Dalla brace alla padella [n.d.w.] Parliamo delle nostre buone riforme di Luigi Berlinguer, da www.unita.it del 6 agosto 2004
Gli studenti hanno promosso la riforma universitaria del 3+2+x. Duecentomila laureati nel 2003, il 26% in più di due anni prima; in progressiva riduzione i due più gravi mali della nostra università: la «mortalità» (prima si laureava solo il 30% degli iscritti ora più del 50%); e i fuori corso, scesi da circa il 100% a circa il 90%. Sono anche diminuiti gli «studenti inattivi», calate le mancate reiscrizioni. Assurda inefficienza e doloroso fallimento di vita per milioni di giovani, difetti lamentati ed esorcizzati in passato senza che nessuno si adoperasse per rimuoverne le cause. In questi pochi anni sono aumentati del 20% gli immatricolati, invertendo la precedente tendenza, e nonostante il calo demografico. Circa il 60% dei diciannovenni si iscrive all’università, e la percentuale sale al 76% rispetto alla totalità dei «maturi». Cresce anche, sia pure di poco, l’esperienza di periodi di studio all’estero. Anche nella scuola la tendenza è simile: conseguono il diploma di scuola secondaria tre quarti dei ragazzi, quasi quanto Lisbona fissò come traguardo medio europeo (l’80% della leva d’età). Ma Inghilterra, Francia e Germania sono già più in alto, guidano questo processo. L’Italia è oggi in media assai meno ignorante che nel passato, conformemente a quanto richiede la società (e l’economia) di oggi. Siamo più europei. Si può affermare con energia che nella società che vogliamo, già tracciata dallo «sviluppo delle forze produttive» (si diceva un tempo), tutti vadano proficuamente a scuola fino ai 18 anni, e possano proseguire negli studi superiori tutti coloro che meritevolmente lo desiderano. È un’affermazione che - con le dovute differenze - riecheggia anche nelle parole di Kerry e Edwards. È il nuovo diritto al successo formativo. È oggi la più importante e più bella delle nuove libertà. La nuova sfera dei diritti si incontra con la prima ricchezza sociale, il sapere, con il nuovo fondamentale capitale sociale, che è la conoscenza. Il nostro futuro deve partire da qui: la società è più giusta, più bella, più vivibile se è sempre più società della conoscenza. Purtroppo questo non avviene in tutto il mondo. Anzi, il sapere può essere strumento di discriminazione sociale, specie verso il mondo dei poveri: occorre da subito un’energica politica di cooperazione internazionale nel campo educativo e scientifico. Alcuni paesi emergenti stanno autorevolmente ponendo la questione nel modo giusto ed efficace. Ma la discriminazione del sapere avviene anche in Italia, nella forma subdola dell’abbassamento della qualità dell’offerta formativa. Accettando l’abbassamento della qualità si riapre la funzione discriminatrice della conoscenza, riservando nuovamente a pochi il sapere più valido ed evoluto. So bene che si tratta di materia difficile e complessa, che va tuttavia affrontata risolutamente e seriamente. Certo non nella chiave nostalgica e lamentevole dei laudatores temporis acti (di destra e di sinistra) oscillanti fra l’impotenza di trovar soluzioni e la tentazione di ricacciare i più nell’ignoranza, di restaurare un’aristocratica repubblica dei doppi asserragliati, che fortunatamente non tornerà più. Il nodo teorico e pratico da sciogliere è se e in che modo possano convivere una formazione adeguata dei più, per i grandi numeri, e il sostegno all’eccellenza, alle indispensabili punte di alta e altissima qualificazione, come lo pose anche Alberto Asor Rosa qualche tempo fa. Più qualità complessiva e più qualità individuale. Un suggerimento ci viene, per il campo universitario, dai paesi anglosassoni che vantano contemporaneamente il maggior numero di premi Nobel e l’insegnamento di massa più esteso. Al di là della sommarietà schematica della prospettazione, mi domando innanzitutto se siamo d’accordo che il 60% dei giovani rispetto alla leva d’età vada all’università (per non parlare di chi segue la formazione professionale post-secondaria). O si pensa invece di strozzare l’accesso all’università ricacciando una gran parte degli aspiranti «a fare i falegnami»? I trends oggettivi e la domanda sociale in tutti i paesi avanzati va nella direzione dell’accesso agli studi superiori, grazie alla crescita esponenziale delle conoscenze, ai rapidi accrescimenti e cambiamenti, alla complessità e articolazione sociale e professionale, a bisogni formativi differenziati nella tipologia e nei livelli e quindi a un offerta formativa flessibile, alla necessità della life long learning, il sapere come motore dello sviluppo attraverso sia la scienza-tecnologia sia la presenza di professionisti attivi qualificati diffusi: la società della conoscenza. Tuttavia, la discussione resta aperta, ed è certo interessante sentire se esistono opzioni diverse, e quali. Anche reazionarie, beninteso, purché percorribili, perché solo con queste ci si potrà confrontare. Per chi, come me, sta esattamente da una parte, contro il nostalgico lamentoso e contro il reazionario interessato solo al privilegio, la ricetta è obbligata. Ma esiste. Bisogna innanzitutto immettere continuamente nella società e nei comparti pubblici crescenti dosi di sapere, inteso sia come processi e risultati conoscitivi scientifici, tecnologici, di divulgazione, sia come persone fisiche acculturate e professionalizzate. Sollecitare a questo fine lo Stato, le altre istituzioni pubbliche tutte, le imprese, le organizzazioni sociali. È una grande scommessa collettiva che va indicata con grande forza, ripetuta ossessivamente, sostenuta finanziariamente. Un compito di tutti. In questi ultimi tempi essa mi sembra sparita dall’agenda del Paese, dalle sue priorità. Non basta però immettere personale qualificato: bisogna riconoscerne i meriti e il ruolo, sostenerlo e non mortificarlo; sapere che l’innovazione continua di cui il Paese ha bisogno in concreto la fanno innanzitutto queste persone, per realizzare se stessi e la propria personalità professionale. Per aumentarne il numero e la qualità, allora, occorreva e occorre cambiare metodo. Nel passato il sistema educativo tutto, e in particolare quello superiore, si basava su un unico titolo di studio, una ristretta tipologia di lauree, con all’inizio un forte sbarramento disciplinare fondativo: chi non ce la faceva, o non reggeva, o non ci si ritrovava, soccombeva o si arrangiava. Ieri ha funzionato, anche bene, oggi è morto. Chi è capace di risuscitarlo si faccia avanti. Oggi a mio avviso il metodo ha da essere diverso, fra l’altro già sperimentato con grande successo in altri paesi. Favorire l’accesso e la qualità non sbarrando l’ingresso con un muro, costringendo a saltarlo, ma favorendo la scorrevolezza del percorso con progressive dosi di accrescimento della quantità e qualità dei traguardi, del rigore, della complessità. In altre parole tre è diverso e minore di quattro, che è diverso e minore di cinque, che è diverso e minore di cinque più uno, cinque più due, cinque più tre eccetera. Un titolo in tre anni e meno di uno in quattro, e ancor più di uno in cinque più i successivi traguardi. Ma tutti possono conseguire il proprio titolo, di differente consistenza. E la qualità di cinque può certo essere ed è più elevata di quella di quattro. Capisco che non tutta la docenza è abituata ad applicare questo nuovo metodo ma i dati richiamati all’inizio ci dicono che anche in Italia si stanno conseguendo successi da parte di tanta della nostra docenza anche in questo campo (fra l’altro con un grande impegno di lavoro e di inventiva didattica).
Credo comunque che solo in questo modo si possa
assicurare al traguardo finale un’alta qualità e l’eccellenza, se si
pratica razionalmente il dovuto rigore nel percorso. Riassumiamo le misure:
Salvo la governance - che ora è la vera priorità - le riforme istituzionali principali europee, che riguardano anche l’Italia, sono state in parte fatte. Ora bisogna solo guardare avanti e affrontare questi nuovi traguardi, con decisione e fiducia.
Luigi Berlinguer |