LEZIONE DI ITALIANO.

Il silenzio, «difesa» dei giovani.

da Il Corriere della Sera del 20 dicembre 2004

 

Gli insegnanti milanesi hanno lanciato un allarme. I giovani non sanno più parlare. «Usano frasi monche, inciampano alla prima subordinata, risparmiano su tutto, soggetto, verbo, complemento. Ragionano per sms», ha detto un professore del Berchet: perciò anche il «pensiero si affievolisce».

Questa realtà non è soltanto milanese. Una recente indagine Ocse mette i nostri studenti al venticinquesimo posto (su ventinove) per la conoscenza della lingua e la capacità di comprendere nella lettura.

Certo la scuola ha colpe non marginali. Ma ciò che spaventa nei ragazzi non è tanto la semplificazione grammaticale e sintattica del linguaggio, quanto la loro incapacità di comunicare, se non in una ristretta cerchia. E’ appena uscito dall’Utet un dizionario del linguaggio giovanile (Scrostati gaggio!) il cui dato più appariscente è che le parole del gergo di un determinato gruppo in un altro possono avere un significato addirittura opposto. D’accordo. Qualsiasi gergo è anche gioco e invenzione. Ma mentre in passato esisteva una base comune, oggi invece si registra una polverizzazione del vocabolario. La comunicazione si stringe, si fa esclusiva, assume una sorta di assaporata e complice intimità che diventa però, più in generale, incomunicabilità.

Il «silenzio» dei giovani può essere tuttavia uno strumento (magari inconscio) di difesa. Chissà che non esprima l’attesa che qualcuno riporti all’onor del mondo la semplice e antica lezione manzoniana della «proprietà» e della «chiarezza»: cioè dell’integrità morale della parola. «I vocaboli - scriveva a un amico - hanno a dire da sé, a prima giunta, quel che vogliono dire; e quelli che hanno bisogno d’interpretazione, non la meritano». La reticenza verbale degli studenti potrebbe stimolare tutti, giovani e adulti, a ritrovare un gusto quasi ecologico della comunicazione.