Una riforma antidemocratica:
qualche riflessione sulla scuola della destra

di Augusto Cacòpardo,  école del 18 febbraio 2003


 





La scorsa primavera sono apparsi molti articoli e documenti sulla riforma Moratti. Il tema della riforma della scuola era diventato così scottante che fu organizzata una marcia nazionale Vicchio-Barbiana, per manifestare contro il disegno di legge-delega – approvato dal Consiglio dei Ministri il 14 marzo 2002 - e rammentare il messaggio di don Milani. Nei mesi successivi il governo ha rinunciato a bruciare le tappe e il dibattito si è affievolito sino a spengersi del tutto. Nel frattempo il disegno di legge ha però proseguito, seppur in sordina, il suo iter. Il dibattito parlamentare, apertosi il 9 aprile all’interno della 7a Commisssione Istruzione pubblica e beni culturali del Senato, è proseguito per tutto luglio ed è ripreso a settembre per concludersi il 2 di ottobre. Il disegno di legge è poi passato all’esame dell’aula che lo ha approvato lo scorso 13 di novembre. La riforma non è dunque rimandata sine die, come forse molti speravano. Il provvedimento deve adesso essere approvato dalla Camera; seguiranno poi i decreti. Questi ultimi sviluppi hanno riacceso il dibattito interrotto.

Della riforma Moratti è stato criticato l’intero impianto: dall’anticipo dell’ingresso nella scuola dell’infanzia e nelle elementari, al malcelato abbassamento dell’obbligo (termine che peraltro scompare, sotituito da diritto-dovere) scolastico, alla separazione fra istruzione e formazione nelle superiori, allo svuotamento della funzione della scuola pubblica in seguito alla caduta di ogni distinzione fra istituzioni pubbliche e private (una pericolosa china su cui la scuola era stata purtroppo già avviata dal centro-sinistra). Ma non è la struttura del progetto che voglio discutere qui. Vorrei solo offrire qualche riflessione sui valori che ispirano la riforma, perchè è da quelli che l’intera struttura discende.

Per Costituzione, una legge delega deve indicare i principi e i criteri direttivi su cui si deve basare il mandato del governo. La legge Moratti dedica infatti un lungo articolo 2 alla specificazione dei principi e criteri direttivi su cui si deve basare il lavoro del governo. Fra di essi, tuttavia, trova ben poco spazio la enunciazione dei valori che l’attuale maggioranza vuole porre a fondamento del sistema educativo. Al punto b) dell’art. 2 troviamo però un’enunciazione, tanto breve quanto pregnante, che sarà bene citare per intero:

"Sono promossi il conseguimento di una formazione spirituale e morale, anche ispirata ai principi della Costituzione, e lo sviluppo della coscienza storica e di appartenenza alla comunità locale, alla comunità nazionale ed alla civiltà europea" (art. 2, c.1b, ddl. n. 3387)

Una breve analisi di queste poche parole, alla luce della discussione tenuta al Senato (i resoconti stenografici delle sedute sono pubblicati sul sito web del Parlamento; cfr. in particolare la seduta n. 272 del 6/11/2002), ci può aiutare a comprendere quale sia la visione a cui la riforma si ispira. La prima frase merita una riflessione a sè. L’espressione "educazione spirituale e morale" mette subito in allarme uno spirito laico. Se il testo parlasse solo di educazione morale, l’allarme sarebbe ingiustificato, perchè non è certo in contrasto con lo spirito laico che i giovani siano educati ad avere dei valori. Esiste, ovviamente, una morale laica. E’ una morale sostanzialmente laica quella che ispira la nostra Costituzione (nonostante il famoso art. 7 che vi inserisce il concordato con la Chiesa cattolica), per la quale l’educazione morale non potrebbe essere altro che l’educazione ai valori che sono a fondamento della nostra democrazia: dalla sovranità popolare al pluralismo che è inscindibile dal sistema delle libertà, al rispetto della persona umana, all’eguaglianza formale e sostanziale, alla solidarietà. Il testo che stiamo esaminando menziona sì i principi costituzionali, ma il riferimento sembra introdotto un po’ a malincuore e quasi come un optional . Esso mancava, in effetti, nella formulazione originaria, ed è stato introdotto in parziale accoglimento di un emendamento dell’opposizione ("Sono incoraggiate la formazione spirituale e morale ispirate ai princìpi di laicità della Costituzione"). Il risultato è un compromesso: lo Stato può promuovere una formazione ispirata a quei principi, ma ne può promuovere anche altre che a quei principi non si ispirano. Affermazione, questa, che lascia assai perplessi in quanto riesce difficile comprendere perchè lo Stato debba, non solo riconoscere, ma promuovere attivamente percorsi educativi che non si ispirano ai principi della Costituzione, trattandosi di valori che sono il necessario fondamento di ogni ordine libero e democratico. Come si vede, il riferimento alla morale laica della Costituzione è decisamente debole, e spurio nell’origine.

Il testo collega piuttosto l’educazione morale all’educazione spirituale, che viene messa al primo posto. Se la prima, come si è visto, può essere intesa in modo che non sia in contrasto con il principio del pluralismo e della laicità della scuola pubblica, la seconda non sembra potervisi conciliare. Uno Stato veramente laico, infatti, non può favorire una visione del mondo che contempla l’esistenza dello spirito rispetto a una che non la contempla. In una società pluralista, la seconda ha diritto di cittadinanza tanto quanto la prima. Non solo, c’è buon motivo di supporre che per educazione spirituale non si intenda una possibile spiritualità laica, sganciata cioè dalle religioni istituzionalizzate. Ce lo conferma il fatto che in Senato non venne accolto l’emendamento riportato più sopra.

Tutto fa pensare, inoltre, che non si intenda neanche una educazione alla religiosità in senso lato, fondata sulla conoscenza delle varie forme che l’esperienza religiosa ha assunto nelle differenti culture e nel corso del tempo; ma piuttosto un’educazione informata alla visione cattolica. Basti pensare alla sconcertante proposta della signora Moratti di riaffermare l’obbligo di apporre il crocifisso in tutte le aule scolastiche (se la nostra Costituzione non prevede una religione di stato, perchè mai le scuole statali dovrebbero contrassegnarsi con il simbolo di una particolare religione?) o alla normativa in cantiere per gli insegnanti di religione (che riprende, ahimè, un progetto del centro sinistra), che verrebbero inquadrati negli organici della scuola pubblica pur essendo reclutati, come è noto, solo previo giudizio di idoneità rilasciato dalla autorità ecclesiastica, alla quale rimangono formalmente subordinati. Basti constatare, inoltre, che la legge Moratti assegna già alla scuola dell’infanzia – e quindi a tutti i maestri - il compito di curare anche lo sviluppo morale e religioso dei bambini (art. 2, c.1e) in palese violazione dei principi costituzionali della laicità della scuola statale e della libertà di insegnamento.

La seconda frase del testo apre una discussione che potrebbe essere assai lunga, e che non è possibile affrontare compiutamente qui. Senso di appartenenza alla comunità locale, alla comunità nazionale e alla civiltà europea sono finalità da perseguire se intesi come conoscenza storico-antropologica del territorio in cui viviamo, del paese di cui siamo cittadini, e come radicamento nel più ampio contesto culturale del continente...purchè non degenerino in campanilismo, nazionalismo o rinnovato imperialismo culturale. La terminologia usata, in verità non è molto rassicurante. La parola "comunità", in particolare, lascia da pensare: essa fa riferimento a una entità ben distinta da altre simili, a cui si appartiene, tendenzialmente, per nascita. Si tratta di un termine che è da secoli in uso nella filosofia politica e che rimanda a un’appartenenza organica: segna i confini fra "noi" e "loro", fino ad escludere gli altri; con l’attributo "nazionale" ha costituito l’idea portante delle storie nazionali e dei nazionalismi, con i relativi rischi di scivolamenti totalitari. Molto meglio sarebbe stato, e soprattutto molto più consono ai principi e all’ispirazione della nostra Costituzione, parlare invece – o almeno anche - di cittadinanza. Il concetto di "cittadinanza" contiene l’idea dell’autogoverno, della sovranità popolare (art.1 Cost.); "comunità" non le contiene. Le parole, è appena il caso di ricordarlo, veicolano spesso significati che vanno al di là di quello letterale. Le scelte che vengono fatte in un testo di legge non possono essere frutto del caso. Che ci sia stata l’intenzione precisa di non accogliere nel testo il concetto di cittadinanza, ce lo conferma il resoconto stenografico della seduta n. 272 del 6/11/2002: diversi emendamenti che introducevano l’espressione "formazione del cittadino" e "formazione civica", accanto a quella spirituale e morale sono stati respinti. I termini "cittadino" e "cittadinanza", peraltro, sono assenti non solo dal punto in questione, ma dall’intero testo del disegno di legge. Una constatazione questa, che dovrebbe certamente preoccupare ogni spirito democratico.

Quanto all’espressione "civiltà europea", essa è accettabile solo a patto che non sottintenda che quella europea sia l’unica vera civiltà o comunque quella superiore a tutte. L’implicazione non è necessaria, ma c’è qualche motivo per temere che essa fosse presente nella mente della signora Moratti e dei suoi collaboratori. In primo luogo perchè l’affermazione della superiorità della civiltà occidentale non è affatto inconsueta nella stampa del centro-destra (vedi, ad es., "Il Giornale" 20/3/2002 p.1). E poi perchè quello che manca del tutto, nella legge Moratti, è infatti la finalità della conoscenza dell’"altro", che è l’unica che può creare gli anticorpi necessari a evitare che la coscienza delle proprie radici storiche e culturali si trasformi in affermazione di superiorità e quindi in rifiuto del diverso. Questa assenza, di nuovo, è frutto di una intenzione precisa: sono stati respinti due emendamenti (questa volta all’art. 1) che introducevano le espressioni "differenze etniche" e "identità culturali"; nonchè un terzo che prevedeva l’impiego di risorse finanziarie a sostegno "degli interventi per la realizzazione della scolarizzazione dei minori stranieri e degli immigrati per la promozione dell’educazione interculturale". Il rifiuto dell’educazione interculturale è in sostanza un rifiuto dell’altro.

L’idea della superiorità della civiltà occidentale, peraltro, non è certo una novità per il nostro sistema educativo. Il sapere trasmesso nelle nostre scuole è stato sempre eminentemente eurocentrico. Quello della civiltà europea è stato sempre il punto di vista privilegiato. Nello studio della storia, della letteratura, della filosofia, delle scienze. Al punto che non c’è da stupirsi che sia opinione corrente, anche se non sempre esplicitata, che l’unica vera civiltà sia la nostra. Il mondo islamico, la cultura indiana, la civiltà cinese, gli imperi pre-colombiani, per non parlare delle culture senza scrittura, compaiono nei nostri testi solo nel momento in cui interagiscono – in genere scontrandosi - con l’Occidente, per scomparire subito dopo. La civiltà occidentale, insomma, al centro di tutto.

Abbiamo sempre avuto, in altre parole, un sistema educativo malato di etnocentrismo, quella diffusa malattia che induce a porre il proprio universo culturale al centro, e quindi al di sopra, di tutto. Una malattia antica che noi conosciamo fin dai tempi dei Greci, che si credevano decisamente superiori ai barbari, che erano tutti gli altri; e da cui non sono state immuni neanche le altre grandi civiltà come quella cinese, nè tanto meno i popoli senza scrittura. Ormai da quasi un secolo, però, le scienze dell’uomo hanno svelato il pregiudizio etnocentrico come tale. Che non ne fosse consapevole Gentile nel 1924, potrebbe anche essere ammissibile. Ma che la stessa impostazione eurocentrica venga riproposta nel 2002 è inaccettabile. Quello di cui ci sarebbe bisogno adesso, invece, è di sviluppare la coscienza di appartenenza al pianeta intero, oltre che alla comunità locale, all’Italia e all’Europa; ovvero l’idea di una cittadinanza universale. La cittadinanza, in realtà, non può essere concettualmente altro che universale, perchè le ripugna l’idea che vi siano esseri umani che non godono dei diritti di cittadinanza. Se vogliamo un mondo in pace, quel "noi" in cui ci idenitifichiamo dovrebbe estendersi a tutto il pianeta. E perchè questo sia possibile, dobbiamo favorire la crescita della coscienza della diversità culturale insieme alla coscienza di una comune umanità. L’"altro" che non si conosce fa paura e può essere percepito come una minaccia. Bisogna quindi conoscere l’"altro" e riconoscerlo cittadino. L’alternativa è lo scontro fra le civiltà, a cui già stiamo assistendo, e che ha già portato distruzione e morte in molte parti del mondo.

Ma non è questo l’intendimento espresso nel testo di legge. Ancora una volta, come è logico aspettarsi dalla formulazione di un provvedimento legislativo, l’assenza dell’idea della comune appartenenza al pianeta, non è frutto di una dimenticanza, ma di un rifiuto: è stato infatti respinto un emendamento (all’art. 1) che parlava di cittadinanza "mondiale", oltre che europea e nazionale.

L’impressione che si trae dalla lettura del disegno di legge-delega, quindi, è che la filosofia della riforma Moratti sia che la scuola non abbia il compito di educare alla coscienza di una comune umanità (è stato respinto anche un emendamento che voleva introdurre un riferimento alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo) e meno che mai alla cittadinanza, ma piuttosto quello di formare lavoratori, dotati di scarso spirito critico, in grado di soddisfare le esigenze del sistema produttivo. Un orientamento confermato da una dichiarazione rilasciata dalla signora Moratti nel corso di una intervista televisiva che mi è capitato di seguire insieme ad alcuni studenti.

Il ministro dell’Istruzione ha detto "Niente politica, niente ideologie nella scuola". Anche questa frase richiede una breve riflessione, che sarà utile a farci comprendere i principi ispiratori della riforma.

Secondo il dizionario italiano per ideologia si intende "il sistema concettuale e interpretativo che costituisce la base politica di un movimento o di un partito" (Devoto-Oli). E’ la discussione di questi sistemi di pensiero che la ministra vorrebbe bandire? In questo caso la stessa storia della filosofia sarebbe in buona parte bandita a cominciare da Platone, e anche le letterature dovrebbero subire pesanti tagli, per non parlare dell’economia politica e del diritto pubblico. O vuole dire piuttosto che gli insegnanti, e di conseguenza anche gli studenti, non debbono esprimere idee, e soprattutto non idee in contrasto con quelle del governo? Per un’esponente di una coalizione che ha fatto – peraltro con credenziali assai dubbie - della libertà la sua bandiera, si tratterebbe di una affermazione inaudita. E in effetti la signora Moratti non l’ha pronunciata nel corso di quella trasmissione televisiva. Ma che quest’idea non sia estranea all’area di governo è dimostrato dall’episodio di quel deputato di Forza Italia che ha istituito un filo telefonico diretto per gli studenti che volessero denunciare i professori che criticano Silvio Berlusconi; e nessuno del suo partito, per quanto mi risulta, lo ha criticato o smentito. Di simili tecniche di delazione – su scala molto più ampia, ovviamente - mi ha raccontato una insegnante rumena rammentando i tempi della dittatura di Ceausescu.

Soffermiamoci ora brevemente sul significato del termine "politica", anche se non dovrebbe essercene bisogno. In senso deteriore la politica viene identificata con la lotta per il potere e la propaganda partitica; ed è ovvio che gli insegnanti non debbano fare propaganda di nessun tipo e che debbano evitare come la peste ogni forma di indottrinamento o proselitismo. Ma la politica in senso proprio è un’altra cosa: "scienza e tecnica, come teoria e prassi, che ha per oggetto la costituzione, l’organizzazione, l’amministrazione dello Stato e la direzione della vita pubblica" (Devoto-Oli). La sfera politica, cioè, non è altro che la sfera delle questioni di interesse comune a tutti i membri di una società, dei problemi che riguardano tutti. Così intesa, la conoscenza del dibattito politico non è altro che un aspetto dell’educazione alla cittadinanza. Ma per il ministro Moratti, l’abbiamo già visto, l’educazione alla cittadinanza deve rimanere fuori dalla scuola. I giovani non devono essere quindi educati all’esercizio dei loro diritti democratici, non devono imparare a partecipare alle decisioni su questioni di interesse comune? Non devono acquisire gli strumenti per seguire le vicende politiche interne ed internazionali? Ci spieghi perchè, signora Moratti. Don Milani, che faceva lezione sui giornali, sicuramente si rivolterà nella sua tomba, nel piccolo cimitero di Barbiana.

E comunque si può forse negare agli insegnanti la libertà di espressione del pensiero garantita a tutti (e quindi anche agli studenti) dall’art. 21 Cost., o la libertà di insegnamento (art. 33), che comprende anche la libertà di insegnare secondo i propri valori? E non è regola fondamentale di una democrazia che tutti i valori abbiano diritto di cittadinanza purchè non siano in contrasto con i suoi principi ispiratori? Il pluralismo della scuola pubblica, riconoscendo le medesime libertà a tutti gli insegnanti, qualunque sia la loro appartenenza ideale, garantisce peraltro che gli allievi siano esposti a una pluralità, appunto, di posizioni e di punti vista. Ma la destra non vede di buon occhio nè la libertà di espressione del pensiero (come dimostra l’iniziativa del deputato di Forza Italia ricordata più sopra), nè tantomeno la libertà d’insegnamento e di ricerca, sulle quali si sono già sentiti foschi commenti e che sono state al centro della incredibile polemica sui manuali di storia (Storace, di AN, aveva proposto l’istituzione di una commissione di controllo sui contenuti dei libri di storia). Un emendamento (all’art. 1) che vi faceva riferimento è stato del resto prontamente respinto.

A questo punto sembrerebbe doversi essere esaurito l’elenco dei diritti di libertà chiaramente invisi alla coalizione che ha voluto inspiegabilmente chiamarsi Casa delle libertà. E invece no. Da quanto sopra, risulta chiaro che lo stesso pluralismo non è affatto caro alla nostra ministra, nè peraltro al governo intero che sembra aver fissato nei fatti – basti rammentare l’eliminazione dei commissari esterni agli esami di stato e il piano di finanziamenti in cantiere - come suo obiettivo prioritario il rafforzamento della scuola privata, che non è tenuta ad applicare il principio pluralista nel reclutamento degli insegnanti e che in molti casi non lo fa per scelta dichiarata.

Esaminando gli emendamenti respinti si fanno anche altre scoperte interessanti, o meglio preoccupanti. E’ stato respinto, ad esempio, un emendamento che introduceva, accanto al rispetto delle scelte educative della famiglia (art 1, c.1), il rispetto delle scelte dello studente. Bocciato un emendamento che affidava al parlamento, piuttosto che al governo, il compito di verificare periodicamente l’attuazione della riforma. Respinto ancora un emendamento che mirava a prevedere interventi "per la realizzazione dell’integrazione scolastica delle persone in situazioni di handicap...". Respinto anche un emendamento che proponeva un impegno finanziario per l’"estensione della scuola dell’infanzia statale su tutto il territorio nazionale". Dulcis in fundo: respinto pure un emendamento che impegnava il governo a intervenire "per la realizzazione di nuove strutture per l’edilizia scolastica", e non solo per l’adeguamento delle strutture esistenti come prevede il testo approvato.

Che conclusioni si possono dunque trarre dall’analisi delle poche ma, come si è visto, molto pregnanti parole contenute nel testo di legge o pronunciate dalla nostra ministra, e dall’esame del dibattito parlamentare? Una sola, generale e assai semplice. Che i principi su cui la cosiddetta "Casa delle libertà" vuole fondare la sua riforma sono mille miglia lontani dai principi di libertà e solidarietà su cui si dovrebbe basare il sistema scolastico di un paese veramente democratico.