I Purtroppo rischiano un’ubriacatura pedagogistica. di Ernesto Galli Della Loggia, da
Sette, inserto Corriere della Sera del 20 novembre 2003 Che cosa devono studiare a scuola i giovani italiani? Quali capacità, quali competenze devono acquisire Sono domande e questioni importanti, come si capisce, eppure accade spesso nel nostro Paese che proprio quando si tratta di dare risposte e soluzione a questioni di rilievo molti di noi non ne sappiano in pratica nulla. E colpa quasi sempre del fatto che sempre più spesso i problemi della nostra società tendono a presentarsi, e a essere presentati dalle burocrazie competenti, sotto una veste fortemente tecnico-specialistica, e ciò naturalmente rende difficile orizzontarsi, capire il vero nodo delle questioni, insomma farsi un’idea. I problemi della scuola, dei contenuti e dell’organizzazione scolastica, sono per definizione di questo tipo: ci si muove in genere in una selva di disposizioni, tra questioni di organici e insieme di contenuti strettamente intrecciati tra di loro, tra programmi che quasi nessuno conosce se non vagamente (e in genere per interposta persona dei propri figli che vanno a scuola), tra richieste sindacali apparentemente ragionevoli e vincoli di bilancio che lo sembrano non di meno. Per ritornare alle domande iniziali: che cosa e come devo no studiare a scuola i giovani italiani? Devono studiare, per esempio. in vista di diventare altrettanti apprendisti storici, altrettanti italianisti o chimici in erba, ovvero la scuola deve cercare di dargli la conoscenza più solida e vasta possibile riguardo la storia, l’italiano e la chimica? Detto altrimenti: devono apprendere soprattutto astratte nozioni di metodo (storico, scientifico eccetera), devono apprendere a concettualizzare in genere secondo i paradigmi delle singole discipline, devono innanzi tutto sapere cos’è un documento storico, qual è la differenza tra rima alternata e rima invertita, tra critica strutturale e critica sociologica, ovvero devono conoscere prima di ogni altra cosa la data della scoperta dell’America, aver letto «I Promessi Sposi», e sapere quali caratteristiche ha e come si prepara l’acido solforico? Negli ultimi venti, trenta anni, sull’onda della vecchia polemica sessantottesca contro il nozionismo, la scuola italiana ha imboccato decisamente la strada che tende, nei programmi sempre e spesso nella pratica, a privilegiare il metodo ai fatti. Il tutto all’insegna del trionfo del pedagogismo, cioè infarcendo l’intera dimensione scolastica di astruse prescrizioni docimologiche (riguardanti cioè la valutazione dei risultati degli alunni, non più affidata ai vecchi e detestati voti bensì oggi a schede, a formule esoteriche psico-attitudinali, a vacui gergalismi intellettualistici) mentre l’attenzione degli insegnanti è obbligata a concentrarsi spasmodicamente sul «lavoro di gruppo», sulle «ricerche», sull’«interdisciplinarietà», e su analoghi feticci del «pedagogicamente corretto» che ha il suo instancabile centro propulsore, ahimè, proprio nel ministero dell’Istruzione. Adesso questa ubriacatura pedagogistica minaccia di dilagare ancor più di quanto fin qui abbia fatto, andando diretta mente alla fonte, vale a dire impadronendosi della stessa formazione degli insegnanti, e in particolare di quel settore fondamentale che è rappresentato dagli insegnanti delle materie letterarie. Esiste infatti un progetto in base al quale a preparare questi insegnanti dovrebbe bastare quanto si studia nel corso di una laurea triennale in Lettere, La laurea specialistica nella quale approfondire le singole discipline che so, italiano, filosofia, storia sarebbe dunque superflua e al suo posto, invece, dovrebbe essere prescritta, prevede il progetto, una laurea specialistica sì, ma tutta quanta all’insegna della psico-pedagogia, delle cosiddette «didattiche disciplinari», dei «laboratori didattici» e chi più ne ha più ne metta. Insomma, secondo questo progetto, per diventare un buon professore di Lettere non è tanto necessario conoscere gli autori e i testi, le grandi questioni di ogni ambito disciplinare, sa persi orizzontare nelle bibliografie, avere una vasta ed effettiva padronanza delle nozioni riguardanti le singole materie. No, a fare un bravo professore servirebbero in primo luogo scorpacciate di metodo, anzi di metodologia: non tanto dunque sapere bene le cose da insegnare, nell’idea che proprio ciò sia la premessa per insegnarle anche bene, bensì conoscere a menadito le più raffinate tecniche di docenza, di intrattenimento dell’attenzione dei ragazzi: chi se ne importa se poi a tutta questa sapienza formale non corrisponde che ben poca sostanza, poche nozioni convenzionali e approssimative magari appiccicate con lo sputo. La scuola italiana si adegua così perfettamente a un certo clima generale che sia prevalendo nel tessuto profondo del Paese. Un clima di fatuità addobbato di culturalismi, un clima fatto di mancanza di profondità vera, di astruserie compiaciute e di ignoranze sostanziali. Sia chiaro, non è che manchino nelle aule scolastiche o universitarie come dappertutto serietà, impegno o, nel campo più specifico degli studi, erudizione e filologia; ma nei luoghi — a cominciare da quelli della comunicazione di massa — dove si costruisce e si manifesta la rilevanza sociale e il modello accreditato del sapere, lì per l’appunto la vittoria della forma e dell’immagine sulla sostanza, dell’effetto sulla cosa, della carta patinata sui contenuti, appare certa. E ormai anche la vecchia roccaforte delle facoltà di Lettere è sul punto di alzare bandiera bianca. |