante, dunque, che impone fin dall’inizio sacrifici
e rinunce che solo più tardi, forse, presenteranno i loro reali
risultati. Vanno infine ricordati, gli effetti sociali provocati
dal distacco dalla famiglia per coloro che hanno lasciato la
loro città (spesso piccolo centro) per entrare nelle giovanili
di squadre importanti.
I fumetti
I personaggi dei fumetti più amati dai bambini sono Paperina
(21,1%) e l’Uomo ragno (20,6%), seguiti da Topolino (10,6%),
Paperino (7,4%), Superman (6,2%). A seguire, anche se meno
citati, le streghe protagoniste del fumetto Witch (3,2%), Tex
Willer (2,8%), Dylan Dog (2,1%), Julia (2,1%), Minnie (1,8%),
Charlie Brown (1,7%), Mafalda (1,4%).
Questo quanto emerge dalle risposte di un campione di 5.076
bambini italiani fra i 7 e gli 11 anni intervistati da Eurispes
e Telefono Azzurro nel 2003.
Per quanto riguarda poi il meccanismo di identificazione, il 36%
dei maschi afferma di voler somigliare all’Uomo ragno, la cui
popolarità è stata accentuata dal successo della trasposizione
cinematografica del fumetto; fra i bambini è estremamente comune
il desiderio di possedere superpoteri e di vivere avventure
eroiche e travolgenti, pur conservando sentimenti ed emozioni
molto umane. Molte preferenze maschili vanno anche all’ottimista
ed intelligente Topolino (13,2%), al buffo Paperino (11,4%,
forse più simpatico ma anche più sfortunato, per questo
probabilmente gli viene preferito Topolino), a Superman (10,8%);
seguono, con percentuali minori, Tex Willer (4,4%), Dylan Dog
(4,2%), Charlie Brown (2,6%), classici di grande fama ma forse
rivolti soprattutto ad un pubblico adolescente o adulto.
Le ragazze, invece, indicano come personaggio di riferimento
soprattutto Paperina (43%), vivace e simpatica dotata di forte
personalità; al secondo posto, curiosamente, si colloca invece
Topolino (7,7%), un personaggio maschile, seguito da una delle
più importanti novità di questi anni, le streghe di Witch
(6,6%), dall’Uomo ragno (4,3%), da Julia (4,1%) e da Minnie
(3,7%). Questi risultati indicano che risulta ancora forte sui
più giovani, soprattutto maschi, il fascino dei supereroi, e
sono sempre molto amati i personaggi simpatici ed imperfetti
della Disney.
I ragazzi e i fumetti. In un Paese come l’Italia in cui
si legge decisamente poco, i bambini rappresentano in molti casi
un target più vivace ed attento rispetto a quello adulto, anche
per la maggiore disponibilità di tempo libero. D’altra parte,
l’adolescenza segna spesso un allontanamento dalla lettura in
favore della vita sociale e degli affascinanti strumenti
tecnologici (videogiochi e Internet su tutti).
I fumetti costituiscono comunque per i bambini delle scuole
elementari (43,2% ) le riviste preferite da leggere, superando
di gran lunga quelle di musica (35,3%) e di sport (26,8). Ancora
più diffuso, fra i ragazzi delle scuole medie inferiori, l’amore
per i fumetti, ed ancora più netto il distacco tra la quota di
preferenze attribuite a questo genere e quelle attribuite a
tutte le altre riviste (65,1).
L’offerta per bambini ed i ragazzi è abbastanza varia. Per
quanto riguarda il mercato dei fumetti italiani il volume di
vendite si attesta su una quota di circa 3 milioni di copie al
mese. Le riviste Disney sono ancora oggi le più vendute nel
nostro Paese, come dimostrano le tirature della più famosa,
Topolino (315.316 copie). Ottime anche le vendite del fumetto
Witch (209.165 copie); seguono il Giornalino (75.873) e Paperino
(55.122). D’altra parte, facendo un raffronto annuo tra le
tirature nel 2003 e nel 2004 si trova in parte conferma del
difficile momento attraversato dal mercato fumettistico: quasi
tutte le testate hanno subìto una flessione, in alcuni casi
minima, in altri preoccupante (Bambi -20%, Paperinik -13,3%);
uniche eccezioni il Giornalino (+1,1%), ma soprattutto Witch
(+14,2%).
Supereroi, eroi “comuni” ed antieroi. Eroi come Tex
Willer, supereroi come Batman, antieroi come Paperino. I
protagonisti dei fumetti sono persone comunissime o
straordinarie e in alcuni casi entrambe le cose insieme.
Il target del fumetto superoistico è per le sue
caratteristiche principalmente adolescenziale, ma nel corso
degli anni, a fronte di una contrazione del mercato di questa
tipologia di fumetti, i prodotti rivolti ad un pubblico più
adulto hanno assorbito fette di mercato sempre maggiori.
In particolare a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta
la figura dell’eroe muta notevolmente. I protagonisti delle più
celebri storie d’avventura (fantascienza, horror, fantasy,
poliziesco ecc.) appaiono solo in parte come eroi e in ogni caso
non ne hanno l’atteggiamento.
Basti pensare ai più noti del gruppo: Topolino, pur onesto e
positivo, rappresenta una persona abbastanza comune; Paperino è
noto per il suo caratteraccio, è scansafatiche e
sfortunatissimo, eppure è amato proprio per la sua simpatia ed
umanità, perché non è un vincente ed ha i problemi delle persone
comuni; Paperon de’ Paperoni è scorbutico ed avarissimo, ma
anche pieno di grinta ed iniziativa. I protagonisti delle storie
Disney non sono quindi esempi di perfezione ed infallibilità, ma
buona parte del loro legame con i lettori deriva proprio dalla
loro grande vicinanza all’umanità comune e dall’empatia
suscitata dalle loro piccole disavventure quotidiane.
In una posizione intermedia e distinta si collocano i
protagonisti dei manga, tanto amati soprattutto dai più giovani.
Si tratta in molti casi di ragazzini eroici, talvolta dotati di
poteri eccezionali, generalmente accomunabili almeno per certi
aspetti agli adolescenti che leggono le loro storie.
“Giovani marmotte:” i boy scout in Italia
Il movimento scout rappresenta una realtà assai importante
nell’ambito dei movimenti giovanili e dei sistemi pedagogici.
Tuttavia, per quanto concerne l’Italia, l'analisi riportata di
seguito mette in luce lo stato di “crisi” che coinvolge lo
scoutismo italiano nel suo complesso: il calo degli iscritti,
dal 1996 al 2004, è innegabile.
I numeri dello scoutismo. L’Agesci raccoglie
complessivamente l’86% degli scout italiani. In Italia sono
presenti almeno 10 associazioni scout, ma solo le 3 analizzate (Agesci-Fse-Cngei)
rappresentano un numero significativo di iscritti; le altre, pur
ispirandosi ai principi basilari della proposta scout, nascono
spesso per iniziativa di singoli capi in disaccordo con le
associazioni principali o come esperienze locali.
È inutile negare che in Italia, negli ultimi anni, lo scoutismo
sta attraversando un periodo di crisi di cui sarebbe opportuno
analizzare le cause in profondità. Dal 1996 al 2004, il
complesso degli iscritti alle 3 Associazioni Scout è passato da
223.367 unità a 204.519, con un decremento percentuale
dell’8,4%.
Tra le 3 Associazioni, solo la Cngei ha fatto registrare, nello
stesso arco temporale, un aumento di iscritti del 2,3%. Il calo
più consistente è quello dell’Agesci, passata da 194.091
iscritti nel 1996 ai 175.601 del 2004.
Dal 1996 al 2000, l’Agesci ha vissuto i suoi anni più difficili,
subendo un calo del 6,9% nel numero di iscritti; nel successivo
quadriennio, invece, il decremento si è attestato sul -2,8% e la
tendenza negativa sembra meno marcata.
Tra le regioni che ospitano un maggior numero di iscritti all’Agesci,
spiccano il Veneto (22.953 unità), l’Emilia Romagna (20.452) e
la Sicilia (16.631).
Per quanto concerne il Cngei, le regioni con maggiore presenza
di iscritti (adulti + giovani) risultano essere la Lombardia
(2.000 unità), il Veneto (1.018) e il Lazio (953).
La Fse, a differenza degli altri due gruppi, dispone di dati
disaggregati per macroarea territoriale, da cui emerge una
maggiore quota percentuale di iscritti nelle regioni del Centro
(36,7%), rispetto a quelle del Nord (31,2%), del Sud (18,4%) e
delle Isole (13,6%).
Delle 3 Associazioni, l’Agesci è l’unica presente in tutte le
Regioni.
L’Agesci ha calcolato un indice di penetrazione dello scoutismo
rispetto alla popolazione giovanile delle singole regioni.
Dai dati, emerge che in alcune regioni il numero di ragazzi
scout supera il 5% della popolazione della stessa età. In
Emilia Romagna, ad esempio, quasi 6 bambini su 100, di età
compresa tra gli 8 e gli 11 anni, hanno vissuto un’esperienza
scout nell’Agesci. Se si analizza la fascia di età compresa tra
i 12 e i 16 anni, si rilevano valori elevati di penetrazione
(almeno 4 ragazzi su 100) in Emilia Romagna, Marche, Friuli e
Veneto. Per quanto concerne i giovani dai 17 ai 21 anni, in
Emilia Romagna, Liguria e Marche si registrano quasi due giovani
ogni 100 impegnati nelle attività dell’Agesci.
Branca L/C. La Branca Lupetti e Coccinelle si
rivolge ai bambini e alle bambine di età compresa tra gli 8 e
gli 11 anni.In Agesci, le unità di Branca L/C censite nel 2004
sono state 2.152. Il numero di bambini/e iscritti è di 55.921,
in calo rispetto al 1996 e al 2000, rispettivamente del -4,6% e
–2,7%. Il numero medio di ragazzi per unità è pari a 26.
Anche la Fse registra un decremento costante negli ultimi otto
anni (-9,2% rispetto al 1996 e -3,3% rispetto al 2000). La Cngei
ha invece fatto registrare un incremento del 5,3% rispetto al
1996 e un decremento consistente (-10,8%) negli ultimi quattro
anni.
Branca E/G. La Branca Esploratori - Guide si
rivolge a ragazzi di età compresa tra i 12 e i 16 anni. Nel
2004, le unità di Branca E/G censite in Agesci sono state 2.423,
in calo di 296 unità rispetto al 1996. Il totale di ragazzi
censiti è di 59.508 unità, in aumento rispetto all’anno
precedente (59.176), ma con un calo del 12,5% rispetto al 1996.
Il numero medio di ragazzi per unità è di 24,5.
Nella Fse, rispetto al 1996 si è verificato un decremento di
iscritti (-5,8%) ma un aumento rispetto al 2000 (+1,9%). Nel
Cngei il numero di censiti di età 12-16 anni è aumentato del
13,3% rispetto al 1996.
Branca R/S. La Branca Rover e Scolte si indirizza a
ragazzi di età compresa tra i 17 e i 21 anni. In Agesci, nel
2004 le unità di branca R/S sono state 1.855, in calo sia
rispetto all’anno precedente (1.861) che al 1996 (1.903). Il
dato è estremamente preoccupante in quanto il numero di ragazzi
censiti in otto anni è diminuito di 6.532 unità (18,5%). Il
numero medio di ragazzi per unità è 15 mentre nel 1996 era
superiore a 18. Nel Fse si è verificato un calo di iscritti
rispetto al 1996 (-6,4%) mentre tra il 2000 e il 2004 la
situazione è rimasta sostanzialmente stabile (+0,4%).
Nel Cngei si registra un aumento consistente (+14%) nel periodo
1996-2004 e un decremento di pari entità (-13,4%) tra il 2000 e
il 2004.
Capi Scout. Il numero di Capi, ovvero di adulti in
servizio associativo, censiti nel 2004 in Agesci è di 31.489. In
questo numero sono compresi anche gli Assistenti ecclesiastici.
Complessivamente il numero di adulti iscritti rispetto all’anno
di nascita dell’Agesci (1974) è aumentato del 280%.
Nel Fse i capi sono aumentati in 8 anni del 22,5% mentre nel
Cngei si è verificata una diminuzione del numero di adulti
censiti, diversamente da quanto è accaduto per i giovani
iscritti, sostanzialmente aumentati.
Analisi per sesso. La nascita dello scoutismo femminile si è
sin dall’inizio intrecciata con quello maschile. In Italia lo
scoutismo femminile ha avuto un inizio un po’ stentato, tanto
che nel 1974, anno della fusione tra la principale associazione
maschile e quella femminile, il rapporto era di una femmina ogni
tre maschi. L’Agesci, nasce 30 anni fà dall’unione
dell’associazione scout maschile (ASCI) e quella
femminile (AGI) con l’intenzione di far vivere a ragazzi e
ragazze esperienze condivise, sulla scia delle aperture sociali
introdotte nella Chiesa Cattolica dal Concilio Vaticano II.
In Agesci, complessivamente, è presente il 54,8% di iscritti
maschi e il 45,2% di femmine. In tutte le branche vi è una
prevalenza di ragazzi rispetto alle ragazze, accentuata per i
Capi (59,3% versus 40,7%), minore per la Branca R/S
(52,3% versus 47,7%). Dal 1996 ad oggi si è verificata
una perdita di iscritti complessiva tra i maschi dell’11% e tra
le femmine del 7,5%. L’Agesci dimostra di essere l’Associazione
scout dove l’equilibrio numerico tra i sessi è più
marcato, mentre le altre 2 associazioni mostrano una più
spiccata prevalenza della componente maschile. Nella Fse le
iscritte sono solo il 43,3% del totale dei censiti e, cosa
ancora più rilevante, tra i capi sono solo il 37%. Nel Cngei le
iscritte addirittura superano di poco il 40%, e tra i Lupetti e
nella branca R/S la componente femminile è inferiore al 38%.
La città a misura di bambino
Ambiente, bambini e sviluppo. La città odierna può essere
definita un insieme di sandbox, cioè di spazi recintati e
ristretti dove in pochi metri quadrati si esaurisce lo spazio
concesso al gioco e all’inventiva. La sicurezza che essa dà è
ottenuta artificialmente attraverso una netta separazione tra
interno ed esterno. Nonostante ciò il bambino, attraverso un
processo di trasformazione, riesce ancora ad appropriarsi degli
spazi urbani secondo le proprie esigenze. Egli dà loro una
dimensione simbolica e una funzione lontana da quella
originaria. I bambini sono esclusi dalla città, per essi
esistono spazi preposti e gli adulti li sottopongono ad una
sorveglianza continua. Ciò rende difficile ai bambini essere
coinvolti in giochi che implicano il rischio, compromettendo il
processo di apprendimento, che si verifica superando nuove
difficoltà. È evidente a tutti la mancanza di autonomia dei
bambini negli spostamenti, sia per recarsi a scuola, sia per
andare in bici o solo per giocare fuori casa. L’accompagnamento
e la sorveglianza degli adulti sono una costante nell’esperienza
del bambino, minacciato dai pericoli della strada e dalle
incognite della città. Tuttavia alcune ricerche dimostrano che
le limitazioni all’autonomia sono dovute più alle paure dei
genitori che non ad una reale incapacità dei bambini e che tali
paure sono molto influenzate dai media.
Gli studi di psicologia ambientale hanno dimostrato l’importanza
per i bambini di poter usufruire di aree naturali non
predefinite dai progetti degli adulti, di aree incompiute e
selvagge, in cui cioè è possibile: modificare il paesaggio,
appropriarsi degli spazi e usufruire dei luoghi del proprio
quartiere. Alcuni studi hanno documentato che la conoscenza
dell’ambiente acquisita direttamente attraverso l’esplorazione
si riflette nella rappresentazione, e quindi nella conoscenza,
che i bambini hanno dei luoghi. A questo proposito sono state
indagate le “mappe mentali” che bambini appartenenti a zone
residenziali molto diverse si formano dei luoghi che
frequentano. Ad esempio, i bambini provenienti da borgate con
carenza di verde e di servizi hanno rappresentazioni del
quartiere, ma anche dell’intera città, meno articolate. Essi
mettono in evidenza soprattutto le caratteristiche strutturali e
non gli aspetti sociali e distintivi della città.
La partecipazione dei bambini. La partecipazione dei
bambini alla pianificazione dei loro ambienti di vita ha
conosciuto una lenta evoluzione da trent’anni a questa parte.
La scala di partecipazione dei bambini prevede otto livelli: tre
gradi di non-partecipazione e cinque di partecipazione. Il primo
grado è quello della manipolazione, ed è ciò che accade
quando gli adulti “utilizzano” i bambini per problemi che
riguardano gli adulti stessi. In questo grado di
non-partecipazione i bambini non comprendono la finalità delle
loro azioni. Il secondo grado è la decorazione, che si
verifica quando gli adulti “utilizzano” i bambini per supportare
un’idea, senza che i bambini capiscano di cosa si tratta e senza
che essi svolgano un ruolo nell’organizzare l’iniziativa. Il
terzo grado è la partecipazione simbolica, che si
realizza quando i bambini sono chiamati a testimoniare in
incontri pubblici o seminari, senza ottenere reale ascolto e
senza avere l’opportunità di formulare le proprie opinioni (un
caso molto frequente nei paesi occidentali).
Modelli di partecipazione. Le forme più diffuse in Italia
di partecipazione dei bambini e dei ragazzi sono i Consigli
Comunali dei Ragazzi e la Progettazione Partecipata.
I Consigli comunali dei ragazzi. Per far sì che i bambini
possano esprimersi, è possibile istituire un Laboratorio e un
Consiglio dei Bambini che faccia da portavoce dei loro interessi
e bisogni presso l’Amministrazione comunale. Il Consiglio è
caratterizzato dalla presenza di venti o trenta bambini tra i
nove e gli undici anni appartenenti a scuole situate nell’area
di interesse. Il Consiglio si riunisce all’incirca una volta al
mese per discutere gli argomenti proposti dai bambini stessi
(traffico, parchi, spazi intorno alla scuola, autonomia, ecc…).
Gli adulti svolgono un ruolo di coordinamento degli incontri, di
facilitatori della comunicazione all’interno del gruppo; i
membri del Consiglio comunale e i tecnici esperti sono chiamati
a valutare le proposte dei bambini. Almeno una volta all’anno, i
membri del Consiglio dei Bambini prendono parte al Consiglio
comunale per rappresentare i propositi di tutti i bambini della
città.
La progettazione partecipata. Un’altra modalità di
coinvolgimento dei bambini consiste nella loro inclusione nei
processi di pianificazione di vari tipi di aree urbane.L’iniziativa
può essere attivata sia dagli amministratori, sia dalle
associazioni o dal mondo della scuola. Gli obiettivi, a loro
volta, possono essere di diversa natura: coinvolgere i bambini
nel modificare specifici aspetti del loro ambiente di vita;
facilitare la comunicazione tra adulti e bambini; condurre
significative attività di educazione ambientale. In virtù degli
obiettivi, cambia anche il tipo di coinvolgimento e il grado di
partecipazione richiesto ai bambini. Benché molti spazi urbani
possano essere pianificati con metodi di partecipazione, le aree
maggiormente interessate sono: i giardini delle scuole, gli
spazi di gioco, i parchi e le strade ciclabili o pedonali. Alla
fase di richiesta, segue la fase di conoscenza dell’ambiente,
con le sue caratteristiche percettive, naturalistiche, storiche
e sociali. Attraverso varie attività (ispezioni, interviste,
fotografie, libere osservazioni), i bambini acquisiscono
conoscenze sull’ambiente fisico e sociale del loro quartiere,
identificando problemi e risorse. Si passa poi all’elaborazione
del progetto. Si comincia con un’attività espressiva e/o ludica
che ha la funzione di motivare il gruppo. Per esempio, si chiede
ai bambini di disegnare i luoghi più amati e i più odiati,
oppure di disegnare la città del futuro. Si tenta di promuovere
un approccio emotivo allo spazio che superi il problema degli
stereotipi legati alla tecnica del disegno, avvalendosi per
questo dell’uso di strumenti come il collage di fotografie o le
planimetrie, i modelli tridimensionali, ecc. La continua
discussione dei progetti e la ripetizione di attività svolte in
piccoli gruppi saranno presupposti indispensabili per la
definitiva stesura del progetto. Il raccordo con collaboratori e
interlocutori è elemento fondamentale per la progettazione. I
giovani progettisti devono incontrare gli abitanti per conoscere
le loro opinioni, i professionisti per imparare i trucchi del
mestiere e i tecnici per valutare la fattibilità del progetto.
Anche nella fase di realizzazione del progetto i bambini devono
essere direttamente coinvolti insieme ad altri cittadini. Le
conoscenze personali e la disponibilità di artigiani locali sono
fondamentali per ridurre i costi della realizzazione. La
partecipazione in fase di realizzazione può svolgersi attraverso
feste popolari di costruzione, affidamento ai cittadini delle
aree ricostruite ecc. Ciò permette di sviluppare un legame
affettivo coi luoghi favorendo il senso di appartenenza. In
tutte le fasi della progettazione sono previsti momenti di
diffusione attraverso i mass media, anche oltre il quartiere e
la città.
Capitolo 4
La salute
Il problema “dolore” nel neonato e nel bambino
Il dolore può essere definito, operativamente, come “ciò che
il paziente dice che fa male” ed esiste “quando il
paziente dice che esiste”. I lattanti, i bambini in epoca
preverbale e i bambini dai 2 ai 7 anni possono essere incapaci
di descrivere il dolore che provano o la loro esperienza
soggettiva.
Tale incapacità, ha portato spesso alla conclusione che i
bambini non percepiscano il dolore allo stesso modo degli
adulti, anche se è ovvio che non è affatto necessario che un
bambino sia in grado di capire o descrivere il significato di
un’esperienza per viverla. La conoscenza del punto di vista dei
bambini sul dolore rappresenta una sfaccettatura importante del
trattamento antalgico in campo pediatrico, nonché un elemento
essenziale dello studio specialistico del dolore infantile.
Lo scopo della valutazione del dolore è quello di fornire dati
accurati sulla sua localizzazione ed intensità, così come
sull’efficacia delle terapie effettuate per ridurlo ovvero
eliminarlo. Anche in ambito pediatrico, nell’ottica di eliminare
il dolore, è importante identificare tutte le procedure
programmabili che possono essere eseguite applicando un preciso
protocollo antalgico, al fine di evitare, quando è possibile,
l’esperienza dolorosa.
Di importanza fondamentale risulta essere, da parte del bambino,
l’identificazione dell’intensità e della quantificazione del
dolore acuto, spontaneo ovvero post-intervento (procedura,
operazione chirurgica, ecc.) poiché questo aiuterà nella scelta
dei farmaci più appropriati. A tale fine possono essere
utilizzate diverse scale per la misurazione/valutazione del
dolore nelle diverse fasce di età.
La gestione del dolore nel bambino appare tuttora assolutamente
insufficiente per la presenza di vecchi pregiudizi che, per
quanto superati dalle conoscenze scientifiche, sono radicati
nella noncuranza.
“Il bambino, il neonato in particolare, ha scarsa capacità di
percepire il dolore e di riconoscerlo per la incompleta
mielinizzazione delle vie nervose” — Gli studi di
neurofisiologia hanno definitivamente dimostrato che il neonato
possiede tutte le competenze anatomo-funzionali necessarie per
percepire,condurre e decodificare lo stimolo doloroso.
Negli ultimi dieci anni è stata elaborata una teoria secondo la
quale nel neonato le vie di conduzione del dolore coinvolgono
strutture di segnalazione che non sono attive nel sistema
nervoso maturo; inoltre, esiste una ipereccitabilità dovuta al
ritardo nella maturazione dei sistemi inibitori, con risposte
esagerate, che incomincia a declinare dalla 30ª settimana EG. Si
ipotizza che tale fenomeno abbia un significato evolutivo in
quanto le sinapsi incomplete sono stimolate a svilupparsi da una
grande attività.
“L’ esperienza del dolore viene rapidamente dimenticata dal
bambino” — La plasticità cerebrale nel neonato e nel
bambino favorisce, al contrario, le variazioni sinaptiche
cellulari e molecolari richieste per la memorizzazione. Esistono
infatti suggestive dimostrazioni di laboratorio della capacità
del bambino di conservare la traccia dell'esperienza di dolore.
“Non si riesce a capire quando e se il bambino ha male” —
Mentre l’adulto utilizza moltissime parole per descrivere il
dolore, almeno 144 secondo una ricerca, il bambino spesso non ne
conosce alcuna, ma possiede altri linguaggi che ci parlano di
stress-dolore-discomfort che occorre saper riconoscere.
Nel neonato parlano di dolore i segnali comportamentali: le
alterazioni del ritmo sonno-veglia, le varie tonalità del
pianto, le risposte mimiche e motorie. Sempre nel neonato sono
importanti le risposte vegetative: aumentano la pressione
intracranica, la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca e
respiratoria, diminuisce la PaO2 e compare sudorazione palmare.
Anche il neonato pretermine ha un linguaggio della sofferenza
che si avvale di segnali che coinvolgono differenti funzioni.
Apnea, respiro irregolare, polipnea, cute grigia e marezzata,
crisi di cianosi, tremori e startles, singhiozzo e
sbadigli sono le risposte del sistema nervoso autonomo, mentre i
segnali comportamentali sono rappresentati da sonno continuo o
mancanza di sonno, iperattività, irritabilità, rapide variazioni
di comportamento, pianto inconsolabile. Dal punto di vista
motorio si possono osservare ipotonia, ipertono in
iperestensione o in flessione esagerata, frenesia motoria. Si
verificano inoltre modificazioni ormonali: aumenta la secrezione
di catecolamine, glucagone, cortisolo, GH, mentre diminuisce la
produzione di insulina.
Anche i bambini in età prescolare possiedono poche parole,
spesso molto rudimentali, per comunicarci che hanno male, ma
esibiscono molti comportamenti significativi: disturbi del
sonno, iperattività, agitazione psicomotoria, distraibilità,
scarso interesse, inibizione motoria, tristezza, inappetenza,
riduzione dell’attività ludica, difficile consolabilità e scarsa
verbalizzazione.
“I bambini possono diventare dipendenti dagli oppioidi” —
Per dipendenza si intende il bisogno di utilizzare il farmaco
per i suoi effetti psichici, il che ne comporta una ricerca
attiva e compulsiva; la dipendenza psichica non deve essere
confusa con la dipendenza fisica che consegue alla persistenza
del sintomo doloroso. Il fenomeno della dipendenza psichica da
oppioidi è scarsamente descritto nella letteratura pediatrica.
Per quanto riguarda la somministrazione acuta è stato descritto
che solo 4 soggetti su 11.882 (0,0009%), adulti e bambini, sono
diventati dipendenti, mentre per quanto riguarda la
somministrazione continua è stato descritto che la sospensione
può provocare, dopo una sola settimana di trattamento, una
sindrome di astinenza che, peraltro, può essere controllata
somministrando dosi scalari di farmaco. La tolleranza è al
contrario un fenomeno abbastanza frequente: occorrono quantità
sempre maggiori di farmaco per controllare il dolore.
Normalmente si manifesta dopo una o due settimane di terapia,
sebbene siano stati notati fenomeni di tolleranza anche dopo
poche ore dalla somministrazione di dosi-bolo. La tolleranza si
manifesta meno facilmente se la somministrazione avviene in modo
intermittente.
“I farmaci analgesi hanno effetti collaterali pericolosi” —
I farmaci antidolorifici utilizzabili in età pediatrica
appartengono essenzialmente a tre categorie: gli
antiinfiammatori non steroidei (FANS), gli oppiacei e gli
antidepressivi triciclici.
FANS costituiscono una categoria di farmaci eterogenea che
condividono il meccanismo d’azione (inibizione della
ciclossigenasi), l’effetto antipiretico e analgesico e gli
effetti collaterali. Tra gli effetti collaterali i più temibili
sono: l’allergia, l’irritazione a carico dell’apparato
gastrointestinale e l’inibizione dell’aggregazione piastrinica.
Gli antidepressivi triciclici sono impiegati soprattutto nel
dolore cronico e nel dolore associato a neuropatia, agiscono
migliorando la qualità del sonno e le capacità nella vita di
relazione; normalmente vengono utilizzati come coadiuvanti. Gli
effetti collaterali sono sostanzialmente sintomi di tipo
anticolinergico: secchezza delle fauci, tachicardia, ritenzione
urinaria e alterazioni della visione.
I farmaci i cui effetti collaterali sono più temuti sono gli
oppiacei. Tale categoria è costituita da sostanze
analgesico-narcotiche derivate dall’oppio che si legano a
recettori specifici situati nel sistema nervoso centrale. Tra
questi, inoltre, sono comprese tutte quelle molecole di sintesi
che hanno un effetto morfinosimile.
La salute del bambino immigrato: realtà e problemi
Nascere stranieri. All’inizio del terzo millennio, la
presenza sul nostro territorio di quasi 400.000 bambini e
adolescenti stranieri di varia provenienza costituisce un fatto
di non secondaria importanza, e richiede l’attenzione e
l’impegno di tutti gli operatori che si dedicano all’infanzia.
Negli ultimi dieci anni si è registrato un progressivo
incremento delle nascite di bambini con genitori stranieri.
Erano 7.000 nel 1993, 8.028 nel 1994, 9.061 nel 1995 e 10.820
nel 1996; il loro numero è quindi aumentato con un ritmo più
accelerato diventando 13.569 nel 1997, 16.901 nel 1998 e 21.186
nel 1999. Questo trend di crescita dei nati in Italia si è
mantenuto nel 2000 con quasi 26.000 nascite di bambini con
entrambi i genitori immigrati. Nei Punti nascita del Centro e
del Nord Italia, il 10-20% dei nati ha uno o entrambi i genitori
stranieri, negli ospedali delle maggiori città vengono segnalate
percentuali ancora superiori, mentre nelle regioni meridionali i
neonati figli di immigrati rappresentano in media il 5%.
Una ricerca ha studiato nel 1999 lo stato di salute di quasi
15.000 neonati di diversa etnia (6.700 italiani e 8.000
stranieri). I genitori stranieri dei neonati provenivano da: Est
Europa (17%); paesi arabi (31%); Africa nera (11%); Asia (21%);
America Latina (13%) e Gruppi nomadi (6%). Lo studio ha
valutato: parità, modalità di parto, età gestazionale, peso e
stato di salute dei neonati nelle diverse minoranze etniche
rispetto alla popolazione italiana.
Si è osservato in particolare che la parità materna è maggiore
nella popolazione nomade (il 60,7% dei neonati aveva 2 o più
fratelli); inoltre, oltre il 30% dei bambini africani (Africa
Nera) e americani è nato mediante parto cesareo, mentre per
tutte le altre popolazioni la percentuale di parto operativo è
più bassa rispetto al gruppo di controllo (25%) soprattutto tra
i nomadi.
Tra gli immigrati sono state sempre rilevate maggiori
percentuali di parti pre-termine e di bambini che alla nascita
presentano basso peso e problemi di asfissia rispetto a quelli
italiani. In particolare, rispetto all’età gestazionale <
alle 32 settimane spiccano i valori dell’Est Europa (3,3%),
dell’America (3,1%) e delle popolazioni nomadi (2,9%), mentre
nel gruppo di controllo italiano si rileva l’1,5%.
Rispetto al peso neonatale basso (< a 2.500 gr.)
emergono, tra tutte, le percentuali relative al sub continente
indiano (15%) e ancora una volta quelle dei nomadi (14,2%)
rispetto al 6,7% del gruppo di controllo.
I bambini stranieri in ospedale. Ricerche recenti hanno
studiato gli accessi al Pronto Soccorso dei bambini di origine
straniera (immigrati o nati in Italia da genitori provenienti da
Paesi in via di sviluppo) in diversi ospedali italiani. È emerso
che su un totale di 87.713 visite effettuate in Pronto Soccorso
(PS) nell’anno 2000, il 4,7% riguardava bambini stranieri.
L’area geografica di origine dei bambini stranieri visitati era
rappresentata da: Nord Africa nel 40% dei casi, Africa
Sub-Sahariana nel 12%, America Latina nell’8%, Asia nel 20%,
Europa dell’Est nel 16%, mentre il 4% dei bambini apparteneva a
Gruppi nomadi. In un caso su tre, l’accesso al PS per visita
urgente è avvenuto nelle ore notturne (fra le 20 e le 8). In
metà dei bambini stranieri visitati al PS sono state
diagnosticate malattie a carico dell’apparato respiratorio, nel
14% problemi gastroenterici, nel 12% malattie infettive
sistemiche mentre nel 9% dei casi si erano verificati eventi
accidentali.
In una ricerca condotta presso 15 Centri Pediatrici di diverse
regioni italiane, sono stati raccolti i dati relativi ai
ricoveri di bambini stranieri e di altrettanti bambini italiani
di controllo. Nel 1999, su un totale di 19.368 bambini
ricoverati, 1.004 (5%) erano immigrati o avevano i genitori
provenienti da Paesi in via di sviluppo: 365 dal Nord Africa, 81
dal restante continente africano, 262 dall’Est Europeo, 203
dall’Asia, 58 dall’America Latina, uno solo dall’Oceania mentre
gli altri 41 bambini appartenevano a Gruppi nomadi. I bambini
stranieri ricoverati non presentavano differenze significative
rispetto agli italiani per quanto riguardava sesso, età o
diagnosi di dimissione. In entrambi i gruppi, la maggioranza dei
casi aveva età compresa fra 1 e 5 anni; il 33% dei bambini
immigrati ricoverati ed il 26% dei controlli (gli italiani)
avevano meno di un anno. Le patologie che hanno determinato il
ricovero riguardavano nella maggior parte dei casi l’apparato
respiratorio e gastroenterico. La durata media della degenza
ospedaliera è stata di 5 giorni nei bambini stranieri e di 4
giorni nei controlli. Viene segnalata una maggior durata della
degenza in caso di bambini Rom, a volte ricoverati per motivi
“sociali”.
In altre recenti indagini multicentriche italiane è stata
studiata la prevalenza delle malattie endocrino-metaboliche e di
alcune malattie infettive nei bambini italiani e di origine
straniera. Da uno studio effettuato nel 2001 su 14.880 bambini
seguiti in 18 Centri di endocrinologia pediatrica, è emerso che
quelli di origine straniera erano circa il 2%. Analizzando le
diverse malattie si è osservato che fra i bambini stranieri
l’incidenza di pubertà precoce e sindrome adrenogenitale era
alta, mentre la prevalenza di bassa statura, obesità e diabete
tipo 1 mostrava valori inferiori rispetto a quelli attesi.
Da un’indagine clinico-epidemiologica sulle intolleranze e sulle
allergie alimentari nei bambini stranieri presenti in Italia,
effettuata nell’anno 2002, su una casistica di 3.420 bambini con
intolleranze ed allergie alimentari seguiti in 13 Centri
distribuiti in maniera uniforme nel territorio nazionale, è
emerso che tra i minori immigrati la prevalenza di intolleranza
ed allergie alimentari è simile a quella dei bambini italiani.
Per quanto riguarda le malattie infettive, una ricerca
effettuata nel 2001 su oltre 51.000 bambini, sia italiani sia di
origine straniera, ricoverati in 24 Centri pediatrici, ha
registrato tutte le diagnosi di Tbc, epatiti virali, Hiv, lue,
malaria e altre parassitosi. I bambini recentemente immigrati,
in particolar modo quelli adottati all’estero o di ritorno da un
viaggio, possono essere affetti dalle cosiddette “malattie da
importazione” e richiedono maggiore attenzione sotto il profilo
diagnostico. La tubercolosi costituisce una delle malattie a
maggior rilevanza sociale e ad alta endemia in tutti i paesi
poveri del mondo; ha una possibile evoluzione in forme
secondarie in seguito a un peggioramento delle condizioni di
vita, di stress fisico e psicologico, quali si possono
determinare nel periodo immediatamente successivo
all’immigrazione. Gli adulti più che i bambini, i genitori più
che i piccoli pazienti immigrati, possono costituire una
potenziale fonte di diffusione dell’infezione tubercolare.
Quindi l’attenzione del medico, la prevenzione e la diagnosi
precoce si devono estendere all’intero nucleo familiare.
In considerazione di tutti questi studi, emerge l’evidenza che
non vi sono differenze significative per quanto riguarda lo
stato di salute generale dei bambini stranieri rispetto a quelli
italiani, sia per quanto riguarda gli accessi al Pronto Soccorso
sia per i ricoveri in ospedale.
Il disagio e le difficoltà di inserimento sociale per il bambino
straniero e la sua famiglia diventano ancora più seri in
situazioni di bisogno, quali lo stato di malattia o il ricovero
in ospedale. In questi casi, all’angoscia per la malattia si
somma inevitabilmente una più o meno grave difficoltà di
comunicazione che si aggiunge alle abituali difficoltà insite
nel rapporto fra operatore sanitario, piccolo paziente e
genitori.
In questo contesto, la presenza di mediatori interculturali,
anche nell’ambito delle strutture sanitarie, renderebbe più
facile l’approccio ai servizi ospedalieri da parte degli
stranieri. Inoltre, la presenza di persone in grado di
facilitare i rapporti fra medico e famiglia, permetterebbe di
superare eventuali difficoltà di comprensione: per il pediatra
sui dati clinici del paziente (anamnesi e sintomi riferiti) e
per la famiglia sulla diagnosi, le indicazioni terapeutiche e
gli elementi prognostici (argomenti spesso di non facile
comprensione anche per le famiglie non straniere).
Dalle depressioni “generali” ai disturbi depressivi
nell’infanzia:
quale realtà clinica?
Depressioni o depressione? La
depressione propriamente detta è, invece, una condizione
patologica, a cui andrebbero incontro, nel corso della loro
esistenza, tra il 5% e il 15% degli esseri umani.
In Italia soffrono di depressione, nelle sue varie forme lievi e
gravi, 3 milioni e 700mila donne e 1 milione e 800mila uomini,
con un rapporto di 2 a 1. Con o senza ansietà la depressione
costituisce la quota più consistente della sofferenza psichica
rilevata dai medici di base, che nel 20% dei casi inviano i
pazienti dallo psichiatra.
Il 33% ha un’età che va dai 48 ai 64 anni, il 23% tra i 65 e i
75 anni, il 22% tra i 18 e i 47 anni, un altro 22% supera i 75
anni. Il 39,2% dei depressi ha la licenza elementare, mentre il
6,4% ha una laurea.
Al primo posto figurano le casalinghe con il 39,4%, poi i
pensionati con il 14,5%, gli impiegati con il 12,1%, gli operai
con il 10,3%; seguono commercianti, insegnanti, agricoltori,
professionisti e artigiani.
L’indice più basso dei depressi è in Friuli Venezia Giulia
(44,7%), il più alto in Emilia Romagna (69,3%). Nella fascia
d’età compresa fra i 65 e i 75 anni, i depressi più numerosi
sono in Liguria (36%).
La depressione maggiore è meno diffusa: riguarda dal 6% all’11%
dei casi con indici vari di gravità. La più comune forma
depressiva si presenta, sempre secondo alcuni dati, in forme
minori e transitorie; sommate a quelle gravi si arriva al 20%
della popolazione.
Per quanto riguarda invece l’infanzia e l’adolescenza, sempre
secondo questa indagine, la depressione colpisce il 2% dei
bambini dai 6 ai 10 anni e il 4,4%-5% degli adolescenti. Le
depressioni che sorgono precoci possono condurre al suicidio. Le
donne che partoriscono soffrono, dal 9% al 20% dei casi, di una
forma depressiva che si risolve spontaneamente. A volte il
disagio psichico può aggravarsi. La psicosi post-partum è
comunque rara: 2 madri su 1.000.
Particolarmente significativa la spesa farmaceutica negli ultimi
sette anni: dal 1996 al 1999 la spesa per gli antidepressivi è
cresciuta del 40%. Nel 2001 sono stati 340 i milioni di euro
spesi per i farmaci contro la depressione; nell’anno successivo,
il 2002, la spesa per depressione a livello psico-farmacologico
ha rappresentato il 7,8% della spesa totale dei farmaci in
Italia.
I disturbi depressivi dell’infanzia: quale realtà clinica?
La depressione dell’infanzia è acquisizione recente. Fino a
quindici anni fa si riteneva che la depressione dell’infanzia
non esistesse. Si pensava cioè che i bambini non potessero
essere depressi, almeno non clinicamente. Le teorie
psicanalitiche affermavano che non poteva esservi depressione
senza un Super Io formato: solo allora si sarebbe sviluppata la
capacità di provare sensi di colpa, rimorso, autodisprezzo,
considerati come elementi fondamentali della malattia. Si
pensava che l’ego dei bambini non fosse sufficientemente
sviluppato per subire l’influsso dei disturbi depressivi. E
quindi la depressione non avrebbe potuto presentarsi nei bambini
fino al 7°-8° o 10° anno di età. I bambini di oggi, a detta di
pediatri, neurologi e neuropsichiatri infantili, crescono sempre
più in fretta. A 7, 8 anni, come scrivono alcuni esperti, sono
già informati, riflessivi, attenti alle novità, ma anche
esigenti e caparbi, spesso soli e privi di vere risposte.
La sintomatologia depressiva nel periodo infantile (0-10
anni). I criteri diagnostici per la depressione infantile
risultano leggermente diversificati rispetto a quelli adottati
per l’adulto. Nella prima infanzia (0-3 anni) il bambino
depresso esprime tristezza, apatia, irritabilità, ritardo di
apprendimento nelle capacità motorie, non sorride. Prevale
sempre una sintomatologia quasi esclusivamente fisica. In età
prescolare (3-6 anni) compaiono sintomi più a carattere
psichico, quali tristezza, sconforto, idee di morte e suicidio,
accanto comunque ai precedenti sintomi fisici. Cefalea e
gastralgia sarebbero particolarmente frequenti in questo
periodo. In età scolare (6-10 anni) la sintomatologia si
avvicina a quella adulta con sintomi prevalentemente a carattere
psichico, quali l’umore depresso, la disforia, l’anedonìa
(mancanza di piacere); sono presenti anche la tendenza
all’isolamento, il calo del rendimento scolastico e la mancanza
di concentrazione. Tra i sintomi di quest’età, soprattutto tra
gli 8 e i 9 anni, è molto importante la fobia, spesso associata
al rifiuto di andare a scuola: il bambino vive in questa fase
una fortissima ansia di separazione.
La gravità di quanto stiamo sostenendo è addirittura stata
denunciata, nell’aprile del 2004, da una ricerca Secondo tale
indagine nel 2002, in Italia, 2 bambini su 1.000 hanno assunto
uno psicofarmaco di ultima generazione, appartenente cioè alla
classe terapeutica degli inibitori selettivi della serotonina
(in codice SSRI). Secondo la ricerca italiana in due anni è più
che quadruplicato il numero di prescrizioni di pillole contro la
depressione per i bambini. Farmaci che in Italia sono registrati
solo per gli adulti, ma che i pediatri prescrivono perché non ne
hanno altri in alternativa.
La ricerca italiana, che ha avuto risonanza internazionale, ha
valutato un campione di 100.000 bambini di 16 Asl italiane del
Nord Italia, e si è avvalsa di una banca dati. Su un totale di
586.000 “baby-prescrizioni”, 1.600 riguardavano antidepressivi.
Risulta che abbiano assunto psicofarmaci 28.000 pazienti
pediatrici del campione, e che l’uso più frequente sia stato
nella classe d’età 14-17 anni (6,6 ogni mille), con un rapporto
di due a uno tra femmine e maschi.
Ancora più preoccupanti sono i dati presentati nel maggio 2004:
in Italia i farmaci del sistema nervoso centrale sono al quarto
posto tra le classi medicinali pagate dal Sistema Sanitario
Nazionale; largamente prescritti gli antidepressivi di seconda
generazione, pubblicizzati come meno tossici, ma che hanno
effetti collaterali gravissimi: aumento del peso corporeo,
diabete, dipendenza. E non basta. Nonostante la mancanza, o
comunque la scarsità delle prove raccolte sull’efficacia e sulla
mancanza di gravi effetti collaterali dei nuovi SSRI su bambini
e adolescenti, la prescrizione di antidepressivi continua a
crescere. Dal 2000 al 2002 il consumo è aumentato di cinque
volte. I rischi di favorire comportamenti autolesionistici fino
al suicidio da parte della paroxetina prescritta in giovane età
sono stati ufficialmente denunciati.
A nulla sembra comunque servire l’allarme lanciato dagli
esperti. Nel 2003 il 6,4% della popolazione italiana ha fatto
uso di antidepressivi, mentre è salito a 23 dosi giornaliere per
1.000 abitanti il consumo nazionale di psicofarmaci. Anche il
4° Rapporto Nazionale sulla Condizione dell’Infanzia e
dell’Adolescenza, (Eurispes e Telefono Azzurro, 2003),
corredato di dati relativi al 2003, aveva sottolineato, nella
scheda “Psicofarmaci baby: una legislazione commerciale?”, la
necessità dell’introduzione di un codice etico, al quale si
dovrebbero adeguare sia le aziende farmaceutiche produttrici di
farmaci, sia i ricercatori, sia i clinici stessi, soprattutto in
considerazione dei dati sempre più allarmanti, relativi al
consumo di psicofarmaci in età evolutiva, che provengono dagli
Stati Uniti – dove le depressioni in età evolutiva raggiungono
livelli da epidemia – e da alcune nazioni europee, prime tra
tutte Olanda e Inghilterra. In Gran Bretagna, nell’agosto del
2004, un’agenzia per il monitoraggio dell’ambiente ha
riscontrato tracce di Prozac nell’acqua che esce dai rubinetti
inglesi dovute agli scarti di questo antidepressivo, per il
quale si contano 24 milioni di ricette l’anno.
La malattia celiaca
La malattia celiaca (Coeliac Disease) è un’intolleranza
permanente al glutine caratterizzata da un danno alla mucosa del
piccolo intestino causata da una frazione del glutine stesso, la
gliadina, e da altre proteine simili (alcool-solubili), le
prolamine, contenute nella farina di grano,orzo e segale.
Nel corso degli ultimi trent’anni sono stati condotti in Europa
un numero considerevole di studi epidemiologici, dapprima con il
rilevamento dei sintomi tipici e il ricorso a test
diagnostici non specifici e, successivamente, con tecniche di
biopsia intestinale pediatrica. Infine, grazie allo sviluppo di
test sierologici basati su determinazioni anticorpali, sono
stati effettuati studi di screening sulla popolazione che
hanno rivelato come la celiachia sia la più frequente malattia
geneticamente determinata, verificadonsi in 1:130-300 nella
popolazione europea.
Uno studio di screening sierologico multicentrico
effettuato nel 1994 su più di 17.000 bambini italiani in età
scolare indicava la prevalenza della malattia come pari a 1:184,
mentre uno studio cross-sectional effettuato nel 2001
sulla popolazione di Campogalliano (Modena) ha dimostrato che la
prevalenza nel Nord dell’Italia era pari a 1:200. La CD è
risultata più frequente tra le donne (con un rapporto
femmine/maschi pari a 8/1) e nel gruppo comprendente gli
intervalli d’età tra i 12 e i 25 anni e tra i 26 e i 35 anni.
Per quanto riguarda il resto dell’Europa, fino a poco tempo fa
si riteneva che la malattia celiaca fosse più frequente nel Nord
Europa piuttosto che nel Sud. Successivamente, screening
anticorpali effettuati in gruppi di persone ad alto rischio di
celiachia, come i parenti di primo grado e i pazienti con
malattie autoimmuni, hanno dimostrato la stessa frequenza nelle
due zone. In Danimarca la prevalenza è stimata essere pari a
1:500, in Svezia di 1:190 e in Germania 1:500 mentre nel Regno
Unito di 1:112 e in Irlanda di 1:150. In Finlandia, Maki e
collaboratori hanno stimato una prevalenza di CD pari a 1:99 tra
i bambini in età scolare.
Negli Stati Uniti si è sempre ritenuto che la CD fosse un
disordine piuttosto raro, ricorrendo con una prevalenza di circa
1:10.000. Recentemente, una serie di studi epidemiologici
condotti usando strumenti di screening più efficaci, in
particolare i markers sierologici, hanno rivelato che la
frequenza della malattia è la stessa sia nei gruppi a rischio
sia nella popolazione generale. Infatti in uno studio condotto
su donatori di sangue americani si è riscontrata una prevalenza
di 1:250.
Per quanto riguarda il resto del mondo, la celiachia registra
una considerevole frequenza in Australia; inoltre sono stati
evidenziati casi nel Nord-Ovest dell’India mentre la malattia
potrebbe non risultare diagnosticata in Sud America, Nord Africa
e Asia.
Infine, si rileva che la prevalenza della malattia risulta
essere molto elevata nei familiari dei soggetti affetti da
questa intolleranza, essendo approssimativamente pari al 10% tra
i parenti di primo grado e fino al 70% nei gemelli monozigoti.
Questi dati confermano il ruolo dei fattori genetici nel
determinare tale disordine.
L’iperattività nei bambini
Il “Disturbo da deficit dell’attenzione con iperattività” (ADHD)
è caratterizzato da due gruppi di sintomi o dimensioni
psicopatologiche, definibili come inattenzione e impulsività/iperattività.
In questo senso, l’Adhd è stato definito come un disturbo
cronico neurocomportamentale che interferisce con la capacità
dell’individuo di inibire un comportamento (impulsività), di
funzionare efficientemente in attività finalizzate (inattenzione),
o di regolare il livello di attività (iperattività) in misura
adeguata al livello di sviluppo. I sintomi centrali e i problemi
correlati si presentano in un continuum, si manifestano in varie
combinazioni e all’interno di specifici contesti familiari,
sociali e scolastici. L’inattenzione (o facile distraibilità) si
manifesta soprattutto come scarsa cura per i dettagli e
incapacità di portare a termine le azioni intraprese: i bambini
appaiono costantemente distratti come se avessero sempre altro
in mente; evitano di svolgere attività che richiedano attenzione
per i particolari o abilità organizzative; perdono
frequentemente oggetti significativi o dimenticano attività
importanti. L’impulsività si manifesta come difficoltà a
organizzare azioni complesse, con tendenza al cambiamento rapido
da un’attività a un’altra e difficoltà ad aspettare il proprio
turno in situazioni di gioco e/o di gruppo. Tale impulsività è
generalmente associata a iperattività: questi bambini vengono
descritti “come mossi da un motorino”; hanno difficoltà a
rispettare le regole, i tempi e gli spazi dei coetanei; a scuola
trovano spesso difficile anche rimanere seduti. Tutti questi
sintomi non sono causati da deficit cognitivo (ritardo mentale)
ma sono dovuti a difficoltà oggettive nell’autocontrollo e nella
capacità di pianificazione. Per fare diagnosi di Adhd occorre
che siano osservabili almeno sei dei nove sintomi di
inattenzione e/o iperattività riportati nella tabella seguente;
che i sintomi sopra descritti esordiscano prima dei sette anni
d’età e durino da più di sei mesi; che siano evidenti in almeno
due diversi contesti della vita del bambino (casa, scuola,
ambienti di gioco) e, soprattutto, siano la causa di una
significativa compromissione del funzionamento globale del
bambino.
Criteri diagnostici per il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività
Sei (o pi) dei seguenti
sintomi di disattenzione sono persistiti per almeno 6 mesi
con una intensit che provoca disadattamento e che contrasta
con il livello di sviluppo |
Disattenzione
|
(a) spesso non riesce a
prestare attenzione ai particolari o commette errori di
distrazione nei compiti scolastici, sul lavoro, o in altre
attivit (b) spesso ha difficolt a mantenere lattenzione sui
compiti o sulle attivit di gioco (c) spesso non semb
|
ra ascoltare quando gli si
parla direttamente (d) spesso non segue le istruzioni e non
porta a termine i compiti scolastici, le incombenze, o i
doveri sul posto di lavoro (non a causa di comportamento
oppositivo o di incapacit di capire le istruzioni) (e
|
) spesso ha difficolt a
organizzarsi nei compiti e nelle attivit (f) spesso evita,
prova avversione, o riluttante ad impegnarsi in compiti che
richiedono sforzo mentale protratto (come compiti a scuola o
a casa) (g) spesso perde gli oggetti necessari |
per i compiti o le attivit
(per es., giocattoli, compiti di scuola, matite, libri, o
strumenti) (h) spesso facilmente distratto da stimoli
estranei (i) spesso sbadato nelle attivit quotidiane
|
Sei (o pi) dei seguenti
sintomi di iperattivit-impulsivit sono persistiti per almeno
6 mesi con una intensit che causa disadattamento e contrasta
con il livello si sviluppo |
Iperattivit
|
(a) spesso muove con
irrequietezza mani o piedi o si dimena sulla sedia (b)
spesso lascia il proprio posto a sedere in classe o in altre
situazioni in cui ci si aspetta che resti seduto (c) spesso
scorazza e salta dovunque in modo eccessivo in situazioni
|
in cui ci fuori luogo (negli
adolescenti o negli adulti, ci pu limitarsi a sentimenti
soggettivi di irrequietezza) (d) spesso ha difficolt a
giocare o a dedicarsi a divertimenti in modo tranquillo (e)
spesso "sotto pressione" o agisce come se foss |
e "motorizzato" (f) spesso
parla troppo |
Impulsivit
|
(g) spesso "spara" le
risposte prima che le domande siano state completate (h)
spesso ha difficolt ad attendere il proprio turno (i) spesso
interrompe gli altri o invadente nei loro confronti (per es.,
si intromette nelle conversazioni o nei giochi) |
Fonte: DSM-IV-TR (APA, 2002).
Solo quando tali modalità di comportamento sono persistenti in
tutti i contesti (casa, scuola, ambienti di gioco) e nella gran
parte delle situazioni (lezione, compiti a casa, gioco con i
genitori e con i coetanei, a tavola, davanti al televisore,
ecc.) e costituiscono la caratteristica costante del bambino,
esse assumono un valore e un significato chiaramente patologico,
in quanto possono compromettere le capacità di pianificazione e
di esecuzione di procedure complesse (le cosiddette funzioni
esecutive).
Nei bambini con Adhd risultano compromesse in modo variabile le
capacità di retrospezione, previsione, preparazione e imitazione
di comportamenti complessi. Un’alterata o ritardata maturazione
della memoria di lavoro non-verbale comporta ritardi nella
maturazione globale e compromissione delle altre funzioni
esecutive: interiorizzazione del discorso autodiretto,
autoregolazione del livello d’attenzione e della motivazione,
capacità di scomporre i comportamenti osservati e ricomposizione
in nuovi comportamenti finalizzati.
Le ricerche dimostrano che circa la metà dei bambini con Adhd
continuano a mostrare anche da adolescenti e spesso anche da
adulti i sintomi d’inattenzione e di iperattività, accompagnati
talvolta da difficoltà sociali ed emozionali. Altri soggetti (il
15%-20% dei bambini con Adhd) possono mostrare invece una sorta
di “cicatrici” causate dal disturbo: divenuti adolescenti e poi
adulti, manifestano oltre ai sintomi di inattenzione,
impulsività e iperattività, anche altri disturbi psicopatologici
quali alcolismo, tossicodipendenza, disturbo di personalità
antisociale.
In altre parole, non esiste “il” bambino Adhd, ma esistono tanti
casi accomunati dalle difficoltà di attenzione e dalla
iperattività ma che si differenziano anche profondamente tra
loro e che richiedono trattamenti differenziati. Solo una
prospettiva di osservazione e di valutazione fondata sul
criterio dello sviluppo è in grado di fornire una chiave
di lettura che garantisca strategie di prevenzione e di terapia
adeguate, con una specifica attenzione a se e come il problema
comportamentale compromette i processi di maturazione della
personalità e del sentimento di identità del bambino. Il
rischio, in caso contrario, è che la nozione di Adhd divenga un
contenitore indistinto in cui confluiscono condizioni cliniche
del tutto eterogenee.
La terapia per l’Adhd deve quindi basarsi su un approccio
multimodale che combini interventi psicoeducativi con terapie
riabilitative ed eventualmente, solo in casi particolarmente
gravi e resistenti, mediche, purché somministrate dopo un
attento ed approfondito bilancio clinico effettuato da uno
specialista.
Le patologie indotte dai nuovi media
Bambini col cellulare e adolescenti con la sms-mania.
L’Italia si colloca nel 2004 al primo posto in relazione al
tasso di diffusione della telefonia mobile: per ogni abitante è
disponibile una linea di cellulare. Il numero degli abbonati
alla telefonia mobile supera infatti quello degli stessi
abitanti (Vodafone con 21.130.000 utenti, Wind più di 10
milioni, Tre circa 700.000 e Tim più di 26.000.000).
Negli ultimi mesi del 2003, Eurispes e Telefono Azzurro hanno
sottoposto ad un campione di 5.076 bambini tra i 7 e gli 11 anni
un questionario sul possesso e sull’utilizzo del telefono
cellulare. L’indagine ha rilevato che anche i bambini hanno
subìto il fascino dei telefonini: nel campione analizzato il
51,6% ne possiede già uno.
È stato chiesto poi con quale frequenza cambiassero il proprio
telefonino. Per il 48,2% dei bambini del campione sono i guasti,
solitamente, a motivare il cambiamento di cellulare. C’è anche
una quota consistente di intervistati, il 38,3%, che non ha
ancora avuto necessità di sostituire il proprio telefonino
perché da poco ne è entrato in possesso. Non sembra, dunque, che
i bambini sentano la necessità di seguire l’incessante
avvicendamento di mode e di evoluzioni tecnologiche che
interessano la telefonia mobile. Solo il 5,2%, infatti, dichiara
di cambiare il telefonino ogni tre mesi. Scendendo nello
specifico, si sono analizzate le varie modalità di utilizzo del
cellulare. Al primo posto le telefonate agli amici, 36,2%,
seguite a poca distanza da quelle nei confronti dei genitori,
30,7%. Al terzo posto l’uso di sms, che interessa il 12,8% del
campione. Una percentuale poco inferiore di bambini, il 10,1%,
utilizza il telefonino soltanto per ricevere telefonate.
Inconsistente, invece, la quota di bambini che si avvale del
cellulare per navigare su Internet (0,1%) o inviare mms (0,8%).
È scarso l’interesse per impieghi di natura ludica: 2,9%, la
quota di bambini che dicono di giocare attraverso il proprio
cellulare. Nemmeno la pratica degli squilli, elemento tipico del
consumo adolescenziale, ha preso piede nelle fasce d’età più
piccole: se ne avvale esclusivamente il 3,1% del campione.
Oramai viviamo un rapporto di dipendenza dal telefono cellulare.
La preoccupazione maggiore è rivolta comprensibilmente ai più
giovani, i maggiori utilizzatori del telefono cellulare e di
tutti i suoi usi: lo si utilizza per comunicare con gli amici e
con la famiglia, per fare semplici ma significativi squilli, per
giocare e per mandare messaggi. Ed è proprio la comunicazione
tramite messaggi quella che in questi ultimi anni ha conosciuto
una diffusione a dir poco singolare.
L’utenza sms (stimata intorno al 60% dell’utenza della telefonia
cellulare) ha conosciuto una diffusione notevole dal 2000 ad
oggi e le proiezioni per il 2005 prevedono un’ulteriore crescita
del 2,6%.
Secondo le ultime stime, si inviano circa 63 milioni di sms al
giorno e l’uso è diffuso soprattutto fra i giovani. Preoccupante
appare il crescente numero di soggetti vittime della “sms-mania”,
che riescono a spendere addirittura dai 40 ai 50 euro al giorno
per inviare sms anche a numeri sconosciuti (Centro
documentazione dell’Eurispes). Non si tratta più quindi di una
moda passeggera ma di un vero e proprio fenomeno sociologico.
Per i più giovani, il rischio maggiore nell’utilizzo di sms è
l’impoverimento del lessico. Per la comunicazione tramite sms
sembra, infatti, sia nata una lingua ad hoc caratterizzata da
messaggi concisi, essenziali e telegrafici. Nei messaggini si
usano gli emoticon (segni interpuntivi che rappresentano diverse
espressioni) per definire uno stato d’animo e si fa molto
riferimento alla lingua inglese per le abbreviazioni. I
risultati di una recente ricerca sulla dipendenza da cellulare
su sono allarmanti: su un campione di 2.500 ragazzi di età
compresa tra i 13 e 16 anni, il 21% si sveglia di notte (da una
a tre volte al mese) per controllare l’eventuale sms inviato sul
proprio telefono, l’11% lo fa una volta alla settimana, il 9%
più volte nell’arco di sette giorni e un 3% del campione
asserisce addirittura che ciò avviene ogni notte.
Internet e IAD. Il termine che identifica la dipendenza
psicologica dal Web è l’IAD (Internet Addiction Disorder).
Volendo stimare il fenomeno è possibile affermare che sul totale
degli utilizzatori di Internet in Italia (14.000.000 circa), un
milione e mezzo di internauti sono affetti da IAD e che
all’incirca tre milioni potrebbero diventarlo in breve tempo.
Ai molteplici vantaggi offerti dalla Rete possono affiancarsi
taluni aspetti negativi provocati da un uso distorto del mezzo:
vi è chi esaurisce la carta di credito, colto dal cosiddetto
compulsive on line gambling (il gioco d’azzardo on line);
qualcun altro sviluppa relazioni sociali soltanto attraverso
chat; molti altri assumono personalità alterate dopo essersi
immersi in realtà fittizie come quelle offerte dai giochi di
ruolo e così via. Le “nuove dipendenze” comprendono tutte quelle
forme che, pur non prevedendo l’uso di alcuna sostanza chimica,
investono il comportamento o riguardano l’esercizio di
un’attività lecita, come è appunto l’uso di Internet. Un’analisi
delle recenti pubblicazioni scientifiche internazionali dimostra
come l’uso distorto di Internet produca situazioni di dipendenza
psicologica con una sintomatologia simile a quella riscontrabile
in soggetti dipendenti da sostanze psicoattive. I soggetti più
esposti alle psicopatologie collegate all’abuso di Internet
rientrano nella fascia d’età compresa tra i 15 e i 40 anni.
Infatti, al pari della dipendenza da sostanze psicotrope, anche
la Internet Addiction Disorder implica sintomi quali appunto: la
tolleranza (che comporta l’aumento del tempo da trascorrere in
Rete per raggiungere lo stesso piacere), l’astinenza (che si
manifesta con la comparsa di sintomi tipici causati dalla
sospensione dell’utilizzo del Web) e la smania di utilizzare
Internet per non correre il rischio della sofferenza psichica,
che si può manifestare in irascibilità, depressione, angoscia ed
insonnia. Ma, a differenza delle droghe psicotrope, la Net
Addiction, piuttosto che incentrarsi sulla sofferenza, si basa
sul piacere e proprio quest’ultima caratteristica la rende più
difficile da eliminare.
Chat mania. “Cyber relationship addiction” (dipendenza da
cyber-relazioni) è la dipendenza più diffusa soprattutto fra i
giovani e interessa tutti quegli individui che preferiscono
avere rapporti affettivi e di amicizia tramite il web piuttosto
che coltivare relazioni familiari e sociali. Lo strumento che
maggiormente agevola il diffondersi di questa dipendenza è la
chat. Uno dei vantaggi dei rapporti di amicizia che nascono in
chat è sicuramente dato dalla capacità di raggiungere
velocemente quei sentimenti e quei legami che nelle amicizie
reali richiedono invece molti anni di frequentazione:
disponibilità e gentilezze si rintracciano dopo solo pochi
scambi di battute. Inoltre in chat si può assumere qualsiasi
identità, si può scegliere di essere maschio o femmina, si
possono assumere svariati titoli professionali e sperimentare
nuove personalità. Il problema si pone nel momento in cui il
cybernauta trova più stimolanti i rapporti in chat rispetto a
quelli reali.
Epilessia da videogame. Rientra tra le dipendenze
cosiddette comportamentali anche quella da videogioco, diffusa
comprensibilmente soprattutto fra i più giovani. In Italia si
contano all’incirca 10.000 casi di epilessia e che il 3% di
tutti i casi è causato da videogiochi. Si stima che sia
attribuibile ad essi il 10% di quei casi di epilessia che
interessano soggetti tra i 7 e i 19 anni. I giochi delle moderne
consolle con i loro dettagli grafici sempre più definiti e
ricercati e con le loro storie avvincenti trasportano il
giocatore ad un elevato livello di coinvolgimento che si
conclude molto spesso in dipendenza da videogioco. Dipendenza
che va estendendosi con la diffusione sempre maggiore di
videogiochi da casa. Comprensibile pertanto il volume d’affari
della Sony che, solo nel 2003, ha venduto in Italia 1.000.000 di
playstation.
Aids e minori
Il Bareback. Si chiama “bareback”,
letteralmente a schiena nuda, cavalcata a pelo, senza
sella. Ed è il sesso senza precauzioni. Più che
una pratica isolata il bareback sta diventando un modo di
trasgredire diffuso, nonostante le terribili quanto prevedibili
conseguenze. In Italia il bareback è una pratica diffusa
particolarmente negli ambienti omosessuali, in special modo fra
minorenni che vengono coinvolti in giochi erotici da persone
adulte o già malate di Hiv o sieropositive. Le modalità di
incontro per i barebackers sono soprattutto le chats tematiche e
le riviste di annunci per adulti. L’Eurispes ha visionato
numerosi siti per adulti dove la pratica del bareback
rappresenta un opzione di ricerca o un servizio offerto al
navigante visitatore che può accedere al sito senza alcuna
limitazione se non la inutile e facilmente eludibile domanda se
l’utente è minorenne o meno. Si calcola che il bareback
coinvolga circa 25.000 persone, lo 0,5% della popolazione
omosessuale (5 milioni) in Italia. Il 60% dei barebackers,
15.000, è minorenne (Centro documentazione dell’Eurispes).
La situazione attuale. Di Aids si muore ormai soprattutto
nel Terzo mondo. Chi diventa sieropositivo oggi e vive in un
paese occidentale ha a disposizione un numero sempre crescente
di farmaci anti-Hiv (19 solo in Italia) che permettono 45
diversi regimi terapeutici. Inoltre sono ben 27 i vaccini allo
studio. Nonostante questi numeri, non possiamo abbassare la
soglia dell’attenzione: basti pensare che, dalla sua comparsa,
l’Aids ha ucciso (secondo l’Oms) 40 milioni di persone in tutto
il mondo, quasi 3 milioni solo nel 2003. La XV Conferenza
mondiale sull’Aids, tenutasi a Bangkok tra l’11 e il 16 luglio
2004, ha formulato stime aggiornate sul numero di persone
affette dal virus dell’Hiv fino al 2003, con un dato che si
attesta sui 37,8 milioni di malati di Aids nel mondo. La regione
nel mondo con il più alto numero di contagiati, come emerge dai
dati, è l’Africa Sub-sahariana (dove si concentra circa il 66%
dei malati di Aids), seguita con molto distacco da Sud e Sud-Est
asiatico (17,1%) e dall’America del Sud (4,2%). Un altro dato
emerso dalla Conferenza di Bangkok è relativo al numero di nuove
infezioni da Hiv: più di 4,7 milioni di casi verificatisi nel
2003. Per quanto riguarda invece il numero di decessi avvenuti a
causa dell’Aids, il dato comunicato alla Conferenza si attesta
su circa 2,9 milioni di persone decedute nel 2003. I dati
riportati dalla Conferenza di Bangkok, focalizzano l’attenzione
sul fatto che il 13,3% delle nuove infezioni da Hiv avvenute nel
2003 riguardano i minori. Per risalire ad una ripartizione più
precisa in fasce dì età bisogna tornare indietro di due anni;
infatti nel 2001 il 16% delle nuove infezioni riguardava i
minori sotto i 15 anni, il 42% tra i 15-24 anni e ancora il 42%
tra 25-49 anni. Analizzando il numero di giovani malati di Hiv
nel mondo nel decennio 1990-1999 e confrontandolo con le stime
per il decennio successivo, è evidente il carattere evolutivo
della malattia nei prossimi anni: il dato assoluto
passerebbe dai 6 ai 20,7 milioni di giovani (15-24 anni),
facendo più che triplicare il valore in dieci anni. Un aspetto
di particolare importanza è rappresentato dalla suddivisione dei
giovani malati di Aids in uomini e donne: mentre nel primo
decennio considerato gli uomini costituiscono il 58% del totale
e le donne il restante 42%, nel decennio successivo le
percentuali sono esattamente invertite, dimostrando
probabilmente una scarsa sensibilizzazione al problema tra gli
individui di sesso femminile.
Europa. Spostando l’attenzione in ambito europeo,
il dato relativo ai casi di Hiv/Aids nel nostro continente per
il 2001 si ferma a 215.021 unità. La nazione maggiormente
colpita è la Spagna con 61.026 casi (rappresentando il 28,4% dei
casi sul totale europeo), seguita da Francia (25,1%) e Italia
(22,6%).
Italia. L’analisi mostra la distribuzione annuale
dei casi di Aids e dei decessi in Italia fino al 2003. Il primo
caso diagnosticato di Aids risale al 1982, unico caso in
quell’anno; da allora fino al 1995 si è avuto un incremento
esponenziale arrivando al record di 5.651 casi. Quindi dal 1996
si è in presenza di un calo consistente, visibile di anno in
anno, con l’ultimo dato a nostra disposizione (2003) che ammonta
a 1.275 casi diagnosticati in tutto l’anno. Il totale di casi
diagnosticati nel ventennio 1982-2003 in Italia ha raggiunto
quota 52.836, a fronte di un totale di decessi di 33.774 unità,
che rappresentano circa il 64% del totale dei casi. Il numero
più alto di morti per anno di decesso si registra nel 1995, con
un dato assoluto di 4.575, mentre il valore più alto di decessi
per anno di diagnosi è quello del 1994 (4.367). Infine
considerando il tasso di letalità per l’intero periodo
considerato emerge quanto segue: il tasso di letalità totale è
del 64,3%, mentre disaggregando anno per anno il tasso si passa
da un massimo del 100% del 1984 ad un minimo dell’11,1% del
2003, con una diminuzione vistosa di anno in anno. La
distribuzione annuale dei casi prevalenti di Aids in Italia per
regione di residenza fotografa la situazione dal 1999 al 2003
.Nel periodo considerato l’Italia ha visto crescere
complessivamente il numero di casi prevalenti di Aids del 32%.
L’anno con il maggiore incremento di casi è stato il 2001,
quando rispetto all’anno precedente (2000) si è avuta una
crescita dell’8,8%. Le regioni italiane con i livelli più alti
di casi prevalenti sono la Lombardia, il Lazio e l’Emilia
Romagna: nel 2003 la prima rappresenta il 28,2% dei casi
italiani, la seconda il 14% e la terza l’8,2%; quindi la somma
delle prime tre regioni del nostro Paese supera addirittura il
50% dei casi complessivi del 2003. Agli ultimi posti di questa
graduatoria si trovano la Basilicata, la Valle d’Aosta e il
Molise, che insieme non raccolgono neanche il punto percentuale.
I dati mettono in risalto il tasso di incidenza dell’Aids per
regione di residenza nel 2003. La regione italiana con la più
alta incidenza è la Lombardia, con un tasso di 4,9 per 100.000
abitanti, a seguire spiccano Lazio e Liguria (rispettivamente
con 4,8 e 4,7 per 100.000 ab.) e a breve distanza l’Emilia
Romagna con 4,3. Le regioni che presentano i tassi più bassi
sono il Molise (0,6 per 100.000 ab.), la Campania (0,9) e il
Friuli (1). Un aspetto rilevante per lo studio delle
problematiche relative all’Aids è costituito dalla conoscenza
dell’incidenza delle diverse categorie di rischio nella
malattia. L’analisi riporta l’andamento dei casi di Aids in
Italia per categorie di rischio da prima del 1994 al 2002-2003.
Risulta chiara nel tempo la crescita in termini percentuali
della categoria di rischio dovuta all’eterosessualità, seguita
dall’omosessualità; al contrario nel periodo considerato si ha
una drastica riduzione della percentuale di casi di Aids dovuti
alla tossicodipendenza, e con minore vigore dalle emotrasfusioni;
nel caso delle cause non determinate si ha una crescita fino al
biennio 1998-99 e da quel momento una riduzione fino all’ultimo
dato disponibile. Confrontando il numero di decessi dovuti ad
Aids sul totale dei decessi avvenuti in Italia dal 1992 al 2002,
emergono dinamiche contrapposte. Il numero di decessi totali in
Italia è passato da un valore assoluto di 545.038 del 1992 ad un
valore di 557.393 del 2002, facendo segnare un aumento
complessivo nel periodo considerato del 2,3%; invece il numero
di decessi dovuti all’Aids è sceso dalle 3.853 unità del 1992 ai
237 casi del 2002, evidenziando i progressi fatti in ambito
medico e in particolar modo l’aumentata sensibilizzazione al
problema dell’opinione pubblica. Questi due diversi trend,
riportati nel decennio hanno fatto in modo che l’incidenza dei
decessi dovuti all’Aids sul totale dei decessi in Italia sia
passata dallo 0,71% del 1992 allo 0,04% del 2002. Ultima
considerazione da fare per meglio ritrarre il quadro relativo
alla problematica affrontata, riguarda la distribuzione dei casi
di Aids nella nostra Penisola per fasce d’età. Ricordando che il
dato relativo al totale dei casi di Aids in Italia fino al 2003
ammonta a 52.836, risulta evidente una concentrazione dei casi
in particolare tra i 25 e i 39 anni. Scendendo nel particolare,
la fascia d’età maggiormente rappresentata è quella dei 30-34
anni (che incide per il 30%), seguita con il 20,3% da quella dei
35-39 anni e con il 20,2% da 25-29 anni. Un aspetto
particolarmente interessante è dato dal fatto che la fascia
d’età tra i 10-19 anni (con lo 0,4%) è addirittura più bassa in
termini percentuali di quella dei minori di 10 anni, dove il
dato si attesta sull’1,3%.
Aids e giovani. Secondo le stime Unicef (Infanzia e Aids,
2003), ogni anno 720.000 bambini nascono con l’Hiv da madri
sieropositive e nel 90% dei casi si tratta di neonati africani.
La trasmissione verticale del virus spiega la quasi totalità dei
casi di Hiv/Aids fra minori di 15 anni. Sembrano essere
minoritarie infatti le altre modalità di contagio: rapporti
sessuali precoci, assunzione di droghe iniettabili, tatuaggi o
piercing con strumenti infetti, trasfusioni o uso di emoderivati
non controllati.
La possibilità che una gestante sieropositiva trasmetta il virus
al nascituro o al neonato non è facilmente quantificabile a
causa dell’insieme dei fattori di rischio concomitanti. Può
essere stimata intorno al 15% nei paesi industrializzati e da
due a tre volte più alta in quelli a basso reddito. Tale divario
è riconducibile alla diffusione di strutture sanitarie preparate
dove si possano effettuare diagnosi prenatali accurate e
regolari, assumere farmaci antiretrovirali durate la gestazione,
praticare tagli cesarei, garantire cure neo e post-natali
efficaci. La trasmissione verticale può essere efficacemente
limitata dalla terapia antiretrovirale e dal parto cesareo. In
particolare, il parto cesareo dimezza il rischio di infezione,
mentre l’intervento combinato farmacologico e ostetrico riduce
dell’1% la percentuale di rischio. Questo spiega la progressiva
riduzione dei casi di Aids pediatrico in Italia (i casi di Aids
pediatrico da 0 a 13 anni sono calati dagli 83 del 1995 agli 11
del 2002) e negli altri paesi ad alto reddito, e spiega perché
ormai il fenomeno sia radicato esclusivamente nei paesi in via
di sviluppo e in particolare nell’Africa sub-sahariana. In tale
continente infatti, la diffusione dell’Hiv fra le donne è ai
massimi livelli mentre è minimo l’uso di contraccettivi (22%),
un terzo delle gestanti non riceve alcuna assistenza durante la
gravidanza e 4 donne su 10 partoriscono senza l’aiuto del
personale qualificato. Nei paesi con più alta percentuale di
infezione, la popolazione giovanile è particolarmente soggetta a
rischio. Nell’Africa sub-sahariana il primo rapporto sessuale
avviene spesso prima del compimento del quindicesimo anno di
età. In Kenia, su un campione di 10.000 studentesse di età
compresa fra i 12 ed i 24 anni, risulta che, in media, il loro
primo rapporto è avvenuto all’età di 14-15 anni.
A tutt’oggi non vi è un programma scolastico di educazione
sessuale che prepari le ragazze ad una sessualità più
consapevole od all’uso di profilassi. Il Population Reference
Bureau stima che ogni anno la percentuale di giovani donne
(15-19 anni) che diventa madre nelle regioni sub-sahariane è del
14%, contro il 6% in altri paesi in via di sviluppo ed il 3% nei
paesi industrializzati. Molte di queste madri non sono sposate:
il 40% delle nascite in Namibia è attribuibile a donne non
sposate. Tale fenomeno non può essere attribuito ad un basso
livello scolastico, in quanto un terzo delle madri nubili ha
conseguito un titolo di studio secondario. Tali dati dimostrano
che la popolazione giovane è sessualmente molto attiva e non fa
uso di preservativi: i giovani che hanno rapporti sessuali non
protetti con diversi partners non solo sono soggetti al rischio
di gravidanze indesiderate, ma anche esposti a malattie a
trasmissione sessuale, fra cui l’Hiv.
Recenti monitoraggi mostrano quanto sia sviluppato il rischio e
quali siano le conseguenze: in Ruanda il 4% di ragazzi di
entrambi i sessi fra i 12 ed i 14 anni sono risultati
sieropositivi. In Sudafrica la percentuale di ragazze incinte
minori di 15 anni risultate sieropositive era del 9,5%. Spesso
le ragazze contraggono l’infezione prima dei maschi. Nell’area
del Kenia il 22% delle ragazze fra i 15 ed i 19 anni risulta già
sieropositiva, rispetto al 4% dei ragazzi. Tali differenze
lasciano intuire che le giovani donne vengono infettate da
maschi adulti sieropositivi. In molti casi le ragazze decidono
volontariamente di avere rapporti sessuali con uomini più
grandi, sedotte da regali, soldi od altri favori. Ma spesso il
rapporto è frutto di una violenza sessuale: una ragazza su
quattro, in Kenia, ha dichiarato di essere stata vittima di
violenza; nella Repubblica Democratica del Congo il rapporto
sale ad una su tre.
Nei casi di rapporto sessuale con ragazze non consenzienti il
rischio di contagio risulta più elevato: sia perché è
improbabile che l’uomo decida di usare preservativi, sia perché
maggiore è il rischio di abrasioni e ferite. Naturalmente il
fatto che il virus venga contratto in giovane età aumenta, anche
in prospettiva, il rischio epidemiologico. Un’adeguata campagna
informativa e preventiva dovrebbe essere rivolta ad ogni strato
della popolazione, ma soprattutto alle persone più giovani, che
più di altre sono soggette al rischio infezione. Le campagne per
un comportamento sessuale più corretto sembrano inoltre essere
più efficaci nei confronti delle persone giovani che di quelle
il cui comportamento è oramai piuttosto radicato.
Ad esempio, a seguito di campagne attive di educazione sessuale
e promozione all’uso di profilattici nelle scuole e fra gruppi
giovanili, si è assistito ad una significativa riduzione del
tasso epidemiologico fra teenagers in Uganda e Tanzania.
Strade a rischio: il pericolo è dietro l’angolo
Dati recenti mostrano una significativa riduzione degli
incidenti a seguito dell'introduzione del provvedimento noto
come "Patente a punti": sembrano conoscere una significativa
contrazione sia il numero assoluto di incidenti (nelle strade
extraurbane, che non sono - nonostante la diffusa percenzione
degli automobilisti - necessariamente le più pericolose), sia il
numero di decessi.
Incidenti verbalizzati su autostrade, strade statali e
provinciali
Valori assoluti e differenza assoluta e percentuale
Infortuni e decessi
|
2002/03 |
2003/04 |
Differenza assoluta
|
Differenza %
|
Numero incidenti |
128.963 |
107.390 |
- 21.573 |
- 16,7% |
Numero morti |
3.022 |
2.485 |
- 537 |
- 17,8% |
Numero feriti |
92.452 |
73.881 |
- 18.571 |
- 20,1% |
Fonte: Istituto Superiore di Sanità, 2004.
Quanti minori coinvolti. Nell’anno 2002, il 5,5% delle
persone decedute in seguito a un incidente stradale è da
riferirsi a un minore. Si tratta di un dato piuttosto
significativo dell’elevata percentuale di rischio di morte a
carico dei più piccoli.
La considerazione del numero di feriti fa registrare – per i
minori di 18 anni – un’incidenza percentuale pari all’8,9%,
superiore dunque a quella relativa ai decessi. La fascia di età
15-17 anni è quella che evidenzia il numero più elevato di
ferimenti: 16.800 nel solo 2002.
Il confronto dei valori percentuali dei morti e dei feriti
(ponendo il totale di ciascuna distribuzione uguale a 100)
evidenzia qualche differenza di rilievo: a parità di numero
totale di incidenti, i decessi colpiscono in misura maggiore i
bambini, mentre, in maniera speculare, tra gli adolescenti si
rileva una maggiore incidenza di esiti non fatali.
Il decesso provocato da incidente stradale riguarda in misura
sensibilmente superiore i maschi, soprattutto nella fascia di
età che va dai 15 ai 17 anni. Nel 2002 si sono contati
complessivamente 267 morti di sesso maschile e 107 di sesso
femminile.
Anche nel caso dei feriti sono i maschi a conoscere una maggiore
frequenza di eventi traumatici: nel 2002 se ne contano oltre
19mila, contro le circa 11mila giovani ferite.
Il confronto con il totale della categoria (maschi o femmine,
morti o feriti) evidenzia come l’incidenza relativa maggiore sia
proprio quella dei giovani maschi che si feriscono (8,81% sul
totale dei maschi feriti). Decisamente meno frequente è il dato
osservato per le minori decedute: in questo caso si registra un
tasso percentuale pari all’1,59 sul totale delle donne decedute
a seguito di incidente.
Un problema che tutte le statistiche sugli incidenti stradali
tendono con forza a rilevare è dato dall’alto numero di pedoni,
minorenni, vittime di automezzi sfuggiti al controllo del
conducente: anche in questo caso sono i maschi i più colpiti
(nel 2002, 51 decessi contro i 28 delle femmine e 1.310 maschi
feriti contro 913 femmine).
Occorre evidenziare tuttavia la considerevole incidenza delle
classi di età più giovani: in questo caso, infatti, non sono più
i “quasi maggiorenni” a rappresentare con forza tale universo;
l’alea del pericolo sembra interessare in modo non troppo
dissimile tutte le età considerate, compresa la più giovane
(nella fascia d’età fino a 5 anni si riscontrano,
complessivamente, 26 morti e 369 feriti nel 2002).
Quale sicurezza. La pericolosità della strada non
risparmia alcuna categoria di utenti: conducenti, trasportati,
ciclisti, motociclisti, pedoni ed il fatto che i minori non
conducano mezzi autostradali non li salvaguarda né li tutela dai
rischi di incidente.
Non si tratta tuttavia di una mera probabilità statistica. La
condizione stessa dell’essere bambini rappresenta un elemento
che entra significativamente in gioco nella determinazione del
rischio.
La conformazione fisica dei più piccoli, anzitutto, rappresenta
– soprattutto per i neonati – un oggettivo elemento
moltiplicatore delle conseguenze di un urto: il peso della testa
rispetto al resto del corpo, unito allo scarso sviluppo dei
muscoli del collo, rappresenta, ad esempio, un elemento che
accentua la pericolosità di un impatto violento. Inoltre, e
questo vale anche per i più grandi, la ridotta capacità di
concentrazione rende i bambini più vulnerabili soprattutto in
situazioni in cui il traffico motorizzato è pesante o veloce,
quando la visibilità è limitata o quando l’attenzione del
guidatore è distolta: tutti elementi che alimentano i rischi per
il passeggero o il piccolo pedone.
Le misure atte a contenere tali livelli di rischio agiscono su
due diversi ordini di problemi: gli elementi strutturali del
veicolo e delle attrezzature (seggiolini, cinture, ecc.) idonee
a un trasporto meno rischioso del piccolo all’interno della
vettura; gli aspetti di ordine culturale, connessi alla
sensibilizzazione di adulti e ragazzi.
Sul primo versante si registra una crescente attenzione sia da
parte del legislatore sia delle case produttrici. L’ultimo
aggiornamento del Codice della Strada ha modificato le regole
del “trasporto corretto dei bambini in automobile o su altri
veicoli”, specificando con chiarezza gli accorgimenti di
sicurezza da tenere, in relazione all’età e all’altezza del
bambino.
Rispetto a tali accorgimenti si evidenzia una duplice difficoltà
di applicazione: da un lato si pone un problema di dotazione
degli automobilisti delle attrezzature idonee al trasporto di
bambini (molti studi, anche a livello internazionale,
evidenziano forti carenze in tale ambito); dall’altro si nota,
anche in presenza delle tecnologie previste, una diffusa
impreparazione tecnica degli adulti nel corretto utilizzo di
tali dispositivi (allaccio delle cinture, chiusura e
alloggiamento dei seggiolini, corretta ubicazione dei bambini in
ragione dell’età e della tipologia di vettura, ecc.). Tale
elemento, si pone come particolarmente importante nella
riduzione della vulnerabilità dei piccoli passeggeri: molte
ricerche evidenziano con grande chiarezza come il corretto
utilizzo delle attrezzature per la sicurezza costituisca un
elemento che attenua sensibilmente le conseguenze di un
possibile incidente.
Oltre a tali aspetti occorre poi considerare un limite
prettamente socio-culturale: “seconda casa” per individui e
famiglie, o estensione protesica della prima, l’automobile è
percepita soprattutto nei suoi aspetti di sicurezza e di ricerca
di comfort: le misure di sicurezza, per i bambini ancor
più che per gli adulti, costituiscono delle limitazioni al
benessere nell’auto e alla gradevolezza del viaggio. Proprio
come per quanto avviene per l’abitazione, – tutt’altro che
sicura in ogni suo ambiente, specie per i più piccoli: la
percezione “familiare” e l’abitudine ormai radicata ad un uso
quotidiano dell’auto incoraggiano una sottostima dei rischi
(“che mai dovrà succedere in un tragitto così corto?”) o a
sovrastimare gli elementi impropri di protezione (“tengo il
piccolo in braccio per proteggerlo”). Così, l’adozione su vasta
scala dei dispositivi di sicurezza, usati con regolarità e
appropriatezza, sembra ancora un mero obiettivo di principio non
ancora diffuso nella prassi quotidiana di adulti e minori.
Capitolo 5
La famiglia
Costo dei figli: l’opportunità della conciliazione
Nel 2003, una coppia senza figli ha speso
circa 2.500 euro mensili. Per lo stesso paniere di beni e
servizi una famiglia con un figlio ha speso quasi 2.800 euro ed
una coppia con due figli o tre figli ne ha spesi oltre 2.900.
Rispetto a una famiglia senza figli, dunque, una coppia con un
figlio spende mediamente 269 euro in più al mese. Il surplus di
spesa sale a 408 euro mensili per una famiglia con due figli e
si attesta, in virtù dell’economia di scala, a 413 per una
coppia con tre o più figli. In termini di spesa annua, il
surplus è di 3.228 euro per un figlio, di 4.896 per due e di
quasi 5.000 per tre. Il costo derivante dalla presenza dei figli
è rilevante, anche in termini percentuali: una coppia con un
figlio spende il 10,7% in più rispetto a una senza figli. La
spesa di una coppia con due figli è superiore del 16,2% mentre
la presenza di tre o più figli comporta una spesa media del
16,4% in più rispetto a una coppia senza prole. Il costo dei
figli è cresciuto notevolmente durante il triennio 2001-2003. Il
surplus di spesa di una famiglia con un figlio rispetto a una
coppia senza figli è quasi raddoppiato nel periodo considerato
(dai 138 euro mensili del 2001 ai 269 del 2003). Nelle famiglie
con quattro componenti, il surplus è stato superiore al 2001 ma
più contenuto rispetto al 2002, anno in cui la presenza di due
figli ha comportato una spesa mensile aggiuntiva di 421 euro.
Infine, se nel 2001 le coppie con tre o più figli spendevano
mediamente il 12% in più rispetto a una coppia senza figli (pari
a 294 euro mensili in più), nel 2002 il surplus era pari al
12,8% della spesa media mensile di una famiglia senza figli (308
euro mensili), fino a raggiungere, nel 2003, il 16,4%. La
presenza di figli modifica non solo la quantità dei consumi
familiari, ma anche la loro qualità, imponendo mutamenti anche
significativi in relazione al peso assunto dalle diverse voci di
spesa. Nel 2002, il peso della spesa per l’acquisto di alimenti
e bevande, pari al 15,7% in una coppia senza figli, sale al
18,2% in una famiglia con un figlio e al 19,3% in presenza di
due figli, raggiungendo il 22,5% in una famiglia con tre o più
figli. Nel 2003, l’incidenza dei beni alimentari sul complesso
della spesa mensile di una famiglia è salita al 15,9% per una
coppia senza figli (0,2% in più rispetto al 2002) ed ha
raggiunto rispettivamente il 18,6% e il 19,7% per le coppie con
uno o due figli (+0,4%) mentre è scesa al 22,1% per le coppie
con tre o più figli. Significativo anche il diverso peso della
spesa per l’abbigliamento: pari al 6,9% in una famiglia senza
figli, raggiunge l’8,2% in una coppia con due figli e il 9% in
una con tre o più figli. La voce istruzione (che comprende
l’acquisto di libri scolastici ed il pagamento delle tasse
scolastiche) ha un peso nullo sul totale della spesa mensile di
una coppia senza figli mentre incide per il 2,7% sui consumi
mensili delle famiglie con tre o più figli. Il cambiamento delle
abitudini quotidiane o la diminuzione del tempo a propria
disposizione che la presenza dei figli comporta hanno un impatto
diretto sulle tipologie di consumo. È così possibile osservare
che nelle coppie senza figli la spesa per “altri beni e servizi”
incide per quasi il 14% sul totale, mentre scende all’11,9%
nelle coppie con un figlio, all’11,3% nelle famiglie con due
figli e al 10,2% in quelle con almeno tre figli.
Il costo opportunità. Il costo economico dei figli
comprende, oltre il denaro speso per comprare beni e servizi ad
essi destinati, il mancato guadagno, derivante dalla
sostituzione parziale o totale del tempo di lavoro con i tempi
di cura dei figli. Il costo-opportunità, ovvero la quota di
reddito sacrificata nella maggior parte dei casi dalla madre, in
termini di denaro sottratto al lavoro o chance di carriera
perdute, a causa del suo impegno nella cura dei figli. Il
costo-opportunità è pari al 15% del reddito annuale di una donna
con un figlio, e sale al 30% in presenza di due figli. Esso è
più elevato per le donne più giovani ed in possesso di un
elevato livello d’istruzione, per le quali l’arrivo di un figlio
ostacola probabili avanzamenti professionali e grava
maggiormente sulle donne che lavorano nel settore privato
rispetto alle lavoratrici del settore pubblico, in ragione delle
diversità presenti sul piano della tutela legislativa. È
evidente che la presenza di un efficiente sistema di servizi per
l’infanzia sarebbe in grado di ridurre il costo-opportunità
pagato dalle madri, aiutandole a diminuire o evitare la perdita
di salario dovuta alla presenza dei figli.
I micronidi aziendali
Le recenti disposizioni legislative, in materia di nidi
aziendali hanno il merito di creare un tessuto normativo in
grado di rispondere alle esigenze delle madri (ma anche dei
padri) che lavorano. L’obiettivo è quello di integrare i servizi
per la prima infanzia, in modo da garantire una risposta
efficace alla carenza di strutture pubbliche, ma anche di
rispondere alle mutate esigenze sociali che vedono le donne
ormai presenti e protagoniste nel mondo del lavoro. La prima
necessità di una lavoratrice, che decide di avere un figlio è
quella di continuare a svolgere la propria professione senza
dover scegliere tra la carriera e la famiglia. Questo è
possibile solo in presenza di strutture e di servizi per
l’infanzia ben organizzati e flessibili. Attivare delle
strutture per la prima infanzia in ambito aziendale permette ai
genitori di mantenere un contatto ravvicinato col bambino, ma
anche di assicurare un maggiore livello di presenza sul posto di
lavoro. Inoltre, la vicinanza del proprio figlio, riducendo le
occasioni di stress e di preoccupazione per il lavoratore,
influisce positivamente sulla qualità del lavoro, con ricadute
non trascurabili sulla produttività aziendale. In tal senso, la
previsione di un micronido aziendale, che risponde ai problemi
logistici e alle necessità affettive dei lavoratori con figli,
potrà rappresentare sempre più, in futuro, un’occasione per
fidelizzare i dipendenti, sollecitandone i meccanismi di
riconoscimento aziendale, l’apparato delle motivazioni
individuali e il senso di appartenenza al contesto lavorativo.
Gli asili nido presenti nelle regioni italiane
Anni 1992-2000
Valori assoluti
Regioni |
1992 |
2000 |
Piemonte |
210 |
248 |
Valle DAosta |
7 |
11 |
Lombardia |
475 |
567 |
Trentino A. Adige
|
30 |
63 |
Veneto |
136 |
322 |
Friuli V. Giulia |
37 |
57 |
Liguria |
71 |
98 |
Emilia Romagna |
356 |
403 |
Toscana |
166 |
253 |
Umbria |
45 |
66 |
Marche |
90 |
138 |
Lazio |
190 |
255 |
Abruzzo |
43 |
42 |
Molise |
4 |
5 |
Campania |
31 |
102 |
Puglia |
111 |
73 |
Basilicata |
19 |
28 |
Calabria |
16 |
40 |
Sicilia |
106 |
172 |
Sardegna |
37 |
65 |
Totale |
2.180 |
3.008 |
Fonte: Istituto degli Innocenti.
Gli asili nido: la normativa vigente. In base
all’articolo 70 comma 4 della legge 448 del 2001, che ha
istituito il Fondo per gli asili nido, rientra fra le competenze
della Regione la ripartizione delle risorse finanziarie per la
costruzione e la gestione di asili nido nonché di micro-nidi nei
luoghi di lavoro.
Inoltre l’art. 91 della Finanziaria per il 2003 (legge n.
289/2002) istituisce il fondo di rotazione per il finanziamento
dei datori di lavoro che realizzano asili nido e micro nidi
aziendali. Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e
quello dell’Economia hanno firmato il decreto di ripartizione
del fondo asili nido 2003 che distribuisce, tra le Regioni,
ulteriori 100 milioni di euro per la realizzazione di strutture
e servizi per l’infanzia da parte dei Comuni. Le risorse
assegnate alle Regioni variano dai 283 mila euro della Valle
d’Aosta agli oltre 16 milioni di euro della Lombardia. Tali
risorse sono ripartite sulla base dei dati Istat e di una serie
di variabili: il tasso demografico dei bambini da 0 a 2 anni
(per il 50%); il tasso di occupazione femminile (20%); il tasso
di disoccupazione femminile (15%); il fabbisogno teorico basato
sul criterio delle liste di attesa (15%). Il Fondo per gli asili
nido, istituito dalla Finanziaria 2002, prevede, per il triennio
2002-2004, lo stanziamento di 300 milioni di euro complessivi,
da destinare alle Regioni, e da queste ai Comuni, per favorire
lo sviluppo del sistema dei servizi alla prima infanzia. Di
questi 300 milioni di euro, 50 sono stati distribuiti a fine
2002, 100 nell’anno 2003 e 150 assegnati nel corso del 2004.
A questo budget, finalizzato alla realizzazione di asili
comunali, bisogna aggiungere i 10 milioni di euro del Fondo di
rotazione istituito dalla Finanziaria 2003, destinato ai datori
di lavoro che hanno realizzato nidi o micro-nidi aziendali e in
via di assegnazione.
Nidi d’infanzia: posti e iscritti per regione
Dati al 30/9/2000
Regioni |
Nidi |
Posti |
Iscritti |
Posti per nidi
|
% nidi pubblici
|
% posti pubblici |
Posti per 100 bambini
0-2
anni |
Piemonte |
248 |
11.160 |
9.046 |
45,0 |
78,6 |
89,8 |
10,7 |
Valle dAosta |
11 |
390 |
334 |
35,5 |
100,0 |
100,0 |
12,3 |
Lombardia |
567 |
23.594 |
19.878 |
41,6 |
84,3 |
91,7 |
9,7 |
Trentino A.A. |
63 |
2.354 |
1.834 |
37,4 |
73,0 |
89,9 |
7,5 |
Veneto |
322 |
8.986 |
5.979 |
27,9 |
47,8 |
76,1 |
7,2 |
Friuli V.G. |
57 |
2.103 |
1.511 |
36,9 |
68,4 |
77,8 |
7,8 |
Liguria |
98 |
3.199 |
2.953 |
32,6 |
87,8 |
95,8 |
9,7 |
Emilia R. |
403 |
17.110 |
15.673 |
42,5 |
91,3 |
95,2 |
18,3 |
Toscana |
253 |
9.144 |
8.286 |
36,1 |
92,9 |
94,2 |
11,3 |
Umbria |
66 |
2.268 |
1.954 |
34,4 |
87,9 |
91,6 |
11,6 |
Marche |
138 |
4.196 |
3.335 |
30,4 |
77,5 |
83,9 |
11,5 |
Lazio |
255 |
11.971 |
10.384 |
46,9 |
83,1 |
91,1 |
8,5 |
Abruzzo |
42 |
1.340 |
1.131 |
31,9 |
92,9 |
94,4 |
4,1 |
Molise |
5 |
242 |
163 |
48,4 |
80,0 |
87,6 |
2,9 |
Campania |
102 |
4.603 |
1.907 |
45,1 |
47,1 |
44,3 |
2,2 |
Puglia |
73 |
3.437 |
2.309 |
47,1 |
69,9 |
76,3 |
2,7 |
Basilicata |
28 |
873 |
615 |
31,2 |
82,1 |
84,7 |
5,2 |
Calabria |
40 |
1.167 |
567 |
29,2 |
55,0 |
57,4 |
1,9 |
Sicilia |
172 |
7.773 |
6.885 |
45,2 |
100,0 |
100,0 |
4,7 |
Sardegna |
65 |
2.607 |
1.980 |
40,1 |
86,2 |
88,6 |
6,4 |
Italia |
3.008 |
118.517 |
96.724 |
39,4 |
79,9 |
88,4 |
7,4 |
Fonte: Istituto degli Innocenti, su dati Istat e
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2002.
Padri separati: conflitti, delitti, voglia di riscatto
e di affidamento condiviso
Dal conflitto al delitto. Tra le
associazioni di volontariato, che non hanno lo statuto di Onlus
ma si occupano con dedizione all’assistenza dei genitori
separati ritenuta pre-condizione per assicurare alla prole una
vita equilibrata, l’associazione EX di Roma è la prima ad aver
costruito il monitoraggio annuale sui delitti compiuti
nell’ambito familiare e causati da situazioni conflittuali di
coppia per via dell’affidamento dei figli. Nel 3° Rapporto
Nazionale sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza
(Eurispes e Telefono Azzurro) sono stati pubblicati i dati di EX
sugli omicidi-suicidi maturati nel contesto delle separazioni.
Nel corso di poco più di otto anni (dal gennaio 1994 al giugno
2002) si sono verificati, secondo Ex, 560 omicidi-suicidi che
hanno prodotto 761 vittime. Nel 2003, l’Eurispes (con la
collaborazione di EX) ha istituito un Osservatorio sui delitti
di coppia e familiari-parentali, monitorati mese per mese.
L’analisi riporta una serie di dati che consentono di
quantificare l’incidenza degli omicidi originati da conflitti di
coppia in procinto di separarsi o di ex-coppie separate,
aggravati o meno da situazioni di figli contesi. In questi casi
devastanti, sono soprattutto i padri separati o in procinto di
separarsi a reagire in maniera abnorme alla realtà o alla paura
di essere diventati o diventare “padri assenti”. I dati mostrano
chiaramente che il conflitto-delitto si scatena soprattutto là
dove albergano legami affettivi tra donne e uomini e cioè nella
coppia, sia essa di coniugi, di conviventi, di amanti o
fidanzati. I delitti tra coniugi che convivono sotto lo stesso
tetto sono poco più della metà (54 su 101). Molti di meno sono i
delitti tra conviventi (10), seguiti a ruota (9) dai delitti tra
fidanzati o amanti. Quelli che maturano nell’ambito di coppie
“scoppiate” sono complessivamente 23 (12 tra coniugi separati, 3
tra ex conviventi, 8 tra ex fidanzati e ex amanti). Tra
divorziati, per contro, si è consumato un solo delitto. Se ne
può trarre la conclusione che le separazioni non ancora sancite
dal divorzio, specialmente se recenti, sono terreno fertile di
contese che sfociano nel delitto. Abbiamo infatti notato che le
separazioni recenti, o anche quelle solo minacciate ma non
ancora attuate (generalmente dalla donna della coppia), sono tra
le circostanze più frequenti che spingono il partner abbandonato
alla vendetta di sangue. Pochi (4) sono infine i delitti che
colpiscono rivali di uno dei partner della coppia. Un ulteriore
dato rilevante è quello che rispecchia la caratteristica “a
sesso unico” degli autori dei delitti di coppia: a fronte di 87
autori di sesso maschile, quelli di sesso femminile sono 14. La
questione del sesso degli autori e delle vittime è assai
delicata, poiché per via della preponderanza maschile tra gli
autori e, viceversa, di quella femminile tra le vittime, questi
delitti vengono spesso considerati come gli epigoni della più
generale violenza sulle donne e quindi inerenti all’ontologia o
alla costruzione sociale della differenza sessuale. Pur non
negando la caratteristica sessuata dei delitti di coppia, a noi
sembra riduttivo interpretarli come la“prova provata” del
dominio bio-sociale del maschio sulla femmina nel genere umano.
Sono frutto piuttosto di reazioni a catena in relazioni
fortemente perturbate in cui i carnefici appaiono uomini deboli
e le vittime appaiono donne forti.
Le 14 autrici dei delitti di coppia si suddividono tra quelle
che uccidono i mariti (7), i conviventi (4), gli amanti o i
fidanzati (3). Non ci sono autrici nei delitti che colpiscono
gli ex. È un dato sui cui riflettere. Nei delitti di coppia,
infatti, l’elemento passionale la fa da padrone, anche se non va
mai dimenticato che la personalità dell’autore gioca un ruolo
altrettanto importante.
Alla luce dei delitti registrati dall’Osservatorio, anche gli
omicidi/suicidi hanno una caratteristica a “sesso unico”.
L’analisi suddivide poi gli omicidi/suicidi per sesso
dell’autore e per ambiti relazionali in cui gli omicidi/suicidi
sono maturati. Questa sorta di duplice delitto viene compiuto da
34 uomini e da 4 donne.
Nello studio poi sono stati suddivisi i 157 omicidi di coppia e
familiari/parentali in base alle motivazioni. Le “motivazioni”
sono diverse dal “movente” (termine che viene utilizzato nelle
statistiche giudiziarie), in quanto cercano di delineare meglio
la personalità dell’autore. La distribuzione dei 157 delitti in
base alle motivazioni ha richiesto una analisi del contesto in
cui ciascun delitto è maturato.
Su 157 delitti, 16 delitti di coppia vengono compiuti da
partner maschili che non accettano la separazione nella maggior
parte dei casi voluta dalla partner. In altri 17 casi la non
accettazione della separazione viene complicata dalla presenza
di figli in comune, a fronte di una partner abbandonante, mentre
4 omicidi vengono compiuti da partner maschili che,
notoriamente, avevano paura di perdere, con la separazione
imminente, oltre la partner, anche i figli comuni.
Complessivamente, dunque, gli omicidi che hanno per motivazione
una conflittualità di coppia dovuta alla non accettazione della
separazione da parte del partner maschile sono 37 su 87: meno
della metà.
Diversi delitti di coppia si concludono con il suicidio
dell’autore e alcuni altri annettono l’uccisione di prole
comune. Dai dati inoltre si evince che su 17 figlicidi commessi
da padri, 3 sono stati compiuti da mariti che hanno ucciso anche
la moglie separata con la quale erano in conflitto; 5 sono stati
compiuti da mariti che hanno ucciso anche la moglie convivente
che però aveva annunciato o era in procinto di separarsi dal
marito. A conclusione possiamo affermare che, tra i 157 delitti
di coppia e familiari/parentali, una parte minoritaria ma
significativa (37) viene compiuta da partner maschili a danno
delle partner femminili sull’onda del rifiuto esasperato
dell’abbandono, frequentemente aggravato da conflittualità con
la propria partner abbandonante o ex partner, proprio per via
dell’affidamento dei figli dopo la separazione. E,
paradossalmente, può anche capitare che i figli contesi
diventino anch’essi vittime dell’accecamento che porta un padre
separato alla strage. L’entità del dato rilevato e i commenti a
riguardo non consentono assolutamente di proiettare su tutti i
padri separati un alone di latente follia omicida, né di
accusare il sistema giudiziario civile in materia di
separazione, dominato da una cultura pro-madre, di correità nei
fatti delittuosi. Però l’attuale disagio dei padri separati, per
essere compreso, chiarito e affrontato, necessita anche delle
analisi dei fenomeni estremi che l’accompagnano.
Proprio nel 2003, un caso di omicidio/suicidio di coppia e
familiare ad opera di un “classico” padre separato in lotta per
i figli e in guerra con la moglie, destò molto scalpore.
Dall’affidamento congiunto all’affidamento condiviso. Le
norme che fissano i princìpi in merito all’affidamento dei
figli, in caso di separazioni e divorzi, sono collocate nella
Costituzione, nel Codice civile, nella legge sul divorzio
(originaria e riformata), nonché nella legge di ratifica ed
esecuzione della Convenzione Internazionale sui Diritti del
Fanciullo, sottoscritta nel 1989. Le fonti normative citate
impongono tutte, per principio, quella che oggi viene chiamata
bigenitorialità, ovvero il diritto-dovere di entrambi i genitori
di partecipare all’educazione, al mantenimento e all’istruzione
dei figli comuni. Malgrado le leggi italiane citate prevedano
non solo l’affidamento a un solo genitore, ma anche quello che
nel vigente diritto si chiama “affidamento congiunto”, nella
pratica più del 90% delle cause di divorzio si concludono con
l’affidamento esclusivo, l’84% alla madre. L’istituto
dell’affidamento congiunto, presente fin dalla legge istitutiva
del divorzio (1970), che pure ha avuto il merito di avvicinare
la legislazione italiana alle leggi più avanzate in Europa e
negli Stati Uniti, non è riuscito a scalfire il “muro” della
monogenitorialità come conseguenza automatica dell’esito dei
divorzi.
Il ruolo dei nonni nella famiglia allargata
Si parla di famiglia “allargata” quando nel nucleo familiare si
registra la simultanea presenza di genitori, nonni, generi,
nuore, nipoti, fratelli, zii. Dall’analisi condotta
sull’evoluzione della condizione anziana in Italia emerge la
rappresentazione di una terza età ancora dinamica e vitale, che
conquista un ruolo più significativo in un quadro aggiornato
della famiglia moderna.
I nonni si segnalano come i nuovi protagonisti attivi, e non
passivi come in passato, di una società organizzata che vede al
centro la famiglia come struttura portante dell’organizzazione
sociale contemporanea. A dispetto dei molteplici meccanismi
emarginanti, ereditati dalla famiglia patriarcale, i nonni
moderni sono ora in grado di proporsi con accenti e
caratteristiche diversi, per conquistarsi un posto di rilievo
nella famiglia contemporanea. Il lungo e difficile momento di
transizione dalla prima infanzia all’adolescenza, e
dall’adolescenza alla prima età adulta, lungi dal trovare
ostacoli nella presenza della cultura “superata” degli anziani,
trova oggi in essa motivo di evoluzione e di stimolo,
impensabile fino a qualche anno fa. L’allungamento della
speranza di vita e la consapevolezza degli anziani di
sopravvivere più a lungo e di poter godere della crescita di
nipoti, e talvolta di pro-nipoti, finisce per conferire a questa
fascia di età ruoli nuovi e significativi. Nella famiglia
allargata, in cui sono sempre più frequenti i fenomeni di
rientro forzoso dei giovani nel nucleo familiare d’origine per
perdita di lavoro o di reddito, a causa di separazioni o
divorzi, si vanno evidenziando caratteristiche sostanzialmente
diverse da quelle della famiglia tradizionale.
L’Identikit del nonno. Secondo l’ultimo censimento, in
Italia si contano circa 11 milioni di nonni, che rappresentano
il 38,4% della popolazione degli ultraquarantenni. Le nonne, più
numerose dei nonni, sono pari al 60% della categoria. Dati
recenti evidenziano che degli 11 milioni di nonni, 7 milioni
hanno più di 65 anni. Oltre il 70 % degli anziani assolverebbe
al ruolo di nonno nei confronti di una media di circa 4 nipoti.
Prevale la presenza femminile (71,3%) specie nelle regioni del
Centro e del Sud (rispettivamente 75% e 72,5%).
Si rileva che il 58% dei nonni (poco più di 6 milioni) abbia
almeno un nipote con meno di 14 anni; rapporto che si riduce
drasticamente al 20,1% per i nonni ultrasessantacinquenni. La
maggioranza dei nonni con nipoti di età inferiore ai 14 anni si
occupa di loro in varie occasioni, ma le nonne sono, al
riguardo, molto più attive. Solo il 13%, infatti, non si occupa
mai di loro, contro il 18,8% dei nonni.
Si evidenzia inoltre che ben il 29,8% dei nonni, seppure ancora
personalmente impegnati in attività lavorative, si occupa dei
nipoti. Risulta inoltre che, anche se solo il 10% dei nonni vive
insieme ai propri nipoti, nella maggioranza dei casi essi vivono
comunque in zone relativamente vicine. Tra gli
ultrasessantacinquenni, 1 su 6 condivide con uno o più nipoti lo
stesso caseggiato, e 1 su 4 risiede nel raggio di un chilometro.
I dati sembrano confermare che la categoria dei nonni continua
ad essere una risorsa capace di svolgere una funzione sociale
alla quale famiglia e società non sono in grado di rinunciare.
Ed ancora emerge che 6 bambini su 10 sono affidati ai nonni e
solo 2 frequentano l’asilo nido (per carenza di posti, per rette
troppo onerose, o per carenze di asili nel comune di residenza).
Il 42% dei nipoti, alla nascita, ha ancora tutti e quattro i
nonni.
In definitiva, l’affermazione secondo cui “se non ci fossero i
nonni si dovrebbe inventarli” sembra confermata dalla realtà dei
comportamenti.
Il nonno ideale. Tale figura, uomo o donna, considerata
la loro complementarietà nella relazione con i nipoti (pur
riconoscendo alla nonna un impegno più intenso) ha un’età
compresa tra i 65 ed i 74 anni, dimostra di aver intrapreso ed
accettato positivamente la propria vecchiaia, vive con il
coniuge, vicino, ma non insieme ai figli e nipoti, risiede in
una zona periferica; il suo livello di istruzione è medio. I
nipoti sono fanciulli tra i sei ed i dieci anni di età; egli li
incontra spesso, motivato sia da necessità contingenti (offrire
aiuto ai figli) che dal desiderio di stabilire legami affettivi;
pur amando e ricercando la compagnia dei propri nipoti, tale
nonno non si assume responsabilità educative onerose, si limita
a proporsi come sostegno utile per i genitori. Il nonno ideale è
una persona disponibile a collaborare, ad offrire consigli alla
generazione di mezzo sui problemi dell’educazione nel rispetto
delle scelte operate dai genitori. Egli ricava soddisfazione dal
rapporto con i nipoti al di là dell’efficacia della sua azione
educativa; ritiene contemporaneamente un piacere ed un dovere il
dedicare tempo ai bambini dei suoi figli; sa rapportarsi con
loro dimostrando intraprendenza e dinamicità, privilegiando le
modalità ludiche e la trasmissione del proprio vissuto e di
quello della famiglia; egli percepisce, quale aspettativa
principale dei nipoti, il bisogno di ricevere affetto e
comprensione, ma è sensibile anche alla richiesta di doni, che
gli appaiono utili come mezzi per rafforzare la relazione. Tali
osservazioni sono ovviamente orientative ed influenzate da
variabili soggettive ed oggettive. Nonni, del resto, non si
nasce, ma si diventa.
La funzione di nonno fa seguito alla nascita di un nipote, con
la consapevole assunzione di un ruolo, assorbito tuttavia
impercettibilmente fin dall’infanzia, secondo i modelli
comportamentali e sociali di riferimento di ciascuno.
Il ruolo dei nonni nell’inserimento sociale dei nipoti.
Da un recente studio emerge che su 500 casi di bambini
disagiati socialmente, quelli cresciuti senza anziani in
famiglia hanno più problemi di inserimento sociale. Sotto
accusa, insomma, le famiglie che hanno fatto a meno del ruolo
educativo dei nonni.
Il rapporto segnala che il 47% dei bambini cresciuti senza nonni
ha manifestato maggiore propensione alla violenza, in particolar
modo la tendenza è più accentuata nei maschi. Nel campione di
età preso in esame, compreso tra i 6 ed i 12 anni, coloro che
non hanno avuto accanto i nonni:
-
sono risultati più lenti nel processo di
apprendimento scolastico (18%);
-
hanno imparato più lentamente a parlare
(27%);
-
hanno maggiore difficoltà di
integrazione sociale (36%);
-
hanno più difficoltà a socializzare con
gli altri coetanei (15%).
Secondo la ricerca, almeno un nonno in
famiglia ha reso i bambini:
-
più bravi a scuola (19%);
-
meglio disposti verso gli altri coetanei
(22%);
-
più educati (38%);
-
meno sensibili al richiamo della tv e
della pubblicità (47%).
I nonni in conclusione incidono sul
processo di autostima (nel 52% dei casi gli intervistati
dimostrano di essere più sicuri di sé); la loro assenza, al
contrario, provoca l’incremento della visione di programmi
violenti (per l’80% dei casi) e del consumo acritico di
pubblicità.
Genitorialità e carcere: madri, padri, minori, dentro e oltre
le sbarre
In Italia sono oltre 40mila, fra grandi e piccoli, i figli
“fuori” dal carcere che hanno un genitore dietro le sbarre. Dato
che evidenzia il numero di figli che, pur non vivendo
direttamente il problema della detenzione, subiscono la
privazione della figura materna o paterna, in quanto detenuta.
Detenzione femminile e presenza di bambini: la dimensione del
fenomeno. Nelle carceri italiane oggi vi sono circa 60.000
detenuti. Di questi, poco più di 2.600 sono donne.
Al gennaio 2002 la percentuale delle presenze femminili sul
totale della popolazione era poco più del 4%, esattamente 2.369
donne rispetto ai 2.886 posti previsti e contro le 52.906
presenze maschili.
Nel primo semestre 2004 si calcola un numero pari a 39.485 nuovi
ingressi di sesso maschile (di cui 24.320 italiani e 15.165
stranieri), contro i 3.744 ingressi femminili: di questi, 1.964
hanno riguardato donne straniere e 1.780 donne italiane (da
notare il numero superiore delle prime rispetto alle seconde,
contrariamente a quanto capita rispetto alla detenzione maschile
che vede in netta prevalenza l’ingresso in carcere di italiani).
Le donne sono tendenzialmente condannate a pene della durata
media piuttosto bassa: dai 3-5 anni a un minimo di 1-3 anni; le
condanne si riferiscono soprattutto a reati legati allo spaccio
di sostanze stupefacenti (34,4%) e da reati contro il patrimonio
(22,2%).
I bambini italiani che vivono in carcere con le loro mamme oggi
sono circa 50. Fino al 1997, ogni anno, le carceri italiane
ospitavano tra i 30 e i 100 bambini di età inferiore ai tre
anni.
Nel 1975 erano presenti nelle carceri italiane 125 bambini
rispetto ai 63 del 31 dicembre 2001.
Questa diminuzione, irregolare ma progressiva nel corso degli
anni – anche se con un incremento negli anni 1999 e 2000 –,
testimonia la progressiva attenzione della giustizia al dramma
delle madri detenute: dramma che non può risolversi né tenendo
presso di sé i propri figli, né affidandoli ad altri al di fuori
dell’istituto penitenziario, né consegnandoli ad un istituto di
assistenza.
La drammatica esperienza di una maternità-genitorialità
“difficile”, “intermittente” o “interrotta” riguarda la metà
delle detenute: il 50% di loro ha dei figli. Mediamente l’80% di
esse ne ha fino a tre, per arrivare a quattro – o più – nelle
regioni meridionali; in Campania e in Sicilia questo valore
raggiunge il 20% del totale delle donne detenute (dati riferiti
all’inizio del 2002). Inoltre, solo una minima parte delle
detenute italiane vive nelle carceri femminili (oggi se ne
contano 8: Trani, Pozzuoli, Arienzo-Caserta, Rebibbia-Roma,
Perugia, Empoli, Pontedecimo-Genova e Giudecca-Venezia); mentre
il 77% delle detenute è sparso nelle sezioni distaccate delle
carceri maschili (oggi 52, ma all’epoca della ricerca erano 96),
frammentate in gruppi esigui che stentano a raggiungere le 20
unità. Nella maggior parte delle sezioni non ci sono zone verdi
e nel 10% non esiste neppure un cortile.
Quali strumenti di tutela? L’istituzione degli asili-nido
all’interno degli Istituti penitenziari. All’interno
di un istituto penitenziario italiano, il primo asilo nido di
cui si ha notizia è quello di Regina Coeli a Roma, aperto nel
1927, seguito, a tre anni di distanza, da quello del carcere di
Napoli.
Tali strutture sono state istituite allo scopo di garantire il
benessere morale e materiale dei figli delle detenute,
specialmente da un punto di vista igienico-sanitario. Il
problema centrale, però, è rappresentato dal fatto che la
qualità della relazione madre-bambino all’interno di un istituto
penitenziario è molto complessa. Dal 1993 al 2001 solo 18
carceri in tutto il territorio nazionale sono state dotate di un
asilo nido. I restanti sono dotati di un nido non funzionante
mentre uno è in allestimento. Questa situazione riguarda un
totale di 61 detenute madri e 63 figli di età inferiore ai 3
anni.
A parte la evidente scarsità di strutture di questo tipo, anche
la loro distribuzione appare inadeguata e disomogenea: ben sette
regioni italiane ne risultavano, al 31 dicembre 2001,
sprovviste: Emilia-Romagna, Friuli, Trentino, Val d’Aosta,
Marche, Molise, Basilicata.
Il ruolo del volontariato a sostegno della famiglia e a
tutela dell’infanzia negli Istituti penitenziari. Su una
popolazione carceraria di circa 60mila detenuti, in 201
strutture detentive dislocate in tutte le province italiane,
sono presenti 8mila volontari e operatori di cooperative
sociali.
Un recente studio segnala che il rapporto tra detenuti e
operatori esterni è di 7 a 1, con forti oscillazioni tra le
diverse aree geografiche del Paese, con una situazione più
favorevole al Centro (4 detenuti per operatore non
istituzionale) e quella meno favorevole al Sud (14 detenuti per
ogni operatore). Ma dallo studio emerge anche una forte
prevalenza femminile (52,6%) che nel Mezzogiorno raggiunge quasi
il 60%.
I volontari regolarmente autorizzati sono presenti nel 92% degli
istituti penitenziari e svolgono un’attività di sostegno a più
livelli: dal sostegno morale e psicologico all’aiuto pratico, da
attività di tipo religioso, all’animazione socio-culturale,
dall’accompagnamento per licenze o uscite premio, alla funzione
di “ponte” con il territorio e le famiglie dei detenuti.
Il Progetto “Bambini e carcere” di Telefono Azzurro.
Attraverso il Progetto “Bambini e carcere” Telefono
Azzurro si propone di tutelare l’infanzia e l’adolescenza
coinvolta, a vari livelli, all’interno del sistema
penitenziario.
Il Progetto nasce nel 1992 e, attraverso le iniziative maturate
nel corso degli ultimi anni di sviluppo, ha cercato di costruire
un duplice sistema di interventi mirati a:
-
promuovere uno sviluppo adeguato del
bambino che si trova inserito in una situazione di detenzione,
valorizzando e supportando la relazione con la madre e
costruendo le basi perché riesca ad accedere alle risorse
esterne al carcere (“Progetto Nido”);
-
supportare l’ingresso e la permanenza,
all’interno degli istituti, del bambino e dell’adolescente che
si recano ad incontrare il genitore/parente detenuto,
attraverso l’allestimento di spazi idonei e di personale
volontario specializzato (“Progetto Ludoteca”).
In Italia le prime ludoteche nelle carceri
nascono con circa 20 anni di ritardo rispetto agli altri paesi
europei. La prima ludoteca di Telefono Azzurro è stata
inaugurata nel dicembre 1999 presso il Carcere di Monza. Su
questo modello sono state poi realizzate le altre 17 ludoteche:
a Torino, Firenze, Roma, Prato, Padova, Milano e Pescara mentre
sono in fase di allestimento quelle negli istituti di
Poggioreale a Napoli, Reggio Emilia, Catania e Verona. Sono
stati inoltre attivati i primi contatti presso altre realtà
carcerarie.
Gli affidamenti familiari e il processo di
deistituzionalizzazione degli istituti
per minori
Avere due famiglie: i minori in affido.
Secondo l’indagine censuaria del Ministero del Lavoro e
delle Politiche Sociali - Sezione Minori, al 30 giugno 1999 i
minori in affidamento familiare risultavano essere
complessivamente 10.200. Sono bambini o adolescenti con una
storia di abbandono e sofferenza alle spalle, protagonisti di
affidamenti intra-familiari (5.280 minori affidati a parenti) ed
etero-familiari (4.668 minori affidati a terzi senza alcun
legame di consanguineità), mentre per 252 minori non si hanno
informazioni pertinenti a riguardo. I dati sono stati
disaggregati in affidamenti etero-familiari e infra-familiari,
in quanto questi ultimi hanno caratteristiche differenti,
difficilmente comparabili con gli affidamenti a terzi. Sono
disposti spesso dalla magistratura minorile, a seguito di una
sospensione o decadimento della potestà dei genitori, con un
coinvolgimento limitato o nullo dei servizi sociali territoriali
nella loro progettazione e gestione. All’epoca della rilevazione
la popolazione minorile ammontava a 10.211.361 unità, per cui si
ottiene un valore medio nazionale di quasi un minore in
affidamento familiare per ogni 1.000 abitanti di età inferiore
ai 18 anni. Le classi di età maggiormente rappresentate, in
entrambe le popolazioni di affidati, e in termini assoluti,
riguardano le fasce di età comprese tra i 6 ed i 10 anni e dai
14 ai 17 anni.
Tra le motivazioni dell’affidamento familiare predominano in
assoluto le condotte di abbandono e/o di grave trascuratezza
della famiglia di origine. Se alla quota attinente ai gravi
problemi economici si aggiunge quella attinente ai problemi
abitativi, si delinea un quadro significativo di povertà.
La solidarietà, la condivisione con altri delle proprie risorse,
l’apertura verso gli altri, sono i motivi prevalenti che
spingono a richiedere l’affidamento. Essi rappresentano un punto
di partenza importante, tuttavia non sufficiente a intessere una
relazione affettiva con il minore affidato, che in genere è un
bambino con la sua storia, il suo vissuto e le sue esperienze
sovente negative.
È proprio il concetto di “diversità” che va bandito nel processo
di affidamento.
Spesso il bambino affidato manifesta poca propensione allo
scambio di gesti affettuosi con la famiglia che lo ospita
temporaneamente. Il problema del minore non è tanto quello di
avere due famiglie, quanto il timore di non averne una di
riferimento. La sua paura è quella di perdere la famiglia di
origine (che, anche se inadeguata, rimane comunque la sua,
quella alla quale egli si sente legato) e di non poter ancora
fidarsi della nuova. Quasi la metà dei bambini in affidamento
etero-familiare, e circa il 70% di quelli in affidamento
intra-familiare, non sembrano avere problemi comportamentali.
Tra gli aspetti problematici più diffusi si evidenziano le
difficoltà scolastiche, relazionali con gli adulti e coi pari, e
la mancanza di autostima.
La temporaneità dell’affidamento familiare. Presupposto
dell’affidamento è la «temporanea privazione di un ambiente
familiare idoneo». E il requisito della temporaneità ne
caratterizza tutta la disciplina.
La durata presumibile del periodo di affidamento deve essere
indicata nel provvedimento e l’affidatario deve favorire il
reinserimento del minore nella famiglia di origine.
La legge 149/01 (art.4, comma 3) prevede che il periodo di
durata dell’affidamento debba «essere rapportabile al complesso
di interventi volti al recupero della famiglia di origine. Tale
periodo non può superare la durata di 24 mesi ed è prorogabile,
dal Tribunale per i minorenni, qualora la sospensione
dell’affidamento rechi pregiudizio al minore».
Gli operatori del settore affermano che la problematicità delle
famiglie di origine frequentemente non consente il rientro del
minore entro i tempi previsti dalla legge. Il limite di 24 mesi,
in pratica, non consente di sviluppare adeguatamente i necessari
interventi sulla famiglia di origine, dove i problemi, più che
di natura economica, riguardano in gran parte l’effettiva
capacità di adempiere al ruolo genitoriale.
Una durata inferiore o pari a 24 mesi, come prevista dalla
legge, interessa in pratica solo il 18,7% degli affidamenti
etero-familiari e il 32,1% di quelli intra-familiari. Nei
diciotto anni di applicazione della legge 184/83, gli affidi
sine die sono risultati rilevanti su tutto il territorio
nazionale.
Esiste pertanto l’esigenza di tener conto di una durata degli
affidamenti più consona di quanto non preveda la legge, proprio
in ragione dei tempi lunghi necessari ad attuare gli interventi
previsti, e per non lasciare irrisolti casi che riguardano
rispettivamente ben il 70% e addirittura oltre l’80% dei casi
nelle due categorie infra ed etero-familiari. Del resto, per
affido sine die si intendono quei progetti di affido
attinenti sia a situazioni in cui non è previsto il rientro in
famiglia, ma non sussistono le condizioni per decretare lo stato
di abbandono/adattabilità del minore, sia a situazioni in cui il
progetto di affido temporaneo si modifica nel tempo a seguito di
cambiamenti nelle condizioni della famiglia di origine dello
stesso minore.
Il tempo, in questo contesto, diventa un prezioso fattore
strategico perché segna la crescita del minore e della famiglia
di origine e scandisce le fasi di evoluzione dei soggetti
interessati. Per questi motivi, la durata non può essere
caratterizzata da una rigidità che non tenga conto della
mobilità e delle esigenze soggettive di sviluppo. Spesso, è
difficile far coincidere i tempi di evoluzione dei bambini con
quelli delle famiglie di origine. Queste esigenze dovrebbero
quindi riflettersi nel dettato legislativo.
SOS famiglia: esperienze in Italia e all’estero.
All’estero, a differenza che nel nostro Paese, i minori affidati
alle famiglie sono molto più numerosi. Secondo gli atti del
Convegno del Centro Ausiliario Minorile (CAM), tenutosi nel
novembre 2000, a quella data nel Regno Unito i ragazzi in affido
familiare erano 55.300, equivalenti al 75% degli assistiti, e
analoghe percentuali si registravano anche in Germania, dove i
minori in affido erano circa 45.000. I francesi, in base ad una
legge del 1977 utilizzano il “placement familial”, che ha
segnato l’inizio di una forma di partenariato con le famiglie e
ha visto emergere la figura delle “assistenti materne”,
regolarmente istituzionalizzate sul piano del contratto di
lavoro, dopo corsi di formazione che durano un semestre. I
francesi sono anche attenti a che le famiglie non offrano la
loro collaborazione in quanto attratte da benefici economici, e
quindi precludono la possibilità di collaborazione a quelle
famiglie per le quali l’assistenza costituirebbe l’unica fonte
di reddito.
Gli inglesi, benchè partiti con ritardo rispetto ai francesi,
con il “Children Act” del 1989, oggi propongono la formula
innovativa degli “affidi ad intervallo”, da applicare, ad
esempio, ai minori disabili, per offrire una pausa al duro,
costante impegno dei genitori, oppure quando sorgono problemi di
alcoolismo o di droga, nel qual caso viene anche offerto un
programma di riabilitazione.
In Italia sarebbe opportuno potenziare la formula
dell’affidamento diurno, perché questo intervento risponde a
diverse esigenze, come ad esempio quella di creare una relazione
tra le famiglie senza togliere il bambino alla famiglia di
origine, o di agevolare l’assistenza nei casi di minori con
diversi tipi di handicap, che rappresentano, in Italia, il 10,4%
dei casi di affidamenti etero-familiari e il 6,1% degli
affidamenti intra-familiari. Sulla base delle esperienze
europee, a Milano si sta sperimentando l’affido diurno tra gli
extra-comunitari. I figli degli immigrati rappresentano,
infatti, una realtà di dimensioni non trascurabili.
I filippini e gli africani mostrano un crescente interesse verso
l’affido diurno, mentre i cinesi preferiscono rimandare i figli
in Cina. Si tratta, ovviamente, di affidi consensuali, che
offrono il vantaggio della flessibilità, essenziale per
rispondere alle diverse esigenze, ad esempio attraverso la
formula “bed & breakfast”, che a Milano è sponsorizzata dal
Ministero del Welfare: si tratta di una forma di affidamento con
cui si chiede ai genitori affidatari di essere presenti, di
ascoltare il ragazzo e prestare attenzione ai suoi problemi.
Luci ed ombre della nuova legge n. 40/2004
sulla procreazione medicalmente
assistita
Il fenomeno della sterilità ha raggiunto
oggi dimensioni davvero preoccupanti: oltre una coppia su cinque
non riesce ad avere un bambino. E la percentuale tende
progressivamente ad aumentare.
Nel nostro Paese il tasso di fecondità è sceso in dieci anni da
1,326 del 1992 a 1,252 del 2001 mettendo sempre più in crisi lo
stesso ricambio generazionale anche a fronte di un tasso di
natalità pari, nel 1980, a 11,6 e nel 2000 a 9,4 nati per 1.000
abitanti.
Secondo l’Eurispes, il 64,9% degli italiani è favorevole
alla fecondazione assistita. Relativamente alla possibilità
per una coppia sterile di ricorrere a tecniche di riproduzione
assistita in laboratorio, infatti, la stragrande maggioranza dei
cittadini intervistati ritiene legittima questa scelta. Il 31,3%
esprime invece un parere contrario. Mentre il 3,8% non ha voluto
o saputo esprimere un’opinione a riguardo.
Più favorevoli gli uomini. Sono soprattutto gli uomini a
ritenere legittimo il ricorso per una coppia sterile a tecniche
di riproduzione assistita: il 66,4% degli intervistati, contro
il 63,4% delle donne, esprime un giudizio favorevole. Ritiene
invece illegittimo il ricorso alla fecondazione assistita il
28,9% degli uomini ed il 33,6% delle donne.
Fecondazione eterologa. La legge 1514/03 sulla
procreazione assistita esclude ogni possibilità di fecondazione
eterologa, impedendo cioè alle coppie sterili di ricorrere ad un
donatore o una donatrice esterno/a che fornisca l’ovulo o il
seme. Chiamato a pronunciarsi sulla fecondazione eterologa, il
campione si dichiara nella maggioranza dei casi (55,7%)
contrario a questo metodo di procreazione assistita. Il 38,3% la
ritiene invece legittima, mentre il 5,9% non si pronuncia.
Eppure resta anche da considerare che procreazione e
genitorialità rappresentano ancora oggi un valore sociale, e in
quanto tale percepiti come una sorta di “diritto” a cui
raramente, e spesso solo dopo aver tentato tutte le vie
praticabili, si rinuncia. E del resto, sotto questo profilo, le
possibilità offerte oggi dalla scienza permettono di ricondurre
alla volontà umana eventi, come quello procreativo, che in
passato appartenevano alla sfera dell’imponderabile. Del resto
la strada alternativa dell’adozione è lunga e difficile ed in
ogni modo il numero di bambini in stato di abbandono rimane
comunque esiguo rispetto a quello delle coppie di aspiranti
genitori. Da questo punto di vista, quindi, si può senz’altro
affermare che i cambiamenti demografici da un lato, ed i rapidi
progressi scientifici dall’altro, hanno colto il legislatore
italiano impreparato. Nel 2004, dopo un iter assai travagliato
contrassegnato da accesi dibattiti ed aspre polemiche, è stata
approvata la legge sulla procreazione medicalmente assistita
(legge del 19 febbraio 2004, n.40). Ma le problematiche
sollevate in questi anni sul tema della fecondazione assistita
sono molteplici: si pensi alla questione relativa al diritto di
procreare utilizzando embrioni crioconservati (la cosiddetta
fecondazione post mortem) o ancora al caso di chi accetta
di portare in grembo e partorire un figlio per conto di un’altra
donna e dopo il parto cambia idea rivendicando il diritto di
essere madre (cosiddetta maternità surrogata). O ancora alla
complessa questione della tutela giuridica dell’embrione e della
sussistenza di un diritto alla procreazione. Le evidenti
implicazioni etiche e culturali di una disciplina delle tecniche
di riproduzione medicalmente assistita impongono al legislatore
un approccio che sia il più rispettoso possibile del pluralismo
culturale: ciò al fine di definire delle regole che siano
condivise, che esprimano valori comuni e che al contempo
garantiscano la tutela dei princìpi e dei valori fondanti del
nostro ordinamento giuridico, primo fra tutti il diritto del
nascituro. La fecondazione assistita omologa è quella, fra le
diverse tecniche riproduttive, che ha posto meno problemi, etici
prima ancora che giuridici, perché soddisfa il desiderio di
coppie sterili di avere figli che abbiano il loro patrimonio
genetico.
I bambini prodigio
Bambini intelligenti, bambini superdotati, bambini prodigio,
idioti sapienti. Il modo più appropriato di indagare
l’insieme di capacità che definiamo intelligenza è un tema
estremamente discusso in psicologia, e la mancanza attuale di un
modello adeguato e condiviso di cosa sia l’intelligenza, pone
problemi di non facile soluzione. Esistono vari tipi di test di
valutazione dell’intelligenza, basati su capacità verbali e
logico-matematiche (la maggioranza si basa su un modello
dell’intelligenza come sistema di applicazione di algoritmi,
cioè di regole e formule), oppure affidati a capacità più
astratte, come il riconoscimento di figure complesse (Raven’s
Progressive Matrices). Il più diffuso è comunque il test
Stanford-Binet, che comprende molti items, sia verbali che non
verbali. Questo e altri test di livello definiscono il Q.I.
(Quoziente di Intelligenza). Il Q.I. dipende dalle capacità, ma
anche in parte dalle acquisizioni culturali, che a loro volta
sono correlati a capacità e formazione
emotiva-affettiva-cognitiva ricevuta. Il Q.I. normale è 100-120;
121-140 è il Q.I. dei molto dotati, da 141 in su si parla di
superdotazione, dai 99 in giù di ipodotazione.
I “quozienti di intelligenza” tendono ad essere piuttosto
stabili nel tempo, sebbene si osservino incrementi progressivi
nel punteggio complessivo durante lo sviluppo.
Un aspetto problematico degli studi psicometrici
sull’intelligenza è il carattere estremamente diseguale delle
prestazioni di alcuni individui.
Nei cosiddetti “bambini dotati”, la disuguaglianza delle
prestazioni è frequente. Nel suo articolo “Creatività e
Intelligenza” (1997), Antonio Preti – psichiatra e
psicoterapeuta – sostiene, sulla base di uno studio condotto su
1.000 adolescenti iperdotati sul piano scolastico che, ad
esempio, oltre il 95% «presentava forti diseguaglianze tra
prestazioni nelle aree verbali ed in quelle matematiche». Ci
sono adolescenti con notevole talento spaziale e matematico, in
particolare, che spesso mostravano capacità verbali mediocri.
All’opposto, più raramente, si manifesta un’estrema precocità di
comprensione verbale.
In alcuni casi, poi, vi sono bambini che all’età di due-tre anni
leggono e comprendono testi come un adulto, oppure mostrano
straordinarie capacità matematiche, i cosiddetti “bambini
prodigio”, estremamente dotati e precoci che però mostrano
difficoltà nelle aree relazionali, talvolta sino a configurare
forme di autismo, o comunque problemi sociali ed emotivi in
misura superiore ai coetanei.
I casi estremi di ineguaglianza delle prestazioni in campo
intellettuale sono costituiti dai “savant”, definiti anche
“idioti sapienti”. Si tratta di individui, solitamente con un
ritardo mentale medio (Q.I. compreso tra 40 e 70) o autistici,
che possiedono selettive abilità che spiccano per confronto con
le limitazioni delle altre aree. I savant veri e propri, dotati
di abilità prodigiose, sono rari ma affascinanti. Alcuni di essi
sono capaci di calcoli matematici estremamente complessi, pur in
presenza di una sostanziale incomprensione del significato delle
operazioni matematiche che compiono. In alcuni casi, si ritiene
che ricorrano a metodi di calcolo inconsueti, che tuttavia
producono risultati straordinari. Altri possiedono doti grafiche
straordinarie, notevolmente superiori a quelle di individui di
pari età, e spesso superiori a quelle degli adulti.
Nel primo numero dei “dossier” de Le Scienze, dedicato a
“L’intelligenza” (1999), la psicologa Ellen Winner si occupa dei
talenti non comuni, ovvero dei bambini prodigiosi e sapienti. Fa
notare come in questi individui la dotazione di talenti non sia
mai uniformemente distribuita: Edison, per esempio, pagava la
sua morbosa passione per l’esperimento scientifico con notevoli
difficoltà di apprendimento, soprattutto nelle aree verbali,
menomate fino alla dislessia. La presenza di questi talenti
isolati pone imbarazzanti domande sul carattere
dell’intelligenza, anche perchè alcune forme di talento sembrano
originare da lesioni cerebrali piuttosto che dalla piena salute.
Nel tentativo di spiegare almeno parzialmente questi fenomeni,
la Winner riferisce di alcuni risultati ottenuti grazie alle più
recenti tecniche ispettive sul cervello: il linguaggio dei
talenti matematici (un po’ come quello dei talenti musicali)
risulta controllato da entrambi gli emisferi cerebrali. Il che
vuol dire che il lato destro del cervello svolge un compito
solitamente riservato al sinistro. A riprova di questa ipotesi è
l’osservazione di un’apparente superiore frequenza di individui
non destrimani o ambidestri tra gli iperdotati sul piano
intellettuale, ed una frequenza analogamente elevata di disturbi
del linguaggio, balbuzie o dislessia, in campioni selezionati di
soggetti di talento: linguaggio e abilità manuale sono funzioni
di solito controllate dall’emisfero cerebrale di sinistra. In
“termini tecnici”, si dice che gli individui particolarmente
dotati in certi campi, talora a scapito di altre abilità, sono
portatori di una alterata lateralizzazione cerebrale, su base
genetica o congenita.
Infine, si vuole richiamare l’attenzione sul fatto che una
percentuale ancora non stimabile di individui iperdotati si
“perde per strada”, non riuscendo a mantenere nel loro sviluppo
quei risultati e quelle prestazioni che i precoci successi
lascerebbero intravedere. Esperti, affermano che affinchè il
potenziale di un bambino prodigio si sviluppi nell’età adulta è
indispensabile una coincidenza tra un’attitudine innata, un
particolare ambito che abbia raggiunto un certo grado di
sviluppo, una famiglia sensibile e ricettiva e un’epoca storica
che riconosca e sostenga l’eccellenza in quel particolare ambito
di attività e di conoscenza. È dunque la «convergenza fortuita
di inclinazioni individuali altamente specifiche con una
specifica ricettività ambientale» che spiega, come il
raggiungimento dell’eccellenza nell’età adulta sia così raro.
I bambini dotati tra i banchi di scuola. I bambini dotati
riescono a padroneggiare alcune discipline prima degli altri
bambini e ad eccellere in alcune attività. Secondo il “Dossier
Genialità” (1999) della rivista Le Scienze, rispetto ai bambini
intelligenti, che impegnandosi possono raggiungere brillanti
risultati, essi apprendono molto più velocemente, acquisendo
padronanza e sicurezza in alcune materie molto prima dei loro
compagni. Nella maggior parte dei casi, inoltre, seguono un
proprio ritmo di apprendimento e arrivano alla soluzione di un
problema in modo intuitivo e personale, senza seguire tutti i
passaggi logici necessari. In molti casi, però, essi sono anche
più fragili dal punto di vista emotivo. Questo può creare loro
qualche problema di adattamento all’interno del gruppo e della
società, un po’ perchè molti tendono a considerarli come bambini
“strani”, un po’ perchè il loro interesse quasi ossessivo per
una materia li porta a isolarsi dagli altri. I bambini dotati,
di solito, sono molto introversi e tendono a trascorrere da soli
più tempo del normale. Questa tendenza all’isolamento è maggiore
nei soggetti più dotati, che, per quanto appagati dalla loro
vita interiore, dichiarano spesso di sentirsi soli. Per queste
ragioni, molti cercano di nascondere le proprie doti per farsi
accettare meglio dagli altri. Senza il sostegno e la sensibilità
della famiglia, il bambino prodigio deve limitare i “danni” che
l’ostracismo dei coetanei nei confronti dell’eccellenza può
produrgli.
I problemi più significativi, tuttavia, di solito si presentano
a scuola, dove all’isolamento sociale si aggiungono il talento
in alcune materie e il disinteresse per altre. Spesso bambini
con grandi abilità nell’area matematica iniziano a parlare molto
tardi e hanno difficoltà a imparare a leggere, così come gli
individui più dotati per le arti faticano ad apprendere le
regole grammaticali e l’ortografia. In una ricerca, condotta dal
succitato “Dossier Genialità” (1999) su un campione di 1.000
adolescenti con grandi talenti, si constata che più del 95%
presenta forti differenze tra le abilità verbali e quelle
matematiche. Per questa ragione, estremamente importante risulta
essere la formazione degli insegnanti e la sensibilizzazione dei
genitori per individuare la differenza e riconoscere il bambino
dotato e plusdotato, che necessita sia di stimoli appropriati
nel campo in cui eccelle sia di essere spronato a impegnarsi
nelle altre aree.
Note
L’indagine campionaria ha sondato un campione più che
rappresentativo della popolazione scolastica italiana, per
sesso, età, area geografica, tipologia di scuola e di istituto,
classe frequentata.
Due sono stati i modelli di questionario utilizzati, destinati
rispettivamente all’infanzia e all’adolescenza. Il
questionario infanzia è servito a delineare i comportamenti
e l’identikit del bambino, ed è stato somministrato a ragazzi di
età compresa tra i 7 e gli 11 anni, frequentanti la terza,
quarta e quinta classe delle elementari e la prima classe della
scuola media.
Il questionario adolescenza era diretto alla costruzione
dell’identikit dell’adolescente, ed è stato somministrato a
ragazzi appartenenti alla fascia di età 12-19 anni, frequentanti
la seconda e la terza media o una delle cinque classi degli
istituti superiori. La rilevazione sul campo ha riguardato 80
scuole di ogni ordine e grado, mentre i questionari pervenuti e
analizzati sono stati 2.823 per quanto riguarda l’infanzia e
3.453 per l’adolescenza.
La rilevazione è stata realizzata tramite la somministrazione di
un questionario semistrutturato ad alternative fisse
predeterminate, composto in prevalenza da domande a risposta
chiusa o semichiusa (con possibilità per l’intervistato di
aggiungere una propria risposta a quelle già previste). La
modalità delle domande chiuse o ad alternativa fissa
predeterminata ha consentito di ottenere, oltre ad un elevato
tasso di risposta al questionario, una più efficace
standardizzazione ed una maggiore facilità di codifica e di
analisi delle risposte fornite dagli studenti.
Il questionario infanzia ha rilevato l’opinione dei
bambini in merito ai seguenti ambiti di riflessione: rapporto
con il mondo degli adulti e modelli educativi (qualità del
rapporto con i genitori, con i nonni e gli insegnanti, reazioni
degli adulti ai comportamenti inadeguati e scorretti dei
ragazzi, conflittualità tra i genitori, ecc.), il significato
dell’esperienza scolastica, l’educazione religiosa a scuola,
valori morali e senso civico (comportamenti illegali e/o
scorretti, i criteri per la selezione delle amicizie),
il rapporto con il medium televisivo (qualità della
programmazione televisiva, gradimento dei reality show, grado di
fiducia nell’informazione televisiva, ecc). Per i bambini,
inoltre, è stata prevista una specifica sezione del questionario
sulla paura della guerra e del terrorismo.
Il questionario adolescenza ha verificato la percezione
degli adolescenti in ordine alle seguenti aree tematiche: rapporto
con il mondo degli adulti e modelli educativi, qualità e
funzionalità del sistema scolastico (il significato della
scuola nella progettualità degli adolescenti, efficacia della
formazione scolastica per l’ingresso nel mondo del lavoro,
l’insegnamento della religione a scuola, ecc.), il rapporto
con il futuro e l’atteggiamento dinanzi ai principali problemi
socio-politici, il sistema di certezze e di valori degli
adolescenti (comportamenti illegali e/o immorali, l’opinione
degli adolescenti su aborto, eutanasia, pena di morte, ecc.),
il rapporto con il medium televisivo.
Identikit del bambino
Rapporto con il mondo degli adulti e modelli educativi.
Un’analisi accurata del vissuto dei bambini all’interno del
nucleo famigliare appare di grande rilievo anche per valutare
l’evoluzione dei modelli educativi e le caratteristiche del
rapporto tra genitori e figli nella società contemporanea. Molto
spesso oggi si parla di un’eccessiva tolleranza educativa da
parte dei genitori. Da più parti infatti si denuncia il rischio,
per i genitori, di cadere nell’incapacità di imporre limiti, di
far rispettare regole, di aprire un confronto critico, in parte
per volontà di evitare conflitti in ambito familiare, in parte
per tacitare il senso di colpa derivante dal poco tempo a
disposizione da dedicare ai figli.
Quasi un terzo (31,3%) dei bambini intervistati affermano che i
genitori si arrabbiano soprattutto quando non fanno quello che
viene detto loro di fare. Il 20,3% dei bambini suscita l’ira dei
genitori in particolare quando non studia, il 16,6% quando fa
cose pericolose, il 16% quando non dice la verità. Una quota
meno elevata di intervistati (8,3%) fa invece riferimento a
quando prende un cattivo voto a scuola e solo una minoranza
(3,2%) sostiene che i genitori si arrabbiano principalmente
quando sono nervosi. La disobbedienza rappresenta quindi la
prima ragione dei rimproveri dei genitori nei confronti dei
figli. Fra le femmine è più elevata che fra i maschi la quota di
chi afferma che i genitori si arrabbiano soprattutto quando non
viene fatto quello che dicono (35,4% contro 27,3%); fra i maschi
è invece più alta che fra le femmine la percentuale di chi dice
di far arrabbiare i genitori soprattutto quando non studia
(22,2% contro 18,1%).
Il 43% dei bambini intervistati afferma che di solito i
genitori, quando sono arrabbiati con loro, li sgridano; è alta
anche la percentuale di genitori che invece spiegano ai figli
perché hanno sbagliato (36,5%). L’11,5% dei bambini sostiene che
i genitori li puniscono, il 5,8% che li picchiano, il 2,5% che
non parlano con loro per un po’. I maschi, secondo quanto
dichiara il campione, vengono puniti (14,7% contro 8,2%) o
picchiati (7% contro 4,7%) dai genitori più spesso delle
femmine. Sembra invece che alle bambine venga spiegato più
spesso perché hanno sbagliato (39,4% contro 33,6%).
Ai bambini è stato chiesto anche come sono soliti comportarsi
quando vogliono ottenere qualcosa dai loro genitori.
Oltre la metà degli intervistati (52,7%) afferma che si impegna
per meritarla. Il 15,2% dei bambini la chiede invece con
insistenza, il 12,9% cerca di convincere i genitori delle
proprie ragioni, il 10,5% dice che ce l’hanno i suoi amici, il
6,1% si lamenta. In particolare, i maschi utilizzano più spesso
delle femmine il confronto con i loro amici (il 12,6% contro
l’8,5%), al contrario, più raramente si impegnano per meritarlo
(il 51,2% dei maschi contro il 54,4% delle femmine),
testimoniando un atteggiamento meno maturo di quello delle loro
coetanee.
Un’altra domanda rivolta al campione indaga in che modo,
nella percezione dei bambini, le risorse economiche famigliari
vengono distribuite fra i vari componenti. Metà degli
intervistati (50,7%) ritiene che i loro genitori spendano in
modo equilibrato per ciascun componente della famiglia, mentre
secondo oltre un terzo dei bambini (35,5%) i genitori spendono
più per i figli che per se stessi. Quote minori di intervistati
affermano che i genitori spendono soprattutto per la casa (6,7%)
o più per se stessi che per i figli (2,4%). Una percentuale
fortunatamente bassa di bambini (2,3%) crede che i propri
fratelli vengano privilegiati, nelle spese, rispetto a loro.
Sembra in effetti molto diffusa, oggi ancor più che in passato,
la tendenza, da parte dei genitori, a destinare la maggior parte
delle risorse economiche disponibili ai figli, sia per le
necessità oggettive sia per il superfluo.
Per comprendere quale idea del ruolo di genitore abbiano oggi i
bambini, è stato chiesto al campione che cosa i genitori
dovrebbero essere soprattutto, secondo loro. La quota più
alta di bambini ritiene che un genitore dovrebbe essere
soprattutto un esempio (34,8%). Per il 18,8% dei bambini,
invece, un genitore dovrebbe essere un amico, per il 17,6% una
guida, per il 16,6% un sostegno, per il 7,7% un rifugio. Le
bambine affermano più spesso dei bambini che un genitore
dovrebbe essere un amico (21,8% contro 15,8%) ed anche, in
percentuale lievemente maggiore rispetto ai maschi, un sostegno
o un rifugio. I bambini ritengono invece, in percentuale
maggiore rispetto alle coetanee, che un genitore dovrebbe essere
una guida (19,7% contro 15,2%) e un esempio (38,1% contro
31,5%).
Ai bambini è stato poi domandato cosa pensano di fare una
volta finiti gli studi o trovato un lavoro. La maggioranza
(56,6%) intende restare in famiglia fino a quando non ne formerà
una propria. Il 19,3% pensa di restare nella sua famiglia
d’origine il più a lungo possibile, mentre al contrario il 17,9%
immagina di andare a vivere per conto proprio. I maschi, più
spesso delle femmine, manifestano il proposito di restare nella
loro famiglia di origine il più a lungo possibile (21,5% contro
17,1%). Le bambine pensano invece, in percentuale leggermente
superiore rispetto ai bambini, di andare a vivere per conto loro
(il 18,6% contro il 16,9% dei maschi) o di restare in famiglia
fino a quando ne formeranno una propria (58,7% contro 55%). I
dati possono essere letti come il risultato di una maggiore
propensione femminile a raggiungere subito l’indipendenza ed a
formare un nuovo nucleo famigliare.
Una domanda cruciale, nell’ambito di questa sezione del
questionario, è quella che chiede ai bambini di valutare la
qualità dei loro rapporti con i genitori. Dalle risposte
emerge un quadro molto confortante: i rapporti con i genitori
vengono definiti ottimi nel 60,8% dei casi, buoni nel 34,8%,
mediocri nel 2,7%, pessimi nello 0,8%. In relazione al sesso
degli intervistati, è possibile notare che fra le femmine è
leggermente più alta che fra i maschi la percentuale di chi
definisce ottimi i rapporti con i genitori (62% contro 59,5%).
Sono state quinidi messe in relazione la qualità dei
rapporti tra genitori e figli ed il comportamento dei genitori
quando si arrabbiano con i figli. Fra i bambini che hanno
ottimi rapporti con i genitori è più alta della media la
percentuale di chi afferma che i genitori quando sono arrabbiati
spiegano loro perché hanno sbagliato (43%), mentre risulta più
bassa la percentuale di chi viene picchiato o punito. Esiste
quindi una relazione tra un buon dialogo e l’abitudine ad
argomentare le proprie ragioni ed un ottimo rapporto fra
genitori e figli. Al contrario, i bambini i cui rapporti con i
genitori vengono definiti pessimi affermano in percentuale
superiore alla media di essere picchiati o puniti quando i
genitori sono arrabbiati con loro; i comportamenti più severi si
registrano in corrispondenza con le dinamiche familiari più
conflittuali.
Nella larga maggioranza delle famiglie (71,2%) le decisioni
importanti che riguardano i bambini vengono prese insieme;
nel 21,4% dei casi decidono i genitori, nel 3,4% decide il
padre, nel 2,9% la madre. Inoltre, nelle famiglie in cui le
decisioni che riguardano i bambini vengono prese insieme, è più
alta che nelle altre la percentuale di soggetti che definiscono
ottimi i loro rapporti con i genitori (66,8%). Nei casi in cui è
la madre a prendere le decisioni importanti risultano
particolarmente alte le quote di bambini che considerano pessimi
(8,6%) o mediocri i rapporti con i genitori (11,1%).
Oltre al potere decisionale dei bambini all’interno del nucleo
familiare, è stata indagata anche la propensione dei genitori
ad accondiscendere alle richieste ed ai desideri dei figli.
Gli intervistati, nella grandissima maggioranza del campione
(85,6%), sostengono che i genitori li accontentano se possibile.
Seppur minoritaria è degna di attenzione la percentuale di
bambini che viene accontentata sempre (12,2%), mentre sono molto
pochi quelli che dicono di non essere accontentati mai (1%).
Anche la propensione da parte dei genitori ad accogliere le
richieste dei figli risulta in relazione con la qualità del
rapporto. Fra i bambini che non si sentono mai accontentati dai
genitori sono più numerosi che fra gli altri quelli che
considerano pessimo (10,7%) o mediocre (14,3%) il loro rapporto
con i genitori. I bambini che vengono sempre accontentati dai
genitori definiscono invece ottimo il loro rapporto con essi in
percentuale superiore a tutti gli altri (70,8%). I bambini le
cui richieste non vengono mai accolte dai genitori pensano più
spesso, rispetto agli altri, di andare a vivere per conto loro
una volta adulti (32,1%); quelli che invece vengono accontentati
sempre pensano più spesso di restare in famiglia il più a lungo
possibile (31,8%).
Al campione sono state rivolte anche alcune domande in merito ad
una serie di comportamenti scorretti che possono essere messi
in atto dai bambini. I bambini intervistati affermano di
rispondere male ai genitori qualche volta nel 71,8% dei casi,
mai nel 16,9%, spesso nell’8,4%, continuamente nell’1,7%.
Mettendo in relazione le risposte fornite a questa domanda con
la frequenza con cui i bambini vengono accontentati dai
genitori, è interessante notare una relazione positiva tra il
rispondere male ai genitori continuamente e l’essere
accontentati sempre (27,1%), come ad indicare una categoria di
bambini viziati, poco propensi ad accettare gli appunti dei
genitori e meno rispettosi degli altri. Si osserva una
correlazione anche fra il fatto di rispondere male continuamente
e non vedere mai accolte le proprie richieste (8,3%); senza
poter stabilire un rapporto causale tra i due elementi è
possibile inquadrare in questa categoria di bambini un rapporto
più conflittuale con i genitori.
Per quanto riguarda l’abitudine di interrompere le persone
mentre stanno parlando, invece, la larga maggioranza (65,4%)
afferma di farlo qualche volta, il 15% spesso, il 14,7% mai, il
4,3% continuamente. La metà dei bambini (50,4%) dice di non
comportarsi mai in modo offensivo verso chi gli sta intorno, il
41,2% dice di farlo qualche volta, il 5,4% spesso, l’1,4%
continuamente. È preoccupante notare come, sebbene più della
metà degli intervistati dica di non buttare mai carta, lattine o
altro per terra, ben il 32,7% dice di farlo qualche volta, ed il
5,9% e 2,5% addirittura spesso o continuamente. Dire parolacce
risulta uno dei più diffusi tra i comportamenti presi in esame:
il 55,5% dice di farlo qualche volta, il 24,2% mai, il 14,6%
spesso ed il 4% continuamente. Solo pochissimi bambini affermano
di fare scritte sui muri (il 91,9% dice di non farlo mai), e
sono una minoranza anche quelli che dicono di urlare e fare
chiasso in presenza di persone estranee alla famiglia (il 76,6%
dice di non farlo mai). Inoltre, il 46,1% degli intervistati
sostiene di non urlare e fare chiasso in presenza di persone
appartenenti alla propria famiglia, il 34,7% dice di farlo
qualche volta, il 7% spesso, l’1,6% continuamente. Nel complesso
i maschi ammettono di attuare più spesso rispetto alle femmine
comportamenti deprecabili: interrompono le persone mentre stanno
parlando “spesso” nel 17,3% dei casi (contro il 12,5% delle
bambine); non dicono mai parolacce solo nel 19,3% dei casi,
contro il 29,6% delle bambine; non fanno mai chiasso in presenza
di persone estranee alla loro famiglia nel 73,4% dei casi,
contro il 79,7% delle bambine. Al campione è stato chiesto anche
quale reazione mettono in atto gli adulti nel momento in cui
i bambini assumono comportamenti sbagliati. Prevalgono
nettamente i bambini che affermano che in questi casi gli adulti
di loro conoscenza, mantenendo la calma, spiegano perché non
bisogna comportarsi in modo scorretto (42,8%). Il 18,9% del
campione afferma che gli adulti sgridano i bambini che si
comportano male, il 15,6% dice che li rimproverano, ma non più
di tanto, l’11,9% che li sopportano e li giustificano perché i
bambini non hanno ancora l’età per capire come devono
comportarsi, il 5,9% che li puniscono.
Nella scala dei valori i genitori danno priorità assoluta
allo studio: la pensa così il 17,5% dei bambini intervistati.
Inoltre, i genitori insegnano ai propri figli che nella vita è
importante essere sempre se stessi (12,9%), avere fede in Dio
(12,2%), rispettare il prossimo (11,2%) ed essere onesti
(10,9%). Per fortuna, solo una ridotta quota di genitori indica
nel successo (1,3%) e nella realizzazione professionale (4,2%) i
valori importanti della vita. Ai maschi viene detto che, subito
dopo lo studio, nella vita è necessario avere fede in Dio
(12,8%), essere onesti (11,4%), farsi rispettare (10,6%),
rispettare il prossimo (10,5%) ed essere sempre se stessi
(10,4%). Alle femmine invece subito dopo lo studio viene
insegnato che è importante essere se stesse (15,4%), rispettare
il prossimo (11,9%), avere fede in Dio (11,7%), essere oneste
(10,3%) e farsi rispettare (9,9%).
Di particolare interesse è la percezione dei bambini su
quello che i genitori sono disposti a dispensare ed offrire
senza remore né riserve. I risultati ci rimandano un
rapporto incentrato innanzitutto sull’affetto (44%) e in misura
inferiore sulla fiducia (16%). Poco più di un bambino su dieci
riceve dai genitori i consigli opportuni (11,8%) e il necessario
(11,7%).
Quasi tre bambini su quattro sostengono che nei loro momenti
difficili i genitori ci sono sempre (71,3%). Non avviene sempre
così invece per il 25,8% del campione. Sono le femmine
(73,7%), abituate a dialogare maggiormente con i genitori, più
dei maschi (68,9%) ad avvertire una presenza costante dei
genitori nei loro momenti difficili.
Non è in nessun caso educativo litigare in presenza dei figli;
nonostante ciò, più della metà dei bambini intervistati ha
risposto che qualche volta ha assistito alle discussioni tra i
propri genitori (58,3%). L’altra metà del campione si divide tra
il 12,5% di coloro che affermano che ciò avviene spesso e il
25,6% di quelli che dichiarano di non aver mai assistito a
nessun litigio fra i loro genitori. Ma in che modo sono soliti
litigare i genitori dei bambini intervistati? La quasi totalità
del campione indica come modalità più diffusa quella di
discutere tenendo alto il tono della voce (78,1%). Seguono il
6,3% dei bambini che comprendono le discussioni tra i propri
genitori dal broncio che questi portano e il 2,7% che assiste a
pacate discussioni. Sono per fortuna poco numerosi i bambini che
hanno visto i propri genitori picchiarsi (1%) o dirsi brutte
parole (1,5%).
Anche se complessivamente a più di un bambino su due è stato
chiesto di fare lavori contro la propria volontà spesso
(14,3%) o anche qualche volta (42,8%), non è detto che il
modello familiare sia di tipo autoritario. Un bambino infatti
potrebbe includere tra i lavori contro la propria volontà i
servizi domestici, come ad esempio il riordino nella propria
cameretta, che dovrebbe invece essere considerato normale
routine.
Il sistema scolastico visto dai bambini. Si è
chiesto ai giovani intervistati in che modo definirebbero la
scuola. Il 48,6% dei bambini afferma che la scuola è
interessante perché si imparano cose nuove, per il 25,9% è
un’occasione per stare insieme ai ragazzi della stessa età, per
il 14% è una tappa obbligatoria della vita, per l’8% è il posto
peggiore dove trascorrere la giornata, per l’1,6% è noiosa
perché non si fanno mai cose nuove.
I maschi si esprimono in termini negativi più spesso rispetto
alle femmine: il 12% definisce la scuola il posto peggiore dove
trascorrere la giornata (contro il 4,1% delle bambine), il 16,2%
una tappa obbligatoria (contro l’11,8% delle bambine). Le
femmine considerano invece con maggior frequenza la scuola
interessante perché si imparano cose nuove (53,3% contro il
43,8% dei maschi).
I bambini auspicano che a scuola, piuttosto che laboratori
linguistici o informatici efficienti, ci sia sempre un rapporto
piacevole e comprensivo con i propri compagni e con i propri
docenti. Infatti gli intervistati attribuiscono in assoluto
massima importanza ad avere nella propria classe compagni
simpatici (68%), insegnanti comprensivi (64,9%) e
contemporaneamente preparati (65,1%). Un intervistato su due si
augura invece che le materie vengano spiegate in maniera
coinvolgente (50,2%). I due sessi esprimono in alcuni casi
giudizi lievemente diversi sugli aspetti più importanti da
ritrovare a scuola. Le bambine, pur se in misura leggermente
superiore ai maschi, attribuiscono massima importanza alla
comprensione da parte dell’insegnante (68,4%), alla simpatia dei
compagni (68,3%) e al coinvolgimento disciplinare (52,7%). Che
il laboratorio informatico funzioni o che l’edificio scolastico
sia ben tenuto, è un aspetto che interessa in misura superiore
soprattutto i maschi.
Relativamente ai progetti dei bambini per il loro futuro,
i dati evidenziano che la percentuale più alta di soggetti
vorrebbe continuare a studiare (43,9%). Molti bambini vorrebbero
studiare e lavorare allo stesso tempo (25,2%), ma non mancano
quelli che desidererebbero smettere di studiare per andare a
lavorare (21,4%). Un 3,4% di bambini afferma che vorrebbe non
fare nulla, mentre il 6,1% non sa rispondere alla domanda.
Maschi e femmine si differenziano in merito ai loro progetti
futuri sostanzialmente per un aspetto: fra le bambine risulta
più alta che fra i bambini la quota di chi vorrebbe continuare a
studiare dopo la scuola dell’obbligo (49,7%, contro il 38,8% dei
maschi), i bambini affermano invece più spesso delle coetanee di
voler smettere di studiare per andare a lavorare (26,3% contro
15,9%).
Sono state poi indagate le opinioni dei bambini riguardo il
tipo di religione che dovrebbe essere insegnata a scuola. In
questo senso, prevale tra i bambini un atteggiamento di apertura
e disponibilità nei confronti delle altre religioni. Alla
domanda infatti circa il tipo di religione che dovrebbe essere
insegnata a scuola, quasi un bambino su due (48,3%) ha risposto
“tutte quelle in cui credono i bambini”. Sebbene prevalgano
abbondantemente tra i bambini di entrambi i sessi apertura e
disponibilità nei confronti dell’insegnamento nella scuola di
tutte le religioni, è possibile evidenziare la presenza di
alcune differenze. L’apertura alle altre religioni caratterizza
soprattutto le bambine: ben il 51,3% delle intervistate, contro
il 45,3% dei bambini, afferma che a scuola debbano essere
insegnate tutte le religioni.
La netta maggioranza dei bambini intervistati afferma di non
rispondere mai male ai propri insegnanti (78,2%); il 17,1% lo fa
invece qualche volta, l’1,7% spesso, lo 0,8% continuamente. Sono
decisamente più numerosi fra i maschi che fra le femmine gli
alunni a cui capita di rispondere male agli insegnanti: il 71,5%
non lo fa mai, contro ben l’84,9% delle bambine, il 22,7%
qualche volta (contro l’11,4%), il 2,2% spesso (contro l’1,1%),
l’1,2% continuamente (contro lo 0,4%).
Alla maggioranza dei bambini (il 63,9%) è capitato “qualche
volta” di prendere un cattivo voto a scuola. Solo ad una
minoranza del campione (il 10,9%) succede di prendere spesso un
brutto voto, mentre al 24% degli intervistati non è mai
capitato. Le bambine mostrano di essere alunne più diligenti
rispetto ai propri coetanei. Tra di esse, appena l’8,1% ha preso
“spesso” un cattivo voto a scuola, contro il 13,7% dei
maschietti; il 28,6%, poi, non ha mai preso un’insufficienza, a
fronte del 19,4% registrato tra i bambini. Ai bambini cui è
capitato di prendere brutti voti a scuola è quindi stato chiesto
di descrivere in che modo avessero reagito i loro genitori.
Questi si sono arrabbiati in oltre i 3/5 dei casi (il 60,8%). Il
25,1% dei bambini ha invece risposto che i propri genitori non
si sono preoccupati più di tanto (19,7%) o che sono stati
comprensivi e hanno cercato di aiutarli (5,4%). Solo una piccola
minoranza, infine, afferma che i propri genitori hanno dato la
colpa ai professori (1%) o alla scuola che non funziona (0,3%).
I valori. Si è cercato, in particolare, di
scoprire a quali valori i bambini del terzo millennio fanno
ancora riferimento, che cosa ritengono sia giusto o sbagliato
fare, che cosa si aspettano da un amico. È emerso che i bambini
fondano i rapporti di amicizia ricercando nell’altro gli stessi
interessi/hobby (19%) e gli stessi valori (18,8%). L’età incide
invece solo per il 9,7% degli intervistati, la fede religiosa
per il 6,9% dei bambini e la simpatia soltanto per il 5,4% del
campione. Gli stessi gusti musicali (2,1%), le idee politiche
(2%) e l’abbigliamento (1,5%) occupano gli ultimi gradini della
classifica con percentuali marginali.
Le qualità da condividere in un rapporto di amicizia si
differenziano significativamente sotto diversi aspetti. Le
preferenze delle femmine si concentrano prevalentemente sugli
stessi valori (20,5%), sulla fede religiosa (7,4%), sulla
simpatia (6,6%) e in ultimo sui medesimi gusti musicali (2,3%) e
sullo stesso modo di vestire (2%). I maschi mettono invece al
primo posto gli interessi/hobby (19,7%) e subito dopo l’età
(11,6%). L’attrazione maschile per l’ambiente sportivo è un
risultato prevedibile e costituisce un aspetto importante ai
fini della scelta delle amicizie per l’8,6% dei bambini
intervistati.
Il 66,8% del campione, inoltre, si scopre animalista, giudicando
molto grave il maltrattamento degli animali. I bambini
manifestano sensibilità anche in relazione all’uso scorretto del
motorino e del codice stradale, considerando rispettivamente
molto grave andare in due sul motorino (32,7%) e ancor di più
senza casco (55,8%). Quasi un bambino su due (49,2%) considera
molto scorretto marinare la scuola fingendosi malati. Anche la
fedeltà e il rispetto degli affetti dei propri amici si
presentano valori importanti per i bambini, che attribuiscono un
elevato grado di gravità al tradimento del proprio ragazzo/a
(41,8%) e al corteggiamento della ragazza/o di un amico/a
(38,7%).
L’utilizzo più diffuso di Internet è comprensibilmente, per un
bambino di 7 anni o poco più, legato all’entertainment, al
divertimento e alla musica. Si spiega così come scaricare musica
da Internet sia considerato un comportamento per niente o poco
grave complessivamente da un consistente 57,9% del campione.
Discorso simile anche per l’acquisto dei videogiochi/cd pirata
che, pur se costituisce reato, non è per niente grave per più di
due bambini su quattro (22,9%) e poco grave per il 20% del
campione.
Il sesso degli intervistati risulta in relazione con gradi di
considerazione diversi. Le femmine sono più sensibili a
comportamenti scorretti a scuola: la percentuale ad esempio
delle bambine che considerano grave copiare un compito in classe
è complessivamente pari al 68,1%, quella dei maschi si attesta
al 62,3%. Un’ulteriore conferma della maggiore regolarità delle
femminucce nei confronti del sistema scolastico, perviene dai
risultati percentuali riguardo il giudizio espresso sul fingersi
malati per non andare a scuola: il 71,9% delle bambine lo
considera un comportamento abbastanza (21%) e molto (50,9%)
grave, i maschietti lo giudicano grave complessivamente nel
63,7% dei casi.
Le femmine desiderano inoltre più fedeltà nei rapporti tra
fidanzati, giudicando molto grave il tradimento del proprio
ragazzo in misura leggermente superiore ai maschi (il 43,5%
delle femmine contro il 40,4% dei maschi).
I maschi sono più permissivi in relazione al download da
Internet della musica che viene considerato dagli stessi
un’attività nel complesso non perseguibile (per niente grave per
il 40,2% e poco grave per il 20% dei maschi).
Riguardo la guida del motorino senza casco o la guida dello
stesso con passeggero non si deducono differenze percentuali
significative tra i due sessi.
Il maltrattamento degli animali invece rende sensibili
maggiormente le femmine che nel 70,4% (contro il 63,5% dei
maschi) dei casi dichiarano molto grave tale condotta.
Chiamati, invece, a valutare gli aspetti e le caratteristiche
che nei rapporti interpersonali, più li infastidiscono, i
bambini hanno espresso giudizi significativi. Non sono
apprezzate in assoluto le persone cattive (20,1%), prepotenti
(18,7%) e disoneste (16,8%). L’egoismo viene indicato come un
aspetto negativo della personalità dal 15,7% del campione.
Inoltre, non riscuotono consensi le persone superbe (7,9%),
ipocrite (6,4%), vigliacche (5,8%) e avare (3,6%).
La differenza di genere si conferma una variabile di qualche
rilievo: spicca, in particolare, il dato relativo alla
percentuale di bambine che affermano di respingere la cattiveria
come caratteristica più fastidiosa: il 22,4% del complesso.
Seguono prepotenza, egoismo, e disonestà che raccolgono
rispettivamente le seguenti percentuali: 16,7%; 15,6% e 14,8%.
I maschi sono infastiditi in assoluto dalla prepotenza (20,6%),
dalla disonestà (18,7%) dalla cattiveria (17,5%) e dall’egoismo
(15,6). Non si riscontrano differenze significative per le altre
voci.
Ammirevole che i bambini già in tenera età comprendano
l’importanza e il valore dell’onestà, che risulta infatti la
qualità più apprezzabile in una persona (35,3%). Secondo gli
intervistati una persona, oltre che onesta, dovrebbe essere
simpatica (30,3%) e intelligente (11,5%). L’altruismo interessa
soltanto il 9,2% dei bambini e ancor meno il coraggio che viene
apprezzato soltanto dal 4,5% del campione. La bellezza (3,2%) e
la creatività (1,6%) sono caratteristiche considerate da una
ridotta parte dei bambini. Lo scorporo dei dati per differenza
di genere non si rivela in questo caso una variabile
significativa. Infatti l’ordine di preferenza con cui vengono
indicate le caratteristiche apprezzabili in una persona è il
medesimo sia per i maschi che per le femmine. Ma sono più le
femmine che non i maschi ad apprezzare l’onestà (36,7%) e la
simpatia (32%). L’intelligenza (13%), l’altruismo (9,5%) e il
coraggio (5%) sono invece doti che trovano maggiore consenso tra
ia maschi.
Televisione. Una parte dell’indagine è stata
dedicata al rapporto che i bambini hanno con la televisione. È
sembrato interessante conoscere il giudizio dei soggetti su tale
mezzo di comunicazione e sull’attendibilità delle informazioni
da esso veicolate.
In primo luogo è stato chiesto ai bambini di indicare se, ed
eventualmente con chi, guardano i programmi che espongono il
bollino rosso. Conforta il risultato della rilevazione da cui
risulta che quasi un bambino su due (46,5%) non guarda mai tali
programmi e che chi lo fa è solitamente in compagnia di adulti
(24,3%) e amici/fratelli (9,1%). Non è comunque da sottovalutare
la percentuale di intervistati (17,4%) che guardano i programmi
televisivi a loro vietati. Il rispetto dei divieti sulla
programmazione televisiva non adatta ad un pubblico minorenne si
differenzia in parte in relazione al genere: le bambine (56,0%)
dichiarano infatti di non guardare mai programmi che hanno il
bollino rosso in misura decisamente superiore ai maschi (37,2%).
Coerentemente è molto più alta la percentuale dei bambini
(24,8%) che guardano da soli i programmi a loro vietati,
rispetto alle bambine (9,9%).
Per quanto riguarda i giudizi espressi nei confronti della
programmazione televisiva il dato più evidente è che la
grande maggioranza dei bambini (85,8%) si diverte con la Tv e il
78,1% la trova anche molto interessante. Decisamente meno alta
la percentuale di soggetti che considerano la televisione
educativa (42,4%). Coerentemente col fatto che l’85,8% dei
bambini definisce la Tv divertente, per il 64,3% del campione
non è noiosa e per il 46,3% non è neanche violenta.
La percentuale dei bambini che reputano la Tv volgare (40,3%) si
mantiene coerente con i risultati dell’indagine realizzata lo
scorso anno (Quarto Rapporto Nazionale sulla Condizione
dell’Infanzia e dell’Adolescenza, 2003). È diminuita invece
la percentuale di chi non la considera volgare, passando dal
47,3% del 2003 al 34,9% di quest’anno.
Poco meno di un terzo dei bambini afferma di non guardare
programmi come Grande fratello o Uomini e donne.
Sono nel complesso numerosi (pari al 16,8% del campione) i
bambini che vorrebbero parteciparvi attivamente. Se il 15% li
giudica falsi, l’11% ritiene al contrario che essi rappresentino
la vita di tutti i giorni. I bambini che ritengono questi
programmi volgari (7,5%), noiosi (6,3%) o addirittura orribili
(1,2%), costituiscono il 15% del campione, mentre un lieve
apprezzamento (“non sono male”) è espresso da una minoranza
estremamente contenuta di bambini (appena l’1,2%). Nei confronti
di programmi come Grande fratello o Uomini e donne,
il campione sembra dunque dividersi in tre gruppi: i bambini che
non li guardano mai (31,2%), quelli che li apprezzano in misura
variabile (29,2%) e quelli che esprimono un giudizio negativo
(29,9%). Non esprime, invece, alcun giudizio al riguardo l’8%
dei bambini.
La distribuzione dei dati in base al sesso evidenzia che sono
più numerose, rispetto ai loro coetanei, le bambine che guardano
programmi come Grande fratello o Uomini e donne e
che mostrano un certo apprezzamento nei loro confronti. Il 36%
dei maschietti, contro un più contenuto 26,5% di bambine,
afferma di non guardare questa tipologia di programmi. Tra le
bambine è maggiore sia la percentuale di quante vorrebbero
parteciparvi (19,4%, contro il 13,8% dei coetanei), sia quella
di coloro che ritengono che questi programmi rappresentino la
vita di tutti i giorni (14,7% contro il 7,8% dei maschietti) o
pensano che tutto sommato non siano male (1,9%, contro lo 0,6%).
Queste trasmissioni sono al contrario giudicate noiose (7,4%),
false (15,9%), volgari (7,5%) o perfino orribili (1,6%) dal
32,4% dei bambini e dal 27,5% delle bambine.
Gli intervistati ripongono nel complesso abbastanza fiducia nei
telegiornali e nei programmi d’informazione. Sebbene,
infatti, circa un quinto del campione affermi di credere solo
qualche volta (20,5%) a quello che dicono, e il 3,2% mai, il
45,2% dichiara di credervi “spesso” (17,7%) o “sempre” (27,5%).
Per il 27,1% del campione si tratta invece di una fiducia
condizionata, dipendente dal programma. Lo scorporo delle
risposte in base al sesso dell’intervistato evidenzia come tra i
maschi vi sia una maggiore presenza di bambini scettici nei
confronti dei programmi d’informazione: il 4,6%, contro l’1,2%
delle coetanee, dice di non credere “mai” a quanto affermato da
telegiornali e programmi d’informazione. Tra questi è tuttavia
anche più elevata sia la percentuale di quanti affermano di
credervi “qualche volta” o “spesso” (40,1%, a fronte del 36,6%
delle bambine) che quella di quanti ripongono una completa
fiducia (28,3%, contro il 26,5%). La fiducia nei confronti di
questo genere di trasmissioni è invece condizionata al programma
soprattutto tra le bambine (30,8%, contro il 23,1% dei maschi).
Guerra e terrorismo. Una sezione del questionario
è stata dedicata al tema della guerra e del terrorismo.
Ben il 71,6% del campione afferma di avere “abbastanza” (24,5%)
o “molta” (47,1%) paura del terrorismo, mentre circa 1/4
degli intervistati dichiara, al contrario, di avere “poca” o
“nessuna” paura nei confronti di questo fenomeno. In
particolare, la paura del terrorismo è più diffusa tra le
bambine: appena il 3,4% afferma di non averla, contro il 15,8%
dei coetanei. Tra le intervistate il sentimento di paura è
vissuto anche con maggiore intensità: oltre i 4/5 delle bambine,
contro il 61,6% dei bambini, si dicono infatti “molto” (56,8%) o
“abbastanza” (25,1%) spaventate dal terrorismo.
La maggior parte dei bambini ha poi parlato del problema del
terrorismo con i genitori (64%) e a scuola (62%). Solo il 35% ne
ha parlato con gli amici. Tra le bambine è più elevata la
percentuale di quanti hanno parlato del problema del terrorismo
a scuola (63%) o con i genitori (65,8%). Tra i loro coetanei il
terrorismo è stato affrontato con maggiore frequenza anche con
gli amici (nel 37,4% dei casi).
Il sentimento di paura nei confronti del terrorismo è
maggiormente diffuso tra i bambini che hanno parlato del
fenomeno con qualcuno, tra i quali la percentuale di quanti
affermano di provare “abbastanza” o “molta” paura è
sistematicamente più elevata. Nello specifico, essa è pari al
76,7% tra coloro che hanno parlato del terrorismo con i
genitori, mentre scende al 66,4% tra i bambini che non hanno
affrontato questo tema con il padre e la madre. Allo stesso
modo, afferma di avere “molta” o “abbastanza” paura anche il
76,6% dei bambini che ne hanno parlato a scuola, a fronte del
67,8% di coloro che non lo hanno fatto, ed il 74,9% dei bambini
che hanno parlato del terrorismo con gli amici, percentuale che
scende al 72,5% tra quanti non hanno affrontato il problema con
i coetanei. Di fronte al terrorismo, dunque, non solo gli amici,
ma anche i genitori e gli insegnanti non sembrano riuscire a
fornire alcuna “rassicurazione
Allo stesso modo che per il terrorismo, i dati evidenziano che
la percentuale di bambini cui è capitato di avere paura della
guerra è drammaticamente elevata (76,1%). La guerra turba
soprattutto le bambine: l’86,6% di esse ammette di averne paura
o di averne avuta in passato, contro i 2/3 dei coetanei. Oltre i
4/5 degli intervistati ha appreso della guerra in Iraq dalla
televisione. Considerando anche radio e giornali, circa il 90%
dei bambini è venuto a conoscenza della guerra attraverso i
media. Solo l’8% è stato informato dai genitori e appena lo 0,7%
dagli insegnati. Inoltre, i dati relativi alla paura e alle
modalità di apprendimento della notizia della guerra in Iraq
sono piuttosto sorprendenti. Emerge, infatti, che hanno avuto
paura della guerra soprattutto i bambini che hanno appreso del
conflitto parlandone con i genitori (82,1%), seguiti da quanti
hanno saputo della guerra dai giornali (79%), dalla televisione
(78,2%) e dalla radio (62,9%). Infine, tra i bambini che hanno
appresso del conflitto parlandone a scuola con gli insegnanti,
il 52,4% afferma di aver avuto paura della guerra, a fronte di
un elevato 42,9% che dichiara, invece, di non averne mai avuto
paura. Parlare con qualcuno della guerra ha avuto l’effetto di
alimentare il sentimento di preoccupazione soprattutto tra le
bambine (49,2%, contro un dato maschile del 45,4%), tra le quali
si registra anche una percentuale maggiore di intervistati che
hanno vissuto in solitudine i sentimenti suscitati dalla guerra
(l’11,4% non ne ha parlato con nessuno, contro il 9,3% dei
maschietti).
Oltre i 4/5 dei bambini (l’80,2%) affermano di essere rimasti
impressionati da programmi televisivi che trattavano il tema
della guerra. Sono soprattutto le immagini drammatiche ad aver
scosso i piccoli intervistati (69%). L’11% è rimasto
impressionato per i modi – i termini, le espressioni –
utilizzati dal giornalista per informare sugli aspetti
drammatici dei conflitti, mentre l’1% è rimasto impressionato
per altre ragioni.
Lo scorporo delle risposte in base al sesso degli intervistati,
mostra come sono rimaste impressionate dai programmi televisivi
dedicati al tema della guerra soprattutto le bambine (l’85,7%,
contro il 76,9% dei maschi). Indipendentemente dal sesso, ciò
che ha scosso i piccoli intervistati sono le immagini
drammatiche trasmesse da questi programmi, che hanno
impressionato i 3/4 delle bambine e il 63,3% dei loro coetanei.
Questi sono rimasti colpiti, più delle bambine, dai modi
utilizzati dal giornalista per parlare della guerra (12,6%,
contro il 9,4% registrato tra le intervistate).
La Convenzione Internazionale dei Diritti del Fanciullo.
Una sezione del questionario ha inteso verificare la conoscenza
da parte dei bambini della Convenzione Internazionale dei
Diritti del Fanciullo. L’ampia maggioranza dei bambini (il
61%) è a conoscenza della Convenzione Internazionale dei Diritti
del Fanciullo. Nello specifico, il 35,4% ne ha sentito parlare a
scuola, il 12,5% da Tv e giornali ed il 7,4% in famiglia. Un
altro 5,7%, infine, ne ha sentito parlare da altre fonti. La
quota di bambini che non conoscono la Convenzione è pari al
35,6%. Sebbene si tratti di una minoranza consistente di
intervistati, è possibile osservare come tra il 2002 e il 2004
la percentuale di bambini che non hanno mai sentito parlare
della Convenzione sia diminuita progressivamente: dal 52,5% del
2002 al 47,2% dell’anno seguente ad oggi, pari a poco più di un
terzo degli intervistati. Lo scorporo dei dati per sesso, rileva
come sono soprattutto le bambine ad aver sentito parlare della
Convenzione (63,8%, contro il 58,3% dei maschietti). Il 38%
delle bambine ed il 32,6% dei bambini ne ha sentito parlare a
scuola. Tra i maschietti è più elevata sia la quota di quanti
non hanno mai sentito parlare della Convenzione (38,6%, a fronte
di un dato femminile del 32,7%) che quella di coloro che ne
hanno sentito parlare da Tv e giornali (13,3%, contro l’11,7%
delle bambine).
Ad avviso dei bambini, tra i diritti stabiliti dalla Convenzione
Internazionale dei Diritti del Fanciullo, quelli maggiormente
rispettati sono il diritto ad avere una famiglia (molto o
abbastanza rispettati secondo il 76% del campione), il diritto
alla vita (74%), e il diritto allo studio (71%). Una minoranza
significativa degli intervistati ritiene invece “poco” o “per
niente” rispettati sia il diritto ad essere protetti dai
maltrattamenti (26%) e al rispetto delle proprie opinioni (32%),
che il diritto allo svago e al riposo (33,3%). I bambini
denunciano, tuttavia, in modo particolare, la mancata tutela del
diritto a non essere discriminanti per il colore della propria
pelle, “poco” o “per niente” garantito secondo il parere del
35,5% del campione. In particolare, per una minoranza contenuta
del campione, questi diritti non sono “per niente” rispettati.
Nello specifico, il diritto ad avere una famiglia e il diritto
alla vita non sono in alcun modo rispettati per circa il 3%
degli intervistati; il diritto allo studio ed il diritto ad
essere protetti dai maltrattamenti non sono per nulla tutelati
ad avviso, rispettivamente, del 4% e del 6,8% del campione. Il
7,5% dei bambini ritiene che non sia in alcun modo considerato
il diritto al rispetto delle proprie opinioni, mentre l’8% crede
che non venga per niente osservato il diritto al riposo e allo
svago. Infine, il 12,1% dei bambini è dell’opinione che non sia
per niente rispettato il diritto a non subire discriminazioni
razziali.
Identikit dell’adolescente
Rapporto con il mondo degli adulti e modelli educativi.
È particolarmente interessante prendere in esame le
relazioni dei ragazzi all’i
nterno del nucleo famigliare nel
periodo adolescenziale, quando il loro rapporto con gli adulti,
e in primo luogo con le figure genitoriali, attraversa un
passaggio critico. Nel momento in cui gli adolescenti iniziano
ad affermare la propria individualità i contrasti con i genitori
divengono solitamente più frequenti e rappresentano da un lato
l’espressione del primo distacco dei ragazzi, dall’altro la
conseguenza dell’inevitabile gap generazionale.
Gli adolescenti intervistati, chiamati ad indicare in quale
circostanza in particolare i genitori si arrabbiano con loro,
affermano che ciò avviene quando non fanno quel che viene detto
loro (28%), quando non studiano (21,6%), quando non dicono la
verità (20,8%), quando fanno cose pericolose (11,2%);
percentuali meno elevate di ragazzi dichiarano che soprattutto
quando i genitori sono nervosi si arrabbiano con loro (6,8%); il
6,5% fa arrabbiare padre a madre in particolare quando prende un
cattivo voto a scuola.
La disobbedienza rappresenta quindi il motivo principale di
arrabbiatura per i genitori, ma sono rilevanti anche le
questioni relative alla scuola (scarso studio e cattivi voti) e
le bugie.
Confrontando queste risposte con quelle fornite alla stessa
domanda dai bambini di 7-11 anni, notiamo che non ci sono grandi
differenze, nonostante infanzia ed adolescenza siano due fasi
della vita generalmente molto diverse e, di conseguenza,
caratterizzate da forti cambiamenti nel rapporto fra genitori e
figli. In entrambi i casi la principale causa di arrabbiature
per i genitori rimane la disobbedienza dei figli e lo studio
riveste la stessa importanza; sono invece leggermente più
numerosi, rispetto ai bambini, gli adolescenti che attribuiscono
al nervosismo dei genitori le arrabbiature. Le risposte dei
ragazzi e delle ragazze si differenziano per alcuni aspetti.
Sono più numerosi fra i maschi che fra le femmine i soggetti che
fanno arrabbiare i genitori soprattutto quando non studiano
(29,1% contro 14,1%) e fanno cose pericolose (13%); fra le
femmine sono più alte le percentuali di chi cita come cause di
arrabbiatura il fatto di non fare quello che i genitori dicono
(33,5% contro 22,3%) e le bugie (24,1% contro 17,7%). I dati
rispecchiano una minore propensione maschile per lo studio e una
maggiore tendenza dei ragazzi a mettere in pratica comportamenti
rischiosi.
I comportamenti messi in atto dai genitori quando si
arrabbiano con i figli sono, secondo il campione,
principalmente due: li sgridano (41,7%) e spiegano loro perché
hanno sbagliato (40,8%). L’8,7% dei ragazzi afferma di ricevere
punizioni, il 5% dice che i genitori non gli parlano per un po’,
solo l’1,6% afferma di venire picchiato. Le sgridate sono la
reazione più diffusa, ma molti genitori hanno anche l’abitudine
di spiegare ai figli ciò in cui hanno sbagliato, al fine di
evitare che ripetano l’errore.
Fra gli adolescenti coloro che dicono di ricevere dai genitori
la spiegazione del loro errore sono più numerosi che fra i
bambini; dal confronto fra le risposte dei due campioni sembra
inoltre che con l’aumentare dell’età dei figli i genitori li
puniscano e li picchino meno spesso.
Le reazioni dei genitori, quando si arrabbiano, non risultano
molto diverse in relazione al sesso dei figli; si può solo
segnalare che i maschi affermano di essere puniti leggermente
più spesso delle femmine (10,7% contro 6,7%), le quali, dal
canto loro, affermano di venire sgridate lievemente più spesso
(43,4% contro 40,3%).
Il 40,6% degli adolescenti, quando vuole ottenere qualcosa
dai genitori, cerca di convincerli delle proprie ragioni,
mentre il 34,9% si impegna per meritarla; il 13,2% chiede con
insistenza quello che vuole, il 4,5% dice che ce l’hanno i suoi
amici, il 3,8% si lamenta. Le spiegazioni, le argomentazioni e
la persuasione prevalgono dunque sugli altri comportamenti,
compreso l’impegno per meritare ciò che si vuole, indicato
comunque da oltre un terzo del campione. Sono una minoranza gli
adolescenti che si lamentano o che ricordano ai genitori che gli
amici hanno quel che vogliono.
Negli adolescenti si osservano comportamenti significativamente
diversi rispetto a quelli dei bambini: oltre la metà dei più
piccoli afferma infatti di impegnarsi per ottenere quel che
desidera. Gli adolescenti sembrano invece più propensi a
convincere i genitori che ad assumere e rispettare un impegno
per meritare poi in premio ciò che desiderano. D’altra parte fra
gli adolescenti sono più rari i comportamenti più immaturi come
il confronto con quel che hanno gli amici.
Se il comportamento più utilizzato dai maschi intervistati
quando vogliono ottenere qualcosa è impegnarsi per meritarla (lo
fa il 37,8%, contro il 31,9% delle femmine), quello più
utilizzato dalle femmine è cercare di convincere i genitori
delle proprie ragioni (lo fa il 44,7% contro il 37% dei maschi).
Le ragazze in questa circostanza sembrano quindi puntare più sul
dialogo e sulla persuasione, i ragazzi sull’impegno concreto.
Il 48,9% degli adolescenti afferma che i genitori spendono
più per i figli che per se stessi, molti (39,3%) dicono che le
spese vengono distribuite in modo equilibrato per ciascun
componente della famiglia. Per quote più basse di ragazzi i
genitori spendono soprattutto per la casa (4,5%), più per se
stessi che per i figli (2,1%), più per i loro fratelli (2,1%).
Mettendo i dati a confronto con quelli ottenuti sul campione di
bambini, emerge che gli adolescenti sono più propensi dei
bambini a riconoscere che i genitori spendono soprattutto per i
figli. Ciò può dipendere dal fatto che, crescendo, i figli
richiedono risorse economiche sempre più ingenti alla famiglia,
ma anche dal fatto che i ragazzi più grandi di solito
acquisiscono maggiore consapevolezza dei sacrifici fatti per
loro dai genitori.
Interrogati sul ruolo che, secondo loro, un genitore dovrebbe
rivestire, i ragazzi hanno scelto in modo piuttosto
equilibrato le diverse risposte senza concentrarsi su una in
particolare: per il 28,2% un genitore dovrebbe essere un
esempio, per il 24,6% una guida, per il 20,2% un sostegno, per
il 18,9% un amico; pochi lo vedono invece come un rifugio
(3,4%). Sono meno numerosi che fra i bambini gli intervistati
secondo cui il genitore dovrebbe essere un rifugio.
Osservando le risposte fornite a questa domanda dagli
intervistati dei due sessi, si rileva che fra i maschi sono più
numerosi che fra le femmine i soggetti secondo i quali un
genitore dovrebbe essere un esempio (30,7% contro 25,8%) e una
guida (26,5% contro 23%). Fra le femmine, al contrario, è più
elevata che fra i maschi la percentuale di chi ritiene che un
genitore dovrebbe rappresentare un amico (21% contro 16,8%) ed
un sostegno (23,1% contro 17,4%).
Benché in entrambi i sessi risulti forte il bisogno di una
figura di riferimento comportamentale ed etico, fra gli
adolescenti tale esigenza risulta più diffusa che fra le
adolescenti; queste ultime manifestano più dei coetanei il
bisogno di genitori complici e vicini, pronti a comprendere e
sostenere.
Pensando al proprio futuro, quasi la metà del campione immagina,
una volta finiti gli studi o trovato un lavoro, di andare a
vivere per conto suo (49,6%). Il 39,6% pensa di restare in
famiglia fino a quando ne formerà una sua, solo il 4,8% pensa di
restare in famiglia il più a lungo possibile.
In questo caso appare evidente la differenza fra la posizione
dei bambini e quella degli adolescenti: fra gli adolescenti sono
infatti molto meno numerosi quelli che pensano di restare in
famiglia il più a lungo possibile; solo il 17,9% dei bambini,
inoltre, pensa di andare a vivere per conto suo prima di aver
formato una famiglia sua, mentre quasi la metà degli adolescenti
prevede di fare così. L’età meno giovane rende gli intervistati
meno legati alla famiglia e meno spaventati dall’idea di vivere
da soli, è infatti probabile che le risposte siano influenzate
dal bisogno di distacco e di indipendenza che caratterizza
l’adolescenza. In una fase in cui i ragazzi sentono solitamente
di non avere ancora tutta la libertà e l’autonomia che
desiderano, la prospettiva di vivere da soli appena possibile
appare particolarmente desiderabile.
Incrociando le risposte fornite a questa domanda con il sesso
degli intervistati, si evidenzia un desiderio di indipendenza
leggermente maggiore nelle femmine che nei maschi: il 51,3%
immagina di andare a vivere da sola appena possibile, contro il
47,9% dei coetanei. In qualche misura questa lieve differenza
potrebbe dipendere dal fatto che le adolescenti, rispetto ai
maschi, godono solitamente di minore libertà poiché i genitori
nutrono nei loro confronti maggiori ansie e preoccupazioni; ciò
potrebbe influire sul loro desiderio di sottrarsi a restrizioni
e controlli.
I rapporti fra ragazzi e genitori risultano nella grande
maggioranza dei casi buoni o ottimi (85,7%), solo nel 13,4% dei
casi mediocri o pessimi. In particolare, il 50% degli
intervistati definisce i rapporti buoni, il 35,7% ottimi,
l’11,6% mediocri, l’1,8% pessimi.
La differenza tra le risposte fornite da adolescenti e bambini è
anche in questo caso evidente e prevedibile. Rispetto a quanto
rilevato per i bambini, scende infatti notevolmente la quota di
chi definisce ottimi i rapporti e sale dal 2,7% all’11,6% la
quota di chi li definisce mediocri. L’adolescenza rappresenta
infatti il periodo di maggiore conflittualità tra genitori e
figli, è pertanto più difficile, rispetto all’infanzia, che i
rapporti siano addirittura ottimi. È invece più facile che i
rapporti vengano considerati mediocri dai ragazzi, per via, ad
esempio, di frequenti liti su questioni come la libertà, le
scelte, ma anche per lo scontro tra gli adulti e la personalità
in via di definizione ed in cerca di affermazione degli
adolescenti.
Il 38% degli adolescenti intervistati considera ottimi i
rapporti con i genitori, contro il 33,7% delle adolescenti; in
modo corrispondente per il 13,5% delle femmine i rapporti sono
mediocri, contro il 9,8% dei maschi. Emerge quindi una maggiore
conflittualità delle ragazze con il padre e la madre, forse
perché le femmine maturano solitamente prima e presentano quindi
maggiori esigenze e maggiore desiderio di autonomia; a ciò si
potrebbe aggiungere il fatto che i genitori tendono ad essere
più apprensivi con le figlie e quindi a limitare maggiormente la
loro libertà, e ciò può provocare contrasti famigliari.
Quando si deve prendere una decisione importante che
riguarda direttamente gli adolescenti intervistati, nel 79,9%
delle famiglie si decide insieme, nel 10,8% decidono i genitori,
nel 4,3% decide la madre, nel 2,7% decide il padre. La quasi
totalità dei ragazzi afferma che le proprie richieste e desideri
vengono accontentati dai genitori se possibile (90,6%); il 5,6%
dice di essere accontentato sempre, l’1,8% mai. Prevale quindi
nettamente la ragionevolezza, ma esiste una minoranza di
adolescenti evidentemente viziati ed una quota molto bassa di
soggetti secondo i quali i propri desideri non vengono tenuti in
nessun conto dai genitori.
Un quarto degli adolescenti (25,9%) risponde male ai genitori
spesso o continuamente, ma la maggioranza lo fa qualche volta.
Gli intervistati dichiarano infatti di rispondere male ai
genitori qualche volta nel 65,9% dei casi, spesso nel 20,4%, mai
nel 7,6%, continuamente nel 5,5%.
A conferma della maggiore conflittualità dei rapporti
genitori-figli in età adolescenziale, la frequenza con cui gli
adolescenti rispondono male ai genitori risulta nettamente
superiore a quella registrata per i bambini, sia per il maggior
numero di occasioni di scontro, sia per un atteggiamento dei
ragazzi generalmente più insofferente in questo periodo della
crescita.
I dati mostrano che le ragazze rispondono male ai genitori più
spesso dei ragazzi: il 24,2% afferma di farlo spesso, contro il
16,8% dei maschi, ed il 6,4% continuamente, contro il 4,5% dei
maschi. Questi risultati confermano la maggiore conflittualità
che caratterizza i rapporti tra le adolescenti ed i genitori,
della quale il fatto di rispondere spesso male sembra una
manifestazione.
Agli adolescenti è stato domandato con che frequenza mettono in
atto alcuni comportamenti non rispettosi delle persone e
dell’ambiente. Fra i diversi comportamenti presi in esame, dire
parolacce risulta quello messo in pratica con maggior frequenza
dai ragazzi intervistati (il 34,5% lo fa spesso ed il 13,5%
continuamente), seguito da buttare carta, lattine o altro per
terra (il 19,6% spesso o continuamente), urlare e fare chiasso
in presenza di persone della propria famiglia (il 19,6% spesso o
continuamente), interrompere le persone mentre stanno parlando
(il 17,4% spesso o continuamente). I comportamenti meno adottati
sono invece fare scritte sui muri (l’82,6% non lo fa mai) e
urlare e fare chiasso in presenza di persone estranee alla
propria famiglia (il 74,8% mai).
Gli adolescenti, in generale, si comportano più spesso in modo
scorretto rispetto ai bambini, ed in particolare molto più
frequentemente dicono parolacce, urlano e fanno chiasso in
presenza di familiari, buttano rifiuti per terra. In generale le
ragazze adottano con minor frequenza, rispetto ai coetanei,
comportamenti poco educati. L’ unica eccezione riguarda il fare
confusione in presenza di persone della famiglia (il 17,9% dei
maschi dice di farlo continuamente o spesso, contro il 21,5%
delle femmine).
Per il resto, i ragazzi si dimostrano più inclini a comportarsi
in modo irrispettoso.
Il 32,6% dei ragazzi non si comporta mai in modo offensivo verso
chi gli sta intorno, contro il 36,8% delle ragazze; solo il
29,6% non butta mai rifiuti per terra, contro il 41,1% delle
ragazze; il 71,1% non fa mai chiasso in presenza di persone
estranee alla famiglia, contro il 78,5% delle ragazze. Se a
quasi tutti gli adolescenti capita di dire parolacce, i due
sessi si differenziano per la frequenza con cui lo fanno: il
18,1% dei maschi lo fa continuamente, a fronte dell’8,7% delle
femmine, il 37,2% spesso, a fronte del 31,7% delle femmine.
Quando i ragazzi si comportano in modo ineducato, come indicato
nella domanda precedente, gli adulti spiegano loro con calma
perché non bisogna agire così nel 26,2% dei casi, li
rimproverano ma non più di tanto nel 24,1% dei casi, li sgridano
nel 22,5%, li sopportano e li giustificano perché alla loro età
queste cose sono ancora permesse nell’11,6%, li puniscono nel
6,1%. Prevalgono quindi reazioni non dure da parte degli adulti
e se da un lato sono numerosi quelli che cercano di far
comprendere ai ragazzi i loro errori, sono decisamente molti
anche quelli che si dimostrano tolleranti, col rischio di non
scoraggiare i comportamenti sbagliati.
I bambini affermano molto più spesso degli adolescenti che gli
adulti che li circondano di solito reagiscono spiegando con
calma il motivo per cui certi comportamenti sono sbagliati.
Per indagare quali valori ed ideali i genitori trasmettano oggi
ai ragazzi, al campione è stato chiesto di indicare cosa
padre e madre ritengono importante nella vita. Le risposte
si distribuiscono in modo molto vario su diversi obiettivi: il
più citato è essere sempre se stessi (17,5%), seguito da essere
onesti (13,4%), farsi rispettare (12,1%), realizzarsi
professionalmente (10,9%), avere fiducia in se stessi (10,5%),
rispettare il prossimo (10,1%), studiare molto (9,8%). Vengono
citati con minor frequenza accontentarsi (5,8%), avere fede in
Dio (3,4%), essere liberi (3,2%), avere successo (1,4%).
Un terzo dei ragazzi sostiene che i genitori non fanno mai
mancare loro l’affetto (33,3%), il 16,7% risponde invece “il
necessario”, il 13,4% la fiducia, il 9,5% i consigli, il 9,4% le
prediche, il 9,1% i soldi, il 6,9% la comprensione.
Un altro aspetto cruciale per comprendere la qualità del
rapporto tra genitori e figli adolescenti è la reale presenza
e disponibilità di padre e madre nella vita dei ragazzi,
soprattutto nei momenti di difficoltà.
Se la maggioranza dei ragazzi (60,6%) afferma che nei momenti
difficili i genitori ci sono sempre, poco meno di un terzo
(31,8%) dice che a volte ci sono, a volte no; per il 3,7%,
addirittura, non ci sono mai. Sono quindi molti gli adolescenti
che possono contare sui loro genitori solo in alcuni momenti ma
non sempre.
I bambini di 7-11 anni dichiarano in percentuale maggiore,
rispetto agli adolescenti, che nei momenti difficili possono
sempre contare sui loro genitori (71,3% contro 60,6%). Questi
risultati possono indicare che i genitori, quando i figli sono
piccoli, tendono ad essere più presenti; d’altra parte si può
anche ipotizzare che fra gli adolescenti siano più numerosi i
ragazzi che sentono di non poter contare sempre sui genitori
quando si trovano in difficoltà, forse anche perché sentono
maggiormente il bisogno di essere compresi ed aiutati.
I ragazzi che affermano di poter contare sempre sulla presenza
dei loro genitori sono il 63,1% dei maschi ed il 58,9% delle
femmine. Le adolescenti dicono infatti che i genitori a volte ci
sono e a volte no nel 34,3% dei casi, contro il 29,1% dei loro
coetanei. Anche in questo caso si percepisce un malessere
leggermente più diffuso nelle ragazze, che probabilmente in
alcuni casi vorrebbero i genitori più vicini nelle difficoltà.
Risulta purtroppo molto alta la percentuale degli adolescenti
che assistono o hanno assistito ai litigi tra i propri
genitori: il 61,3% afferma che questo si verifica qualche
volta, al 19,1% capita spesso. Non capita o non è mai capitato
soltanto al 17,3% degli intervistati.
Mettendo questi risultati a confronto con quelli ottenuti sul
campione di bambini, risulta che questi ultimi assistono in
misura inferiore ai litigi tra i propri genitori. Evidentemente
di fronte ai figli piccoli i genitori sono molto più attenti ad
evitare o comunque a celare eventuali litigi.
Nelle liti molto spesso si tende ad assumere un tono di voce
eccessivo come se fosse l’unico modo per far valere le proprie
ragioni. Alzare la voce risulta la modalità di litigio più
diffusa (53,1%). Anche imbronciarsi, indicato da quasi due
ragazzi su dieci (19,2%), appare un modo di litigare abbastanza
comune. È irrilevante fortunatamente la percentuale dei genitori
che si picchiano (1,3%). Non compaiono differenze di genere
significative sul modo di litigare dei genitori. Si rileva,
tuttavia, come di fronte alle ragazze i genitori siano
sensibilmente più accorti nei loro litigi. Portano il broncio
infatti, più in presenza di queste ultime (22%) che in presenza
dei figli di sesso maschile (16,2%).
Il rapporto con gli insegnanti assume un’importanza
fondamentale per gli studenti italiani, tale da contenere o
escludere forme di scortesia nei confronti dei propri docenti.
Oltre la metà del campione (54,9%) afferma di non aver mai
risposto male ai propri insegnanti, il 36,1% lo ha fatto qualche
volta, il 5,7% spesso e una minima percentuale (2,6%) lo fa
continuamente. I maschi dimostrano una maggiore indisciplina
rispetto alle femmine: il 62,3% di queste non risponde mai in
maniera sgarbata ai propri insegnanti, contro il 47,5% dei loro
coetanei. Ai ragazzi capita più frequentemente di rispondere
male ai propri insegnanti: il 39,8% lo fa qualche volta (contro
il 32,5%), il 7,6% spesso (contro il 3,8%) e il 4,2%
continuamente (contro lo 0,8%). Prendere brutti voti non risulta
un’esperienza sconosciuta tra i ragazzi italiani, anzi. Oltre la
metà del campione (il 60,6%) afferma di aver preso qualche volta
un cattivo voto a scuola e il 33,7% addirittura spesso. Solo una
ristretta minoranza (5,2%) non ha mai preso cattivi voti. Ai
ragazzi cui è capitato di prendere brutti voti a scuola è stato
chiesto di riportare la reazione avuta dai loro genitori. Oltre
la metà del campione (60,1%) afferma che i propri genitori si
sono arrabbiati, mentre in un buon 21,1% dei casi non si sono
preoccupati più di tanto; qualche volta (5,2%) i ragazzi sono
stati invitati a studiare di più. Risultano alquanto limitate le
situazioni in cui i genitori hanno incolpato i professori del
cattivo voto (1,4%), oppure hanno attribuito le responsabilità
ad una scuola che non funziona (1,2%). Le reazioni dei genitori
per un brutto voto risultano leggermente diverse per ragazzi e
ragazze. Nello specifico, i genitori si adirano maggiormente con
i figli maschi (il 67,4% contro il 52,3% delle femmine), mentre
non si preoccupano più di tanto per le femmine (il 28,3% contro
il 14,4% dei maschi) e le invitano a studiare di più (il 6,7%
contro il 3,8%).
La scuola. Questa sezione del questionario era
finalizzata ad evidenziare difficoltà e problemi che possono
complicare il vissuto scolastico (come la presenza di barriere
architettoniche per i ragazzi con handicap) o addirittura
mettere a rischio la salute psico-fisica degli studenti (come
gli episodi di bullismo, di spaccio di stupefacenti, di abuso
sessuale, ecc.).
Rispetto a fenomeni di teppismo o atti di violenza, si evidenzia
una elevata percentuale (53%) di scuole in cui si verificano
furti; abbastanza diffusi risultano anche gli episodi di
bullismo (accadono nel 35,4% dei casi, mentre il 28,9% non
risponde alla domanda). Quasi un ragazzo su cinque (18,2%)
afferma che nella propria scuola viene spacciata droga; sono
molto frequenti le minacce e gli atti di prepotenza continui da
parte di altri compagni (35,4%) e risultano leggermente più
contenuti, ma comunque significativi, gli episodi di continue
violenze fisiche da parte di altri compagni (16,8%).
Il 22,2% dei ragazzi denuncia la presenza di atti di
discriminazione razziale all’interno della propria scuola ed il
7,2% afferma addirittura che si verificano casi di violenza
sessuale. Occorre evidenziare, inoltre, le elevate percentuali
di non risposte da parte degli intervistati in tutti gli items,
in particolare quando si affronta l’argomento droga o si parla
di discriminazioni razziali.
La presenza di barriere architettoniche nelle scuole, che
rendono difficoltoso l’accesso ai portatori di handicap, risulta
piuttosto limitata (6,4%), anche se non si deve ignorare il
33,7% di intervistati che non è in grado di rispondere alla
domanda.
L’insegnamento della religione a scuola. In un
momento in cui gli attuali conflitti geopolitici e le difficoltà
della convivenza multiculturale hanno riacceso il dibattito
sulla necessità del dialogo interreligioso, è interessante
conoscere l’opinione degli adolescenti sulla didattica della
religione, per verificare se nei nostri studenti sia predominate
l’orientamento confessionale o, al contrario, la curiosità
intellettuale verso le molteplici forme di culto. I risultati
evidenziano la compresenza, con percentuali simili, dei due
opposti atteggiamenti sopra citati: il 36,4% degli intervistati
afferma che dovrebbe essere insegnata esclusivamente la
religione cattolica, mentre il 31,5% propone che vengano
insegnate tutte. Circa un ragazzo su quattro ritiene che a
scuola non dovrebbe essere insegnata nessuna religione; un
discreto numero di studenti non esprime alcuna opinione in
merito (7,2%).
L’opinione sulla religione da insegnare a scuola assume delle
connotazioni particolari a seconda del sesso dell’intervistato:
un maggior numero di ragazzi afferma che la religione non
dovrebbe costituire materia d’insegnamento (il 25,9% contro il
19,3% delle ragazze) e ritiene opportuno insegnare
esclusivamente la religione cattolica (il 39,1% contro il 33,8%
delle ragazze). Mostrano una atteggiamento di maggiore apertura
le ragazze che nel 37,6% dei casi affermano che la scuola
dovrebbe insegnare tutte le religioni.
Lavoro. Secondo i ragazzi il lavoro assolve
principalmente ad una funzione pratica, quella cioè della
propria indipendenza economica (33,5%). Il lavoro inteso invece
come realizzazione personale e concretizzazione dei propri sogni
interessa rispettivamente il 17,3% e il 16,4% del campione. I
due sessi non si differenziano in merito al fine principale
assegnato al lavoro, quello dell’indipendenza economica: il
32,4% dei maschi contro il 34,6% delle femmine. In relazione
agli altri scopi attribuibili al lavoro, emerge che tra le
ragazze, rispetto ai ragazzi, è più alta la percentuale (21,1%
contro 13,8%) delle femmine che lavorerebbero per una mera
questione di realizzazione personale. I maschi (12%) affermano
invece in misura leggermente superiore alle femmine (8%) che il
lavoro è utile anche per dare un senso alla vita.
Ai ragazzi importa che il proprio lavoro sia innanzitutto molto
remunerativo (21,3%) e poi che sia sicuro (15,1%). Con molta
probabilità quest’ultima preferenza è il risultato della
condizione di disagio che vivono i giovani d’oggi sconfortati e
impauriti dalla precarietà e instabilità che caratterizza
l’attuale sistema lavorativo. I giovani pertanto incerti del
presente e preoccupati del loro futuro si augurano di trovare un
lavoro in qualche modo sicuro. Interessa in minima parte invece
che la propria attività lavorativa conceda molto tempo libero
(5,6%) o che sia prestigiosa (5,3%).
L’opinione che gli adolescenti hanno in merito al lavoro ideale
è influenzata dalla differenza di genere: ai maschi interessa
principalmente l’aspetto remunerativo (25,9% contro il 16,6%
delle femmine), mentre le femmine sono attratte dalla
possibilità di essere completamente indipendenti (18,0% contro
il 10,1% dei maschi). Lo scorporo dei dati per sesso rileva
inoltre che le ragazze sono in qualche modo più interessate agli
aspetti umani e relazionali, auspicando in misura percentuale
maggiore a quella dei ragazzi (12,6% contro il 6,3% dei maschi),
che il proprio lavoro crei maggiori opportunità di conoscere
nuove persone.
Il rapporto con il futuro. Questa sezione del
questionario ha inteso sondare il grado di accordo degli
intervistati su tre item, ciascuno esprimente una determinata
“filosofia di vita”, ovvero un diverso modo di rapportarsi al
futuro, in modo da verificare se, tra gli adolescenti, prevalga
un atteggiamento disfattista, fatalista o di impegno
responsabile verso la collettività.
La prima affermazione – Meglio vivere giorno per giorno, senza
farsi troppi problemi – trova “molto” (31,1%) o “abbastanza”
d’accordo (34,8%) sette adolescenti su dieci, mentre non è “per
niente” condivisa dall’8,8% del campione.
L’item che raccoglie maggiori consensi è il secondo, relativo
alla possibilità, tramite l’impegno personale, di costruire un
futuro migliore per tutti: appena il 2,6% degli intervistati
esprime completo disaccordo con questa opinione, mentre ben
l’88,6% degli adolescenti si dice al contrario “molto” (57,9%) o
“abbastanza” d’accordo (30,7%).
Il fatalismo sembra invece caratterizzare una quota
sensibilmente minoritaria degli adolescenti. Meno di 1/3 del
campione dichiara, infatti, di condividere molto o abbastanza
l’affermazione “Inutile fare progetti per il futuro, perché le
cose succedono per caso”; il 62%, al contrario, dice di
rispecchiarsi “poco” in questa filosofia di vita (30,3%) o di
non condividerla per nulla (31,6%).
Nello specifico, l’affermazione “Meglio vivere giorno per
giorno, senza farsi troppi problemi” è condivisa “molto o
abbastanza” dal 64% dei maschi e dal 69,8% delle ragazze, mentre
l’item “Impegnandosi si può costruire un futuro migliore per noi
e per tutti” trova “molto o abbastanza” d’accordo l’85,3% dei
ragazzi e il 92,2% delle coetanee. È possibile osservare, in
particolare, come il disfattismo caratterizzi una quota
estremamente contenuta del campione, soprattutto tra le
intervistate. Appena il 4,4% dei maschi e lo 0,8% delle ragazze
affermano di non condividere per niente l’idea che impegnandosi
si possa costruire un futuro migliore.
Va evidenziato, tuttavia, come le adolescenti si distinguano dai
loro coetanei, oltre che per un minor disfattismo, anche per la
presenza di una più forte componente fatalista. L’idea che sia
inutile fare progetti per il futuro in quanto le cose nella vita
avvengono per caso – condivisa da una parte minoritaria degli
intervistati di entrambi i sessi – raccoglie infatti maggiori
consensi proprio tra le ragazze, che la condividono “molto o
abbastanza” nel 34,3% dei casi (contro il 30,7% dei coetanei).
Tra di esse è inoltre più contenuta la percentuale di quanti
esprimono completo disaccordo con questa filosofia di vita,
ritenuta per niente condivisibile dal 28,5% delle intervistate e
dal 34,6% dei ragazzi.
I principali problemi socio-politici. È stato
chiesto agli adolescenti di indicare quali tra i problemi del
mondo suscitassero in loro maggiore preoccupazione. Guerra e
terrorismo sono al centro delle preoccupazioni degli
adolescenti. Circa il 58% degli intervistati è infatti
maggiormente allarmato dalla guerra (30,1%) e dal terrorismo
(27,8%). Un quinto degli adolescenti avverte in misura maggiore
il problema della fame nel mondo, mentre quote più contenute di
intervistati affermano di essere preoccupati soprattutto del
razzismo (7,5%), del sottosviluppo che caratterizza il
cosiddetto “Terzo Mondo” (7,2%), e del predominio delle Nazioni
più ricche (5,1%). Lo scorporo dei dati per sesso non rileva
differenze significative. È possibile evidenziare una
preoccupazione maggiore, da parte dei maschi, in merito a
terrorismo (fenomeno che sta al centro delle loro preoccupazioni
nel 30,4% dei casi, contro il 26,5% delle coetanee) e predominio
delle Nazioni più ricche (6,4%, contro il 4,1% delle ragazze),
mentre le ragazze sono maggiormente preoccupate dalla guerra
(33,6%, contro il 27,8% dei ragazzi).
La televisione. L’indagine rileva che gli
adolescenti non si lasciano quasi per niente condizionare dalla
presenza del bollino rosso che accompagna i programmi inadatti
ai giovanissimi. Traducendo in cifre, l’89,1% dei ragazzi guarda
i programmi televisivi pur se sconsigliati ad un pubblico
minorile: il 67,4% li vede anche da solo, il 13,1% in compagnia
dei propri amici o fratelli e l’8,6% solo in compagnia di
persone adulte. Marginale risulta la percentuale (4,0%) di chi
rispetta i divieti posti sulla programmazione televisiva.
L’analisi per sesso degli intervistati, invece, ha dimostrato
una sostanziale differenza di atteggiamento tra i maschi e le
femmine di fronte al bollino rosso. I maschi sono quelli che in
misura maggiore sono portati a vedere da soli i programmi con
bollino rosso (73,7% contro il 61,4% delle femmine).
Le ragazze appaiono invece più caute dei coetanei maschi,
preferendo guardare la programmazione televisiva vietata in
presenza di persone adulte (12,3% contro il 4,7% dei maschi) o
con i propri amici (15,9% contro il 10,5% dei maschi).
Rispetto ai risultati dell’indagine realizzata lo scorso anno (4°
Rapporto Nazionale sulla Condizione dell’Infanzia e
dell’Adolescenza) si raccolgono giudizi più tolleranti in
merito alla volgarità televisiva ma più severi sul fronte della
violenza. Ad ogni modo, la stragrande maggioranza giudica la
televisione divertente (85,4%) e interessante (77,0) e quindi un
ottimo mezzo di svago.
La televisione è giudicata violenta dal 37,8% del campione
(contro il 36,4% del 2003) e volgare dal 53,0% dei ragazzi a
fronte del 47,9% della precedente rilevazione.
I giudizi degli adolescenti, se confrontati con quelli dei
bambini, risultano più severi: è più alta tra i ragazzi infatti
la percentuale di coloro che definiscono la Tv volgare, violenta
e noiosa.
Incrociando i giudizi espressi sulla programmazione televisiva
con il sesso degli intervistati emergono lievi differenze. Le
femmine, più divertite dalla televisione rispetto ai maschi (87%
contro il 83,9%), appaiono più sensibili ed intolleranti in
merito alla volgarità (56,3% contro il 49,7% dei maschi). I
maschi appaiono invece più ottimisti delle ragazze in relazione
alla funzione educativa della televisione: 46,3% contro il 38,6%
delle femmine.
L’indagine ha messo in luce che in merito a programmi come il
Grande Fratello o Uomini e donne complessivamente il
30,8% del campione esprime pareri positivi: al 18,4% piacerebbe
parteciparvi, al 10,7% piace seguirli perché rappresentano le
cose che accadono tutti i giorni e soltanto l’1,7% li trova
divertenti.
Il resto del campione invece è piuttosto critico: un quarto del
campione (24,5%) li considera falsi e ben il 22,4% afferma di
non guardarli. Per una minoranza si tratta invece di
trasmissioni noiose (4,7%), volgari (3,8%) e stupide (1%). Se è
vero che la maggior parte degli adolescenti intervistati non
condivide questo tipo di trasmissioni televisive, è bene non
sottovalutare che un terzo del campione ha espresso giudizi
positivi. Il Grande Fratello e Uomini e Donne sono
seguiti molto meno dai maschi che dalle ragazze (28,6% contro il
16,2%) che dichiarano di apprezzarne la rappresentazione della
realtà in misura maggiore (15,5% contro il 6,1% dei maschi).
Entrambi i sessi esprimono il medesimo desiderio di partecipare
a tali trasmissioni (18,5% fra i maschi e 18,3% tra le femmine)
e la pensano alla stessa maniera sulla loro inattendibilità
(sono falsi per il 23,9% dei maschi e per il 25,4% delle
femmine).
L’indagine rivela che gli adolescenti ripongono una discreta
fiducia in merito alla veridicità delle notizie divulgate dai
telegiornali o dai programmi di informazione. Il campione
infatti ha dichiarato di credere a ciò che ascolta dai
telegiornali “qualche volta” nel 26% dei casi, “spesso” nel
29,2% e “sempre” nel 10,1%. Rispetto alle risposte fornite alla
stessa domanda dal campione di bambini, gli adolescenti
evidenziano uno scetticismo maggiore (27,5% dei bambini contro
il 10,1% degli adolescenti che credono sempre all’informazione
televisiva). Quasi un terzo del campione rapporta inoltre
l’attendibilità della notizia al programma informativo che la
diffonde (28,9%). Mettendo in relazione le risposte fornite dal
campione con il sesso degli intervistati, emerge un maggior
scetticismo tra i maschi: il 4,9% contro l’1,5% delle ragazze
non crede “mai” a quello che riportano i programmi di
informazione. Le ragazze appaiono invece molto più inclini a
giudicare l’attendibilità di una notizia in base al programma
televisivo che la propone (34,8% rispetto al 23% dei maschi).
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