Il malessere della scuola.

 

 di Luciano Verdone * da Il Centro del 20/12/2004

 

Un malessere sottile serpeggia nella scuola e si rivela, a guardare con attenzione, sotto forme diverse, nelle manifestazioni della vita quotidiana.

La prima cosa che si nota è la vanificazione della didattica. Chi opera nella scuola superiore lo sa. In certi periodi, ove più, ove meno, l’insegnamento si polverizza, perde continuità e prevedibilità. Diventa possibilità, eventualità, “accidens”, qualcosa che può anche accadere. Spettacoli, progetti, intervento di esperti, “ponti”, gite, assenze, autogestioni, assemblee, votazioni, tornei. Anche l’ora di lezione riflette l’andamento del modello televisivo. Un film con molte interruzioni pubblicitarie: avvisi, alunni che girano, collette, comunicazioni di iniziative Mentre ti rechi a scuola non pensare: “Oggi svolgerò questo programma”. Meglio adeguarsi allo stile in voga: entra in classe ed intrattieni gli alunni. La lezione, si faccia o no, va considerata con sufficienza. Con senso di sazietà. Lo stesso che gli aristocratici del Settecento ostentavano verso il cibo. Guardati dal mostrare la frustrazione dell’atleta ansioso d’iniziare la corsa. E’ goffo e dispone male.

Il secondo aspetto è la caduta del controllo. A nessuno importa sapere se hai svolto i programmi. Quando sei in cattedra, puoi essere ugualmente Montessori o Bonolis. L’importante è non creare problemi. Una miscela di noncuranza e di futilità ti renderanno superiore. Non dimenticare mai che il concetto dominante della pedagogia occidentale è - da un bel po’ - quello di “discolpa” e non quello di “responsabilità”, che regna il modello materno, empatico, complice, relazionale. E che la scuola di oggi è innanzitutto un contenitore sociale. La collettività le chiede, non tanto un corso di studi, ma di gestire la socializzazione e l’irregimentazione delle masse giovanili.

 

Terzo. La resa pedagogica. Per essere insegnanti occorre avere una fiaccola da trasmettere, un progetto di vita, una visione del mondo, un codice di valori. Più l’identità del docente va in crisi, più emergono demotivazione, elusione della didattica, investimenti alternativi, progettualità frammentaria ed estemporanea, slegata da riferimenti sistematici. In mancanza di valori, umani e scientifici, anche valutare può diventare angosciante. La fragilità del docente si rispecchia in quella del ragazzo e giunge alla resa. Il sei rosso, la promozione assicurata, la demotivazione dei migliori, la banalizzazione del recupero, l’esame di maturità trasformato in liturgia burocratica scontata. E perché gli studenti dovrebbero opporsi a tutto questo?

 

Il quarto aspetto, infine, il velleitarismo riformatore. Come tutti (insegnanti, studenti, genitori) hanno modo di constatare quotidianamente, il pianeta istruzione è, da anni, nel marasma della confusione normativa. La riforma Moratti non è che l’ultimo atto di una irresponsabile destrutturazione del sistema. Dal sapere sigillato e nozionistico del passato alla moltiplicazione delle abilità marginali ed opzionali, dalla programmazione lineare alla prolificazione di progetti privi di riferimento di cornice. Nessuno si cura che i ragazzi, da anni, accusino difficoltà crescenti nella costruzione del pensiero e del linguaggio. E, quasi non bastasse, decremento delle risorse e del personale, gerarchizzazione arbitraria degli insegnanti. Succedersi capriccioso di riforme alle elementari. Come quando, ad un gruppo di operai viene comandato di trasportare, senza motivo, un mucchio di sabbia, avanti e indietro, da un lato all’altro del cortile.

 

* Insegnante di filosofia liceo classico «Delfico» Teramo